Proponiamo alcune riflessioni dopo la decisione del Ministero di confermare l'impiego dei voti nella valutazione finale delle classi di passaggio di ogni ordine di scuola.
Preso atto di questo, a lato pubblichiamo anche una nostra proposta rivolta a tutti coloro che dissentono da questa scelta.
L’ordinanza predisposta dal MI concernente “la valutazione finale degli alunni per l’anno scolastico 2019/2020 e prime disposizioni per il recupero degli apprendimenti” rappresenta una tappa decisiva per la trasformazione della scuola in Italia.
Bisogna prestare molta attenzione a questo documento.
Esso fissa le norme per la conclusione di un anno scolastico decisamente anomalo definendo dei criteri di valutazione che cozzano tuttavia contro l’eccezionalità della situazione: le procedure da adottare per l’attribuzione dei voti numerici e nel caso si siano accertate delle performance insufficienti, appaiono stabilite su obbiettivi dettati non da uno stato di necessità ma corrispondenti a un preoccupante e sconcertante quadro di una progettazione falsificata a futura memoria.
L’ordinanza dichiara che il suo fondamento si trova nei principi previsti nell’articolo 1 del Dlgs del 13 aprile 2017, n. 62, che recita:
La valutazione è coerente con l'offerta formativa delle istituzioni scolastiche, con la personalizzazione dei percorsi e con le Indicazioni Nazionali per il curricolo e le Linee guida di cui ai decreti del Presidente della Repubblica 15 marzo 2010, n. 87, n. 88 e n. 89; è effettuata dai docenti nell'esercizio della propria autonomia professionale, in conformità con i criteri e le modalità definiti dal collegio dei docenti e inseriti nel piano triennale dell'offerta formativa.
Si inizia dunque con un riferimento alla normale prassi di offerta formativa e di personalizzazione dei percorsi che la scuola definisce e struttura con piani dettagliati per l’intero arco temporale del curricolo.
Ma poi, nel prosieguo, l’ordinanza non può fare a meno di rilevare, data la situazione emergenziale che si è cercato di risolvere con un passaggio dalla didattica in presenza a forme di comunicazione a distanza, i necessari aggiornamenti del PTOF. E qui si è scatenata la richiesta alle scuole di una serie di dati burocratici facendo finta che si sia fatta della vera didattica salvo qualche sforbiciata ai “programmi”. Infatti si chiede di “aggiornare” “le progettazioni definite a inizio anno scolastico al fine di rimodulare (il corsivo è nostro) gli obbiettivi di apprendimento, i mezzi, gli strumenti e le metodologie sulla base delle intervenute modalità di didattica a distanza imposte dalla contingenza sanitaria internazionale”; si chiede anche di individuare, "per ciascuna disciplina, i nuclei fondamentali e gli obbiettivi di apprendimento non affrontato o che necessitano di approfondimento, da conseguire attraverso il piano di integrazione degli apprendimenti di cui all’art. 6”. Un ponte, dunque, a futura memoria.
Questo articolo 6 riguarda il piano di approfondimento individuale relativo ai ragazzi che hanno riportato insufficienze, da allegare al documento di valutazione. I voti negativi vanno riportati nel verbale e nel suddetto documento, cui i docenti allegheranno ora, e non a settembre, il piano di approfondimento. Per ultimo vengono modificati anche i tempi di delineazione dei criteri di valutazione: non si prendono in considerazione quelli stabiliti all’inizio dell’anno scolastico, ma si richiede una loro formulazione a metà maggio, Nella buona sostanza c’è un profondo rimescolamento delle carte, partendo dai traballanti presupposti di una presunta didattica.
Ci chiediamo infatti come possa ciò che è accaduto in situazione di emergenza (la chiusura di tutte le sedi scolastiche con la conseguente interruzione di tutte le attività in sede), essere comparato ai criteri e alle modalità della didattica e della relazione educativa a scuola: è proprio il ritmo stesso organizzativo di metodologie, di attività, relazioni, ecc., che è reso possibile in tutta la sua pienezza e complessità solo nella specificità concreta di una sede scolastica, a essere stato alterato e/o impedito in modo brusco e inaspettato. E con le scuole in totale emergenza, come si può pensare che si sia potuto mettere mano a qualcosa che continuasse “a distanza” a realizzare la “normalità”, sia pure con qualche taglio?
