Lavoro da molti anni in una scuola dell’infanzia dell’Istituto Comprensivo "Empoli Est", la "Peter Pan", situata nel centro storico della città. La mia scuola accoglie un’utenza varia: da una parte bambini che provengono da famiglie di immigrazione più o meno recente, residenti nella zona del Centro, dall’altra quelli italiani, i cui genitori scelgono consapevolmente di far vivere ai loro figli un’esperienza formativa multiculturale, a dispetto di quanti, invece, “fuggono” alla ricerca di situazioni socialmente più omogenee. Questa realtà costituisce senza dubbio un osservatorio prezioso per chi si interroghi sul rapporto fra scuola e contesto sociale, e su quali strategie gli insegnanti possano mettere in atto per affrontare la sfida del cambiamento.
È palese che la scuola si rapporta oggi a un mondo indubbiamente molto più complesso di quello di venti o trenta anni fa. Le famiglie sono cambiate nella loro composizione,il più delle volte ristretta al solo nucleo genitoriale, spesso lontane dai nonni, che garantivano un supporto materiale e affettivo; a fatica, quindi, tengono il passo degli incalzanti impegni quotidiani. Sono cambiate le relazioni all’interno della famiglia, viziate dall’invadenza e dal fascino della tecnologia che spesso sostituisce i genitori nel rapporto con i figli. Il tempo è merce rara e solo una piccola parte viene dedicata al piacere di stare con i propri figli, agli incontri con gli altri, alla partecipazione alla vita scolastica. I bambini che frequentano le scuole oggi sono figli di questo cambiamento e portano addosso tutti i segni della fragilità che esso genera.
Tuttavia, la svolta epocale che ha cambiato la società, soprattutto nelle città grandi o in quelle di media grandezza come Empoli, con una attraente vita economica, è il flusso migratorio. Nei centri urbani, le comunità che provengono da altri paesi si concentrano dove ci sono immobili a buon mercato e così le scuole di alcuni quartieri accolgono moltissimi bambini non italofoni di diversa provenienza, con percentuali che sfiorano, come nella mia scuola, l’85 o il 90%. Le potenzialità di tale ricchezza sono evidenti: è bellissimo vedere bambini così diversi che giocano insieme, è meraviglioso constatare che per loro non ci sono differenze, che trovano il modo di comunicare perché il piacere di stare insieme vince anche sulle diversità linguistiche. D'altro canto, per un’insegnante che si ponga l’obiettivo di accompagnare tutti i bambini alla conquista degli apprendimenti, queste classi impongono una sfida non da poco.
E', infatti, difficile conquistare la fiducia dei bambini, rassicurarli, farli sentire protetti quando non si ha a disposizione un linguaggio comune. È quello che succede durante l’inserimento in queste classi dalla composizione così variegata. E' difficile comunicare con i genitori di questi bambini, che, anche loro, vanno rassicurati e tranquillizzati, istruiti sulle abitudini della scuola e su ciò che si preparano a vivere nella nuova comunità di cui entrano a far parte. Moltiplichiamo questa difficoltà per quindici, venti, quanti sono i bambini di diversa provenienza in una classe. E questo è solo l’inizio, la fase dell'inserimento.
Durante l’anno il rapporto con le famiglie non è mai semplice: la partecipazione alla vita scolastica è solitamente scarsa, gli stili educativi domestici spesso distanti o addirittura antitetici rispetto a quello condiviso nella realtà scolastica, la comprensione dei problemi, quando si verificano, non è immediata. E poi ci sono i bambini e tutte le difficoltà che una scarsa (a volte nulla) comprensione della lingua comporta per l’apprendimento.
La domanda, a questo punto, è: cosa possiamo fare per gestire al meglio situazioni di integrazione? Come può la scuola stare al passo con questo cambiamento che interessa vertiginosamente la società e che la coinvolge?
È chiaro che la soluzione non è a portata di mano e travalica le responsabilità e le possibilità dell’insegnante. Sarebbero necessari interventi di politica territoriale che agissero per evitare la concentrazione in alcune zone delle famiglie immigrate, favorissero l’integrazione con una politica abitativa di riqualificazione delle zone disagiate e di edilizia popolare diffusa, con servizi di trasporto e luoghi di incontro extrascolastici. Sarebbe necessaria un’opera di valorizzazione delle opportunità che un contesto multiculturale può rappresentare in una società sempre più caratterizzata da una convivenza di persone di diversa provenienza e cultura, in modo da evitare la “fuga” delle famiglie italiane dalle scuole frequentate in larga parte da alunni non italiani. Sarebbe necessaria un’attenta ed efficace preparazione del personale docente perché insegnare in queste scuole richiede una sensibilità, un impegno e una preparazione specifici. Ma tutto questo fa parte di un processo lento i cui effetti, nell’ipotesi che si iniziasse ad attuarlo, si vedrebbero dopo alcuni anni.
Su questo versante, dunque, non possiamo far altro che ricordare agli amministratori (politici e scolastici) gli obiettivi e le priorità del lavoro di costruzione di un nuovo tessuto sociale integrato, dove alle famiglie venga fornita la giusta assistenza, che non si limiti ad un mediatore linguistico nelle occasioni istituzionalizzate.
