In questi tempi di scrutini, molto spesso ci si è imbattuti nel tema dell’equità, che il mondo degli insegnanti ha tanto a cuore quando è chiamato a produrre valutazioni. Nessuno oserebbe negare il nesso forte che c’è tra equità e valutazione, cui andrebbe ricondotto anche il concetto di merito, forse caduto un po’ in disuso negli ultimi tempi dopo la sbornia renziana della Buona Scuola che ha reso la parola particolarmente invisa agli insegnanti. E forse mai proprio come negli anni del merito applicato al lavoro dei docenti questi ultimi hanno vissuto su se stessi la triangolazione valutazione-equità-merito, che qui provo a mettere a fuoco. In realtà il triangolo si presterebbe a diventare un quadrilatero se a quei tre termini aggiungessimo il termine oggettività, altra parola produttrice di mitologie scolastiche.
Tutti e quattro i termini evocati creano una scena di forte responsabilità, se si pensa al valore educativo immenso che contiene in sé il valutare scolastico e alle conseguenze che quest’ultimo produce sulla costruzione dell’autostima dei bambini e dei ragazzi, che giustamente sono interessatissimi a valutazioni eque, che riconoscano i loro meriti e sanzionino i demeriti degli altri, e che per questa loro virtù rivestano i caratteri della verità, che è la traduzione esistenziale del concetto di oggettività.
Di questa responsabilità gli insegnanti appaiono molto consapevoli quando devono produrre valutazioni “ufficiali”, come avviene in questa fase di fine anno scolastico. Alcuni vivono questa responsabilità con equilibrio interiore, coscienti della fallacia di ogni giudizio umano, ma anche consapevoli di avere agito con coscienza onesta; altri avvertono, pur all’interno della stessa serenità di coscienza, un’angoscia insanabile, che affonda le sue radici, oltre che nella serietà del compito valutativo, nel background esistenziale personale, fatto di ansie e angosce plurime che si riverberano anche nella professione. Prendiamo in considerazione solo queste due categorie di insegnanti, pur non esaurendo esse l’intero paesaggio docente. Escludo infatti burocrati e ragionieri della valutazione, che interpretano il loro compito con la calcolatrice, nella convinzione che il valutare abbia a che fare con i calcoli aritmetici.
Questa esclusione, così apparentemente radicale, va brevemente motivata proprio alla luce del nostro quadrilatero concettuale. Il burocrate della valutazione pratica la giustizia retributiva, ovvero una sorta di legge scolastica del taglione per la quale c’è una corrispondenza rigida tra meriti e premi oppure tra demeriti e castighi. E questa corrispondenza si esprime in modo aritmetico per essere sottratta ad ogni possibilità di contestazione. Oggettiva. In questa prospettiva - per la quale in genere il merito si lega alla prestazione - i calcoli del burocrate agli occhi del mondo appaiono “equi”, per cui se alzo il voto a Fabio lo devo alzare anche a Simona perché se non lo faccio “non è equo”. Di più: se promuoviamo Fabio, e quindi lo avanziamo al numero “sei”, occorre alzare i voti anche a Simona, Marco e Ylenia, perché questi ultimi rischierebbero la contaminazione dell’appestato miracolosamente approdato alla loro stessa condizione.
Qualcuno potrà osservare che questo genere di ragionamenti, di ordine ragionieristico, è talmente diffuso che escludere dal novero degli insegnanti degnamente valutanti questo popolo di calcolatori significa praticamente ridursi ad una minoranza sparuta. Sarebbe un’osservazione pertinente a mio parere, per il fatto che questa modalità contabile di valutare pratica un uso distorto di termini nobili quali equità e merito, potendosi avvalere della sistematica insipienza di una politica scolastica che nella valutazione mantiene pervicacemente i numeri. Per questo non ragiono di loro ma guardo e passo. Anzi, neppure guardo.
