/invasione/ emergenza/ sbarco/ ondata/ clandestino/ paura/ *
“Parole come pietre”, per usare una citazione di Primo Levi, ormai frusta, perché a tutto ci si abitua, e le parole da pietre possono diventare sassolini, da buttar via o da nascondere nella cartella di una ricerca d’antan.
È vero: le migrazioni nel mondo ci sono sempre state, e soprattutto per quanto riguarda il nostro paese, fatto di comunità composite, per lo più venute dal Mediterraneo Orientale o dall’Europa centrale, a loro volta generatrici di un meticciato sparso per ogni dove…
Ci sono sempre stati spostamenti per via del bisogno, della sopravvivenza, e dunque vicende di donne, uomini, bambini per lo più appartenenti a quel tipo di migrante economico che oggi l‘attuale governo vuole addirittura respingere.
Una domanda imbarazzante
Ma da chi fu attuato nel nostro paese quel benessere economico alla fine degli anni ’50 del secolo scorso –una pagina della nostra storia di cui si vogliono oggi celebrare solo le luci - se non dal lavoro e dal sacrificio di una imponente migrazione interna? Erano senz’altro tutti Italiani “autoctoni”, ma gli uni, i migranti, diventarono “stranieri” ad altri italiani, gli “accoglienti”, per interesse dei più ricchi, per bisogno dei più poveri. Ai primi si negò l’affitto di un appartamento decente, li si confinò a Torino nelle soffitte, a Milano nelle Coree, li si beffeggiò per l’indubbia goffaggine dei modi, tanto che chi tra i miseri ebbe raggiunto a poco poco un certo benessere, imparando a vestirsi, a truccarsi, a guidare l’utilitaria e soprattutto a lavorare sodo “senza alzare la testa” e spesso “de minuto iure”, lui stesso cancellò dalla sua comunicazione le voci imbarazzanti delle proprie origini: il dialetto, la lingua madre.
Le parole per dire…
/invasione/
“In tutta Europa come in Italia l’immigrazione è rappresentata da lungo tempo in termini allarmanti.” (Marcello Maneri, 2012) Le metafore “idrauliche” quali “flussi”, “pressione migratoria”, “ondate”, “marea”, o quelle metereologiche, come “tsunami”, “bufera”, ecc., «accolgono e preparano un frame che ha a che fare con la situazione di una invasione». (Maneri, ibid.)
L’ /emergenza/
è diventata un ossimoro: dura dagli anni ’90.
Nell’ormai lontano 1991 (Governo Andreotti VII) accadde il primo massiccio arrivo di immigrati albanesi, a Bari e a Brindisi. Vissuto allora dalla popolazione delle Puglie come una vera e propria «emergenza».
I mass media lo descrissero in modo martellante e convulso. Non si dette tempo all’opinione pubblica italiana di elaborare l’emozione dell’evento in una oggettiva e rispettosa ricostruzione storica del perché di quell’evento, si fecero solo schiamazzi di parte, né si valorizzarono quei modi di accoglienza e di generosità civile da parte dei pugliesi che pure ci furono.
Sei anni dopo, a guerra di Bosnia conclusa (I governo Prodi) si attuò un blocco navale contro l’Albania, in disperata crisi finanziaria, per prevenire l’arrivo di ulteriori migranti. Il bloccò fallì miseramente: non riuscì a frenare né la migrazione né la speculazione degli /scafisti/ (allora fu coniato questo termine), anzi ci furono i primi morti ufficiali di un naufragio a mare.
La narrazione di questo episodio fu pressoché dimenticata. Perché?
Varie le ipotesi: si cercò di sopire con il tempo le gravi responsabilità politiche e militari dell’Europa e dell’Italia sullo scoppio e sulla conduzione delle guerre balcaniche (Croazia 1991-1995; Bosnia 1992-1995)? Si “temette” il conflitto ancora in piedi per l’indipendenza del Kosovo (1996-1999)? Si mise in un opportuno dimenticatoio certe catastrofiche ricette finanziarie, i cui autori, banche e veri e propri «pescecani» europei avevano umiliato una società debolissima, complici anche i suoi nuovi governanti. Storie di inganni ogni tanto ripetute, in Europa e nel mondo.
Conseguenza fu che dal 1991 visualizzare gli albanesi nel nostro immaginario significò evocare l’incredibile affollamento della nave Vlora (8 agosto): straccione, scostumato, spavaldo.
