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06/06/2023

Una scuola che funziona non ha bisogno di orientatori

di Paola Lattaro

Qualche settimana fa Pietro Di Martino, docente dell’Università di Pisa, in un bel seminario sul ruolo del problem solving in matematica, tenuto all’Università “Federico II” di Napoli, ha citato il professor Paolo Guidoni, che nel libro Il senso di fare scienze (IRRSAE Piemonte - Bollati Boringhieri, 1995) scrive:

Uno dei mali più gravi della scuola si chiama «far finta». Imparare a far finta, giorno dopo giorno; insegnare a far finta, giorno dopo giorno; affaticarsi, giorno dopo giorno, perché il far finta di oggi sia coerente con quello di ieri e di domani, il far finta dell’allievo con quello dell’insegnante, dei colleghi insegnanti, del direttore, dell’ispettore, della circolare ministeriale.
Si dovrebbe stare a scuola per capire e per spiegare, cioè per aiutare a capire; per imparare, anche, e quindi per insegnare-aiutare a imparare. Ma la scuola si trasforma da subito (so che non è sempre e dappertutto cosi, ma vogliamo guardare le cose in faccia?) in un totalizzante laboratorio di far finta. Per favore, fai finta di aver capito - per bene, però: in modo che io possa far finta che tu abbia veramente capito, in modo che tu possa illuderti che questo significa aver capito, e sapere, in modo che tutto vada avanti cosi, da un programma all’altro, da una circolare all’altra, da un ciclo all’altro: tanto, del diritto di tutti a essere aiutati a capire a nessuno importa, basta che la macchina funzioni senza tanti schizzi e rumori e soprassalti. Poi, a discriminare i prodotti ci penserà la vita.

Queste parole mi sono tornate in mente quando sono stata invitata dall’ex assessore all’istruzione del Comune di Napoli, Annamaria Palmieri, attualmente dirigente a Torino, ad intervenire in un’iniziativa pubblica organizzata a Napoli con rappresentanti del mondo della scuola e del Ministero dell’Istruzione (non sono ancora pronta per chiamarlo Mim, non credo che lo sarò mai), per un confronto sulla riforma che introduce in classe la figura dell’orientatore. Un docente cioè che, attraverso 30 ore curricolari, dovrebbe affiancare gli studenti e aiutarli a capire chi sono, dove vogliono andare, cosa vogliono essere. Mi sono tornate in mente le parole così amaramente vere di Guidoni, perché sono portata a credere che questa novità dell’orientatore sarà un altro “far finta” della scuola italiana e non servirà affatto ad aiutare qualche studente a “capire”.
A convincermi ancora di più che sarà così, il fatto che l’orientatore sarà formato con un corso online di 20 ore, e l’apoteosi della scuola che fa finta è la scuola che si fa online.  Ma credo che sarà l’ennesimo fare finta soprattutto perché se si volesse fare veramente, allora si affronterebbero, subito, seriamente e con cognizione di causa, i temi sui quali davvero c’è l’urgenza evidente di dover intervenire. Temi quali il reclutamento e la formazione dei docenti, la dispersione scolastica, la didattica, l’edilizia scolastica, l’alleggerimento di tutta quella burocrazia che soffoca insegnanti e dirigenti e che toglie energia, tempo e spazio alle cose davvero importanti di cui ci dovremmo occupare. Perché una scuola che funziona, capace di far appassionare gli studenti, di farli innamorare della cultura, del sapere, della bellezza, di far venire fuori i loro talenti, capace di farlo nel quotidiano grazie, prima di tutto, a docenti adeguati al compito che devono svolgere, allora è una scuola che orienta, che naturalmente orienta.


E invece come funziona da noi? C’è un orientamento che comincia a monte,  che è condizionato dallo status sociale di provenienza e che, ovviamente con delle eccezioni, orienta da subito le future scelte degli studenti perché la società e la scuola non sono in grado di “rimettere le cose in pari”. In base al background familiare già si può fare una previsione, per esempio, sulla scuola secondaria di secondo grado alla quale un ragazzo o una ragazza approderà (se ci approderà). Se sei, socialmente parlando, uno “sfigato”, è molto probabile che frequenterai un istituto tecnico o ancora di più un professionale e che non penserai di laurearti. Invece quanti ragazzi conosciamo realmente che, figli della borghesia, di genitori laureati e benestanti, frequentano una scuola che non sia un liceo classico o scientifico o, al massimo, linguistico?  Qualcuno c’è, certo, ma si tratta di una minoranza che non incide sui numeri. Ed è pure ovvio che quando non si favorisce la contaminazione sociale, quando non c’è una sana e necessaria promiscuità sociale, quando non si mischiano le carte, si creano situazioni e ruoli sociali che tendono a cristallizzarsi, che non sono passibili di modifica, che non evolvono.

Quanto rivoluzionario sarebbe invece cambiare la narrazione delle scuole normalmente considerate di serie B, renderle così forti e invitanti (e potrebbero esserlo assolutamente) da fare in modo che siano prese in considerazione anche dagli studenti che considerano scuola solo il liceo? E, al contrario, adoperarsi perché i licei non siano considerati le scuole per “i bravi”, le scuole della competizione, del merito. Poi, guarda caso, a “meritare” sono sempre gli studenti e le studentesse provenienti da contesti familiari favorevoli, privilegiati, quelli che hanno i soldi per l’insegnante privato al primo 4. Perché non fare sì, invece, che tali scuole siano accessibili a tutti (che non significa affatto scuole ”facili”)?  Fare in modo, quindi, che ad essere accessibile a tutti sia una certa idea di sapere e di cultura, che deve essere per tutti. 