Torniamo al nostro quadrilatero, partendo dall’equità. Ci sono vari generi di equità o giustizia che dir si voglia, e se ne parla fin dai tempi biblici (“Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei…”), per approdare al celebre “Fare parti uguali tra disuguali” di memoria donmilaniana. Le aule di giustizia conoscono la complessità del problema, quando i giudici e gli avvocati si scervellano su attenuanti o aggravanti. Certo è, in un’ottica di complessità, che le valutazioni sono tutte alquanto “ingiuste” perché disuguali sono i casi umani. Come dire che ogni valutazione fa storia a sé. La differenza tra i casi è un elemento di complessità, e come si è visto può procurare ansia negli animi più sensibili, ma anche sfida intellettuale ed umana negli animi disposti ad entrare nel Complesso. Si comprende in altri termini che la cosiddetta giustizia retributiva presenta evidenti limiti, e nella scuola risulta troppo spesso impraticabile, seppur praticata dai ragionieri.
La complessità del nesso valutazione-equità si indaga proprio evocando l’idea di merito, che apre scenari importanti di riflessione. Il merito a scuola è una storia. E’ un cammino da un punto ad un altro punto, così come il demerito. Solo un film può dare conto del merito, non certo una fotografia. Quest’ultima può dirci qual è il punto in cui si trova l’oggetto della nostra osservazione, ma del merito non ci dirà niente se il soggetto che osserva la foto non metterà in relazione con essa altre foto. Quindi per essere equi occorre essere narratori. E se si è narratori attendibili, il risultato della narrazione non potrà essere un numero perché proprio quest’ultimo finirebbe per negare la narrazione configurandosi come segnale statico che soggiace ad una logica binaria: o è uguale ad un altro numero o è diverso da un altro numero. Non può essere un po’ uguale o un po’ diverso. Sei è uguale a sei. Ed è diverso da sette. A questo punto ogni valutato non è irripetibilmente differente da un altro, come vorrebbe la realtà, ma diviene catalogabile o come un altro, esattamente come un altro, oggettivamente come un altro, oppure diverso, in basso o in alto.
Si dirà che è “più” di un altro chi ha più merito. Giusto. E in questo caso i numeri registrerebbero questo “più merito” o questo “meno merito”. Se così fosse, viva i numeri. Perché costituirebbero la trascrizione delle narrazioni compiute sui singoli oggetti da valutare. Bene, chi usa a scuola i numeri così? Credo nessuno. Perché? Perché significherebbe che Fabio, scuola di quartiere popolare disastrato che ha meritoriamente compiuto progressi miracolosi, avrebbe il suo 10 a fronte di Simona, stesso quartiere, che non è mutata in nulla e avrebbe il suo 7. Poi magari li metti a confronto e Simona appare “meglio”. Alla faccia delle storie: 7 a Fabio e 10 a Simona. Per essere “equi”.
Il merito dunque è narrativo o non è. E l’equità sta nel riconoscimento valutativo del merito. Cosa ci stia a fare la parola oggettività nel quadrilatero a questo punto va spiegato, perché è solo tenendola nel quadrilatero che si può sperare di comprendere qualcosa che contribuisca a costruire un barlume di cultura valutativa nel mondo della scuola. L’oggettività sembra la compagna dell’equità, ed il suo contrario l’alleato dell’iniquità. Se a scuola si dicesse “La mia valutazione è soggettiva”, l’affermazione suonerebbe scandalosa ai più, perché chi afferma questo sarebbe subito sospettato di parzialità e di favoritismo. L’oggettività invece terrebbe al riparo da questi rischi e garantirebbe l’equità, ma è probabile che, una volta legate insieme oggettività ed equità, si rischi di lasciare fuori il merito irripetibile di ciascuno. E’ questo groviglio concettuale che rende estremamente complesso il valutare scolastico, ed è a causa di questo groviglio che la politica scolastica, il senso comune ed i docenti ragionieri si nascondono dietro le liturgie dei calcoli, sotto la custodia canina del buon Argo. Nomen omen.
Il risultato è che solo gli stolti dichiarano di essere soddisfatti di questa valutazione. I saggi - pochi - si rassegnano e praticano - o fingono di praticare - le liturgie a base di calcoli perché tanto “le famiglie ed i ragazzi questo vogliono” (si perdoni il sicilianismo sintattico alla Montalbano ma qui ci vuole). Forse occorrerebbe una palingenesi proprio a partire da quel che veramente vogliono i ragazzi e le famiglie dalla scuola. Qualcuno dentro la scuola glielo chieda. I dirigenti invitino i docenti a chiederglielo. Su quel quadrilatero si potrebbero scoprire cose che noi umani…