/negro/italianità/ ordine pubblico/
Da allora, da mass media sempre più in mano alla politica, si cominciò a costruire una duplice identità migrante: da una parte, il potenziale criminale, prima comunista, poi islamista, infine /negro/, tra martellante allarmismo, sospetto, paura, per supposti atteggiamenti devianti del tutto “importati” – quasi che l’Italia non sia (stata) giammai terra di mafia e di camorra!-; dall’altra, il povero derelitto, tra la minimizzante retorica del facile abbraccio nell’accoglienza quasi nascosta, come se la migrazione fosse un fenomeno da risolvere soprattutto con opere di sommessa carità e non con istruzione e coraggiosa cura sociale. Certo il cuore serviva e serve tuttora, almeno all’inizio, ma prevalse la prima lettura, su identità barbare, sacrileghe e inquietanti, dette con uno specifico “stile” narrativo: aggressivo, fatalistico, patetico, comunque povero di riferimenti culturali concreti e di cornici geopolitiche ben fatte.
Nei mass media qualche eccezione ci fu… Si pensi alla rubrica settimanale del Tg2 Nonsolonero, ideata e curata da Massimo Ghirelli e dedicata ai temi dell’immigrazione e del razzismo. La conduceva una giornalista immigrata, la capoverdiana Maria de Lourdes Jesus, che fu anche la voce della prima trasmissione radiofonica Rai dedicata all'immigrazione, Permesso di soggiorno. Durò dal 1988 al 1994, con una audience altissima, si parlava un italiano semplice ed efficace, vinse anche il premio Mandela..
Quarantasei bambini del Ruanda portati in salvo in Italia solo grazie all'impegno e all'ostinazione di una volontaria italiana. Una vicenda tra le tante nel sud del mondo ma che è servita tuttavia a mettere in luce le situazioni e le enormi difficoltà che i bambini del terzo mondo devono affrontare per sopravvivere. Questi problemi, questa immane crisi che minaccia di uccidere per guerre, per fame, per malattie milioni di bimbi o di rendere impossibile ogni loro futura prospettiva costituiscono questa settimana uno degli argomenti trattati da ''Tg2 Nonsolonero'', in onda domani alle 17.20 su Raidue.
Così annunciava un comunicato dell’ Adnkronos del 4 maggio 1994.
Dalla politica sorse una buona legge (la Turco Napolitano) ben presto sfigurata nella Bossi Fini, per terminare nella rappresentazione odierna di una migrazione criminalizzata: una questione di mera /italianità/ e di /ordine pubblico/.
/sicurezza/
Il 2011 (al governo, come abbiamo già scritto, sempre Berlusconi) è l’annus horribilis, «… per la quantità di immigrati che riescono ad approdare in Italia e l’inadeguatezza del sistema di accoglienza da parte del Paese. Viene dichiarato lo stato di emergenza. I mass media potenziano il binomio immigrazione-sicurezza». Una sicurezza che certamente non riguardava «loro» ma «noi». (G. Papavero, 2016).
Le condizioni e l’esito del viaggio dei migranti, che si muovono per lo più per mare, sono diventate talmente problematiche da far concentrare su di esse l’attenzione permanente dei media: si perfeziona un vero e proprio genere di reportage-verità, con proprie immagini, un proprio stile narrativo, uno specifico linguaggio, molto sentiti e drammatici. Poi però, una volta sbarcati, il destino dei migranti diventa nebuloso.
/sbarco/
Le descrizioni e le interviste giornalistiche sono molto enfatiche, non si riferiscono quasi mai alla complessità e alla durezza dei percorsi dei migranti per arrivare in Italia, ma alla drammaticità dell’arrivo, definito esclusivamente come “sbarco”. Una parola dal significato quasi piratesco (sbarco nelle Antille) e militare (sbarco in Normandia), che segnala definitivamente come la realtà della politica nazionale e internazionale abbia cancellato per i migranti la possibilità dell’“approdo”, legato a una assistenza e accoglienza senz’altro più civili e sicure.
Gli scampati dal potenziale naufragio rispondono al giornalista con balbettii smozzicati, gli occhi dilatati o chiusi per il terrore, qualcuno più spavaldo ride e leva il pollice in segno di vittoria facendo brillare il corpo avvolto nelle coperte-cerate di un "assurdo" color d’oro, poi…
/segregazione/
Di “loro” non si sa più niente: niente sulla loro vita nelle “comunità di prima accoglienza”, salvo foto di poveri panni stesi sui recinti “da lager” (torna in qualche caso il filo spinato), grida da qualche spiazzo in cui per ingannare il tempo si gioca al calcio, qualche scorcio di camerata più o meno ordinata. Gente seduta e ingobbita, con le braccia tra le gambe.