Poi c’è, secondo me, un altro tipo di orientamento, un orientamento strisciante, da mettere in relazione con le materie per cui noi docenti spesso valutiamo che uno studente non sia "portato". Ho più volte avuto modo di constatare che la passione per un certo tipo di sapere, da parte dei discenti, è quasi sempre frutto della fortuna di avere un bravo docente come mediatore, così come il rifiuto per una disciplina spesso è la conseguenza della maniera in cui quella disciplina viene presentata in classe. In particolare poi, insegnando matematica, so quanto sia facile liquidare le difficoltà che uno studente ha in questa materia (e in generale nelle materie scientifiche) con un “non è portato”, quando invece gli studi di neuroscienze (pensiamo per esempio a quelli di Dehaene) ci dicono che tutti i bambini sono dotati di capacità matematiche innate.
Come afferma, infatti, Dennis Sullivan
, professore alla Stony Brook University  e alla  City  University di New York:
[...] la matematica è un’attività naturalmente “umana”, tanto che i bambini, prima ancora di andare a scuola, sono quasi tutti dei piccoli matematici: sono incuriositi dai numeri e dalle figure geometriche. Poi vanno a scuola e imparano “qualcosa” che viene chiamata matematica e che li allontana dalla disciplina.
E così accade facilmente che, andando avanti con il percorso scolastico, quel bambino che “giocava” con la matematica si scontri con docenti che gli girano le spalle tutto il tempo, per scrivere alla lavagna formule calate dall’alto e quindi senza senso, da imparare a memoria, e che quel bambino si scontri con la demonizzazione dell’errore, quando invece l’errore è la sola strada per capire e imparare, si scontri con il fatto che essere bravi in matematica per molti insegnanti voglia dire essere veloci a rispondere, e se sei più lento, se hai bisogno di più tempo per pensare, allora non sei buono.
Lezione dopo lezione, così, il rapporto emotivo con la disciplina inesorabilmente cambia e se prima quel bambino si divertiva quando faceva matematica adesso si angoscia e tutto si risolve con il fatto che “non è portato”, e queste poche parole orientano eccome la sua vita! Così può accadere che, già alle alla secondaria di primo grado, la scuola da frequentare dopo si scelga in base all’importanza che ha la matematica in quell’indirizzo e, se poi si andrà anche all’università, si scelga il corso di laurea senza esami di matematica. Perché “non sei portato”, così ti è stato detto, così ti è stato fatto capire, di questo sei stato convinto e te lo porterai dietro per tutta la vita…

Per concludere, è opportuno porsi una domanda. Sicuramente in questa ennesima riforma, ad opera del governo attuale, saranno investiti dei soldi. Non avrebbe molto più senso investirli, per esempio, per formare docenti che non dicano mai più la frase “non sei portato” ma che, invece, quando un allievo è in difficoltà, abbiano gli strumenti migliori per aiutarlo a trovare la strada per arrivare al successo in quella disciplina, facendo in modo quindi che quel ragazzo, quella ragazza, non decida la sua vita unicamente essendo condizionato dalle difficoltà incontrate?
Un altro tipo di orientamento, strisciante anche questo, è dato dall’assenza, in determinati indirizzi, di discipline che dovrebbero essere patrimonio di tutti. Perché nei tecnici e nei professionali la filosofia non è proprio contemplata? Come se questi ragazzi non avessero diritto ad accedere a quegli strumenti che consentono di pensare e di pensare meglio. La filosofia è uno di questi, eppure a molti studenti e studentesse essa è totalmente negata. Non far studiare filosofia non significa già orientarli verso una vita in cui avranno meno risorse per porsi domande e per cercare risposte? 

Non è su tutto questo che dovremmo, allora, riflettere e intervenire per consentire alle ragazze e ai ragazzi delle nostre scuole di imparare a orientarsi giorno dopo giorno, nel quotidiano che vivono in classe, senza bisogno di introdurre nuove figure, probabilmente poco credibili? Ancora una volta una riforma che francamente non ci serve, che non risponde alle vere urgenze del mondo dell’istruzione, ma al drammatico e imperante “far finta” della scuola italiana. Ancora una volta mi domando se chi decide per la scuola, la scuola la conosca e la ami.  Ritorno allora a uno che la scuola la conosceva e la amava veramente, ritorno cioè a Paolo Guidoni, faccio mie le sue parole e le giro a tutti quelli che vorrebbero una scuola vera, sensata, motivante e bella:

Ogni società e ogni cultura ha la scuola che si merita (perché è la scuola che sceglie di avere). Ogni scuola ha la società e la cultura che si merita (perché è la società e la cultura che sceglie di formare). Vogliamo provare a rompere il cerchio della riproduzione incrociata del peggio?

 

 

Parole chiave: orientamento

Scrive...

Paola Lattaro insegnante, socia dell’associazione culturale Matematici per la città, impegnata da anni in progetti didattici mirati a contrastare la dispersione scolastica.

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