Si pensi, solo per fare un esempio tra i tanti, che cosa ha rappresentato questa pandemia per gli insegnanti e gli allievi delle classi iniziali di ciascun ciclo -ma anche per alcune degli anni successivi nate da fusioni di classi precedenti-.
L’individuazione delle caratteristiche psicologiche, delle modalità cognitive di ciascun allievo, e le conseguenti scelte delle metodologie relazionali e didattiche più opportune hanno bisogno della pienezza del tempo scuola e di una gradualità progressiva dei monitoraggi, che la scansione del I quadrimestre intercetta ancora in modo frammentario e incompleto. La chiusura delle sedi di fatto ha interrotto questo processo delicatissimo, aggravando anche i fenomeni di dispersione di alunni disagiati per vari motivi, di carattere familiare, economico, culturale, per non parlare di quelli con particolari problematiche di salute e di sofferenza relazionale. E questo disagio non ha riguardato solo la scuola dell’obbligo, anzi ci chiediamo quanti allievi di classi prime della secondaria di secondo grado possano -in condizione di basso coinvolgimento - essere “scomparsi” dalla partecipazione in chat e rete.
Il racconto delle esperienze di tanti docenti e genitori di ciò che è successo con la pratica della comunicazione a distanza – noi non usiamo il termine DAD, perché abbiamo un altissimo rispetto del concetto stesso di didattica - ha fatto emergere quanto quella dimensione organizzativa non sia stata adeguata, proprio perché lo scopo è stato quello di simulare una normalità impossibile. Gli insegnanti vi hanno messo in molti casi buona volontà e spirito di sacrificio, e hanno anche fatto lezione con successo. Ma di quale lezione si tratta? Una comunicazione frontale il più delle volte asettica, una interazione, quando c’è stata, per lo più prescrittiva e saltuaria. E spesso senza intercettare tutti gli alunni.
La relazione che si è instaurata con uno schermo a fronte di un altro (magari più ridotto come quello di un cellulare), e con un audio non sempre percepibile a fronte di un altro audio a sua volta gracchiante, la si può davvero definire scuola?
Siamo onesti: anche noi insegnanti non abbiamo forse un po’ sofferto di quegli “incontri” a singhiozzo sulle piattaforme saltellanti, o di quegli aggiornamenti di dati -di una fiscalità patetica- sul registro elettronico? Ė questa la scuola del domani? La scuola che resiste a tutto perché ormai delocalizzata nell’etere?
Certo qualcuno di noi si è anche sentito orgoglioso di “avercela fatta”, di avere esorcizzato il moloch tecnologico facendo “girare” del materiale di studio preso dalla rete o proposto dai ragazzi, in una condivisione “nuova”. Ma neanche questo è scuola-scuola.
Eppure il documento, proprio perché si presenta come un qualsiasi burocratico atto ministeriale che odora di normalità e normalizzazione in ogni virgola, rivela l’obiettivo -più o meno consapevole - di far rientrare in quella normalità fittizia tutto, anche quanto di disagevole, faticoso, discriminante, impossibile si è esperito. Da una parte si è decisa la promozione per tutti (fatto salvo l’obbligo degli esami, sia pure in forme anch’esse molto discutibili), dall’altra si va a caccia dei voti. Per di più in decimali.
Attraverso il denominatore comune della valutazione, senza crasi tra scuola in presenza e scuola a distanza, si finisce per assegnare pari dignità alla seconda.
La rende scuola a tutti gli effetti. Questo è il motivo per cui la riflessione sul voto va fatta. Esso rappresenta il passe-partout per uno stravolgimento imposto alla scuola italiana col pretesto dell’emergenza.
Ė questo che gli insegnanti e i genitori italiani vogliono?
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