Lo stesso stereotipo descrittivo squallido e anonimo si applica alle carovane terrestri che hanno intrapreso altre rotte, per esempio, quella dei Balcani. In questo caso si fotografano bambini imbambolati in braccio o per mano a familiari arrancanti sotto il peso di coperte poncho o di fagotti che rinserrano le loro povere cose. Le interviste vengono per lo più fatte a migranti in movimento, quasi mai in momenti di pausa e di ristoro.
I migranti per terra appaiono per lo più come /profughi/: manifestano dalla stanchezza e dallo spaesamento i segni di una qualche loro storia sconosciuta, di culture completamente differenti dalla “nostra”, culture da /ripulire/, anzi /disinfestare/, da parte di un personale sanitario in mascherina talmente assorbito nel suo compito di "salute" e "sicurezza" da non poter né dare né prendersi parole di condivisione.
Sui giornali: I titoli dei report
I titoli degli articoli riportano icasticamente la nazionalità dei soggetti di riferimento (I rumeni, gli albanesi, gli indiani, i pakistani), o un’area geografica generica (i maghrebini, i kossovari, gli asiatici) o il colore della pelle: i neri.
Nel corpo dell’articolo (ma anche del servizio televisivo) non si riporta quasi mai una cartina o mappa dei territori di provenienza.
Questa «genericità» serve a marcare nettamente la distinzione tra il “loro” e il “noi” (tra la comunità “autoctona” italiana, presentata sempre come identitaria nella sua stanzialità: i “migranti comunitari ”, quando sono in movimento, sono sempre “dentro” i “nostri” confini, e quindi “a noi organici”; gli “extracomunitari”, invece, non hanno terra su cui fermarsi. Non hanno neanche una identità civile, messi come sono in un unico insieme: i richiedenti un lavoro, i cercatori di uno scampo da catastrofi belliche di cui l’Occidente è molto spesso responsabile, gli avventurosi, i criminali (veri o presunti), un blocco compatto da trattare come l’insieme dello «straniero» scomodo invasore.
L’occhiello adopera espressioni-cornice (gli stranieri; i clandestini; gli irregolari; i disoccupati, ecc.), atte a definire l’immigrato esclusivamente nei termini di uno status sociale o legalitario, una etichetta comunque sommaria.
Se il migrante riesce a farcela ed è visibile per strada, fuori da una carovana o da uno sbarco, l’/immigrato immaginato/ (vale a dire tradotto in immagini) «è quasi sempre povero, clandestino, criminale, socialmente pericoloso, e [fino a qualche mese fa] “musulmano”.[…] l’immigrato, quasi sempre maschio e di colore preferibilmente scuro arriva, arriva sempre, anche se magari è in Italia da vent’anni; si aggira smarrito in qualche stazione, anche se ha un lavoro e una casa come tutti; mostra il passaporto alla polizia, anche se ha un permesso di soggiorno e forse è già cittadino italiano; dorme sotto i ponti, o in baracche senza tempo, anche se può pagarsi un appartamento decente.» (A. Cava, 2011)
Le descrizioni: i conseguenti effetti
L’eccessiva insistenza sulle dimensioni della paura o dell’ansia -in riferimento al viaggio e alla prima accoglienza-, a lungo andare ha promosso un astratto e distratto pietismo. Facilmente tramutabile in noia e, dalla noia, in fastidio, intolleranza, razzismo.
«’Eh però, quanto filo da torcere ci danno... ‘Con questi poverini non si può stare mai tranquilli… ‘Li vedi (stanno) dappertutto!», queste le battute spesso percepite nei negozi, per strada.
Occorrerebbero invece “approfondimento, analisi, pluralità di voci e punti di vista” perché la narrazione risulti più rispettosa dei soggetti considerati e, soprattutto perché il metro di valutazione non sia l’immigrato “immaginato”, ma persone reali.
2017-2018 - Parole d’ordine:
/sicurezza/ confini/ muri/ ondata/ inquinamento sanitario/ clandestino/ chiusura/respingimento/
È diventata determinante la questione sicurezza dei confini nazionali (Schengen è ormai calpestata!), mediante i quali si permettono o si bloccano gli accessi: porti, strade ferrate, valichi di frontiera, varchi di montagna, tutti sottoposti a presidi e controlli irrispettosi dei diritti di libera circolazione persino per i cittadini comunitari migranti.
Si sono eretti muri di sbarramento da parte di paesi dell’ex Est sovietico ora appartenenti alla UE.
Non si usa più il termine flusso, ma /ondata/.
Si polemizza sulle Ong accusate di traffici illeciti/ con gli scafisti e con le motovedette libiche, di inquinamento sanitario, perché imbarcherebbero naufraghi alla rinfusa e addirittura non “bonificherebbero” con adeguate disinfestazioni le navi dopo lo sbarco.
L’attuale legge sulla sicurezza intende sgombrare, chiudere o diminuire le strutture di prima accoglienza, anche quando esse funzionano (recentissimo l’episodio della chiusura del CARA di Castelnuovo di Porto:con un preavviso a bruciapelo, almeno nei primi due giorni, e senza destinazione), ma dal taglio dei finanziamenti si capisce come si voglia ridurre anche il numero degli SPRAR, quelle forme di integrazione concordata tra Ministero dell’Interno, Enti Locali e cittadini privati, per dare un lavoro e un inserimento stabili alla migrazione legale. Per non parlare della decisione di non finanziare più i corsi di italiano affidandone il mantenimento a iniziative locali e a cooperative di volontariato, per altro accusate, quando fa comodo riaccendere la polemica, di avere lucrato con le diarie (la famosa /pacchia/!). Accuse anch’esse sempre generiche, accolte nei telegiornali con interviste lampo al ministro degli interni o abilmente tagliate. E il pubblico beve acriticamente l’ennesima zizzania.
/respingimento/
Se ne afferma la volontà fattuale attraverso lo slogan “Aiutiamoli a casa loro”: una contraddizione vera e propria, perché se i migranti cercano un’altra casa allontanandosi a rischio della vita da territori dal profilo istituzionale spesso incerto o frammentato, sottoposti a turbolenze sociali, conflitti politici, violenze e guerre, ma soprattutto privi di una loro rappresentanza diplomatica, come si fa a costruire in quei luoghi una rete valida di rimpatrio e di aiuto? Nel frattempo a “casa nostra” si mantengono lo sfruttamento, il lavoro al nero, non si procede con continuità contro le mafie del lavoro e il caporalato, si fanno /sgombri esemplari/ senza regolamentazione e proposte alternative, in una specie di “deportazione”.
Ciò detto, di questa falsificazione di qualsiasi cambiamento progettuale, la politica approfitta a piene mani in polemiche contrapposte, mantenendo comunque da parte di tutti i suoi rappresentanti resoconti estremamente generici sulle migrazioni, poveri di contenuto storico e di proposte, anche quando vorrebbero essere costruttivi e a favore dell’accoglienza.
C’è una cancellazione sistematica di ciò che di buono può aver fatto o fanno ancora la politica della sinistra, il volontariato, le organizzazioni religiose.
Anzi, sul piano del lavoro è cessata la definizione (un tempo cara alla sinistra) dell’emigrante risorsa, nonostante le cifre dell’INPS parlino chiaro sulla positiva ricaduta fiscale della redditività di chi lavora stabilmente in Italia. Anzi, si considera il Presidente dell’INPS come un /nemico/ (Idos, 2017; Censis, 2017), e, fatto gravissimo, non si è difeso lo ius soli.
Si mantiene il binomio migrazione/economia, ma per insinuare che i migrati permanenti “avrebbero tolto il posto di lavoro agli italiani autoctoni”; che i non ancora inseriti o in attesa di espulsione camperebbero di sovvenzioni statali a ufo.
Le testimonianze dei migranti
Le testimonianze autobiografiche degli immigrati, tra cui quelle rese nelle interviste non sono del tutto attendibili. (M. Beller, s.d.). Perché?
A parte la difficoltà della lingua essi non sono quasi mai liberi di esprimersi di loro iniziativa e diffusamente, dovendo per lo più rispondere alle domande preorganizzate dagli intervistatori.
Sono fortemente influenzati, sia in senso positivo che negativo, dagli stereotipi caratteristici della loro cultura ma anche di quella dei paesi in cui entrano in contatto.
Un esempio: gli albanesi - su dichiarazione di molti di loro- decisero di espatriare in Italia secondo la loro stereotipata visione della modernità, lasciandosi conquistare dalla pubblicità e dai varietà dei nostri canali televisivi generalisti, a loro volta programmati sullo stereotipo italiano di fine millennio di un paese luccicante, ricco e spensierato.
ll discorso sulla presenza e sull’uso dei media è ugualmente serio a proposito dei paesi di provenienza: “Soprattutto nei Paesi di nuova indipendenza, la nascita della televisione era stata accompagnata da grandi discorsi sul suo potenziale educativo e la sua utilizzazione come strumento per lo sviluppo. Ma i buoni propositi (e le relative illusioni) non hanno retto alla prova delle difficoltà e degli squilibri, incontrati specialmente a livello di produzione e di mercato”. (M. Ghirelli SEI, Torino, 2005).
“Considerando proprio i racconti mediatici, […] occorrerebbe restituire, al più presto, protagonismo e soggettività comunicativa ai “nuovi cittadini”. Dare spazio alle voci dell’immigrazione significa conferire cittadinanza comunicativa a una parte di popolazione italiana che vuole raccontare ciò che è. Serve una potente operazione di decentramento narrativo che spinga a vedere le cose dal punto di vista dell’altro” (Cava, 2011).
/Carnefice/ /Vittima/ Chi crea i ruoli?
Certamente il giudicare senza ascoltare da parte della politica, dei media, dell’opinione pubblica, impedisce anche agli stessi gruppi in difficoltà (e ce ne sono) di sentirsi e farsi sentire in narrazioni sincere di loro stessi e dei loro problemi.
Dobbiamo (ri)stabilire una democrazia della comunicazione, altrimenti, come è successo per la mafia, gli immigrati a rischio trovano, o continuano a farlo, altrettanti gruppi di criminalità organizzata pronti a ingaggiarli in traffici illeciti e operazioni criminali da cui ricavare denaro e potere.
* Queste sono state le prime parole che mi sono venute in mente in un brainstorming personale sul linguaggio della migrazione, argomento su cui Mena Pisciotta e io stiamo riflettendo da tempo con un gruppo di insegnanti nel corso-laboratorio di fatti di storia contemporanea al Cidi di Roma.
Credits
Immagine a lato del titolo: "Nel grafico, ricavato con Google Ngram Viewer, gli aggettivi associati più di frequente al sostantivo migranti nei corpus di libri italiani pubblicati nel periodo 1985-2008" da Il gerundio che non era un participio, in "terminologia etc", giugno 2015.
Sitobibliografia
Oltre alla consultazione delle testate giornalistiche italiane più importanti e alla visione di talk show e servizi specialistici delle reti televisive nazionali si sono esaminate le seguenti fonti.
M. Beller, Studi sui pregiudizi e sugli stereotipi, Cultural Studies, s.d.
A. Cava, L’immigrato immaginato. Racconti mediali a confronto, in “Quaderni di Intercultura”, Anno III/2011.
CENSIS-UCSI, Secondo Rapporto annuale sulla comunicazione in Italia. Italiani & Media. Le diete mediatiche per gruppi e tribù, Franco Angeli, Milano, 2003.
M. Ghirelli, L’antenna e il baobab. I dannati del villaggio globale, SEI, Torino, 2005.
Idos, Dossier statistico IMMIGRAZIONE, 8permille-ChiesaValdese, Roma, 2017; 2018.
M. Maneri, L’immigrazione nei media. La traduzione di pratiche di controllo nel linguaggio in cui viviamo, in "ANUAC, Rivista dell'Associazione Nazionale Universitaria Antropologi Culturali", 1, 1, 2012 pp. 24-37
G. Papavero, Sbarchi, richiedenti asilo e presenze irregolari, ISMU, 2015.
C. Tadini, La "fabbrica della paura": l'anomalia italiana del rapporto fra politica e giornalismo, in "Discorsivo", sett. 2013.
I media italiani e l'immigrazione e Storie positive di immigrazione, da "Osservatorio sulla Carta di Roma”, Ordine dei giornalisti e dalla FNSI, cap.4,5 , 2012.
La volta che l'Italia fece il blocco navale, "il post", aprile 2015.
Notizie da Babele, “Il tempo delle rivolte”, SCRDB, da "Osservatorio sulla Carta di Roma", luglio 2010 – www.cartadiroma.com.
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