Quello che invece possiamo fare noi insegnanti, da subito, è cercare di rendere la scuola significativa dal punto di vista degli apprendimenti per tutti i bambini, adottando una didattica attenta al singolo, inclusiva, lenta e pensata per ognuno ma che non perda la dimensione della relazione collettiva. I percorsi di scienze del Cidi Firenze rappresentano una concreta possibilità per lavorare in situazioni di questo tipo.
E’ chiaro a chi conosce i percorsi o a chi voglia curiosare fra le tante documentazioni presenti sul sito del CIDI che questi mettono in moto abilità complesse: saper osservare, distinguere le parti dal tutto, discriminare e associare percezioni sensoriali, nominare, classificare, e così via di seguito. Verrebbe da pensare, dunque, che queste proposte possano essere troppo “alte” per dei bambini che non hanno le competenze linguistiche necessarie per esprimersi, quando in ogni momento dei percorsi è richiesto l’accompagnamento verbale alle azioni: il bambino racconta all’insegnante ciò che osserva, illustra ciò che ha rappresentato, discute nel gruppo ciò che vuole condividere con gli altri. Questo è vero solo in parte, perché ogni momento del percorso può essere vissuto come momento pienamente consapevole anche dai bambini che non hanno le competenze linguistiche.
Il primo e più importante strumento che questa didattica possiede è la valorizzazione della dimensione individuale come momento di ognuno, con le sue necessità, le sue capacità, la sua ricchezza. Durante l’osservazione guidata l’insegnante, sfruttando la compresenza, chiama un bambino alla volta in un luogo tranquillo, meglio se fuori dalla sezione, e si mette a sua disposizione, di fronte all’oggetto da osservare. Ci sono molti modi per esprimere un messaggio senza le parole: si possono abbinare oggetti o materiali (ad es. cartoncini colorati per il colore, blocchi logici per la forma), si possono fare gesti, usare il corpo (ad es. per raccontare come si muove un certo animale, oppure per descrivere le dimensioni), si possono usare i simboli della Comunicazione Aumentativa Alternativa [1].
Il bambino trova in questo momento un’accoglienza, una intimità con la maestra che lo incoraggia, lo capisce, rinforza verbalmente quello che lui esprime in un altro modo, lo gratifica quando ripete e tutto questo agisce in maniera potente sulla percezione di sé, sulla motivazione e sul ricordo.
Con il suo linguaggio stentato Luigi si è impegnato tantissimo nell’osservazione e ha comunicato diverse informazioni: che la foglia ha una lamina gialla e un po’ verde, che ha un margine seghettato, che ha un picciolo e che ha delle nervature che sono delle linee diritte. Ha riutilizzato spontaneamente lo strumento che l’insegnante gli aveva offerto (il catalogo dei segni) per dare l’informazione successiva.
Con questi due esempi vediamo come i percorsi si adattano alle esigenze dei singoli; così ognuno riesce a dare qualcosa e questo qualcosa ha un grande valore se si considera da dove si parte.
La dimensione linguistica anche in questa fase primitiva ha un ruolo fondamentale e, mentre si struttura, con l’aiuto di strumenti facilitatori e dell’insegnante, sostiene e dà forma al pensiero, diventando per il bambino uno strumento per dare significato a quella parte di mondo che sta osservando.
Talvolta c’è bisogno di semplificare o di prevedere un passaggio intermedio, pensato per i bambini più fragili ma utile a tutti. Nel percorso sull’albero, ci si rende conto che chiedere ai bambini di quattro anni, molti dei quali non padroneggiano totalmente la lingua, “cosa ha l’albero” è una richiesta troppo alta. I bambini sono piccoli e l’albero è grande, non lo dominano con lo sguardo: una cosa è distinguere le parti di un frutto, che hanno la possibilità di smontare e separare, un’altra è distinguere le parti di un albero, considerato anche che i bambini di quest’età hanno una percezione di tipo sincretico. Allora, come fare? Ci viene in aiuto un gioco che facciamo con il corpo: guardiamoci allo specchio, cosa abbiamo? Guardiamo la nostra compagna: cosa ha? Uno alla volta i bambini vengono a toccare una parte del corpo della loro compagna e quasi tutti le nominano. Poi si propone una scheda in cui i bambini disegnano al centro se stessi e nei cerchi intorno le parti che hanno discriminato. È un esercizio facile, che tutti riescono a fare, perché sul corpo si lavora dal primo anno, si fanno attività di routine e giochi motori e tutti, anche i bambini non italofoni conoscono le parole per indicare le parti del corpo. Quando proponiamo la stessa attività sull’albero non è difficile far capire a tutti cosa vogliamo e tutti, anche chi non capisce pienamente i messaggi verbali, riescono con successo. Chi possiede gli strumenti linguistici individua le parti e le nomina, gli altri le indicano semplicemente: sarà con il confronto nel gruppo che quelle parti acquisiranno un nome anche per i bambini che ora non le sanno chiamare.
Alcuni bambini hanno bisogno del supporto dell’insegnante anche nel momento dell’elaborazione individuale. È un passaggio impegnativo per alcuni di loro, nel quale si richiede la concettualizzazione, attraverso il simbolo, di quello che hanno osservato. I bambini lavorano ai tavoli, organizzati in base alle verbalizzazioni prodotte durante la fase precedente, quella dell’osservazione guidata. Le risposte sono state tabulate dalle insegnanti, in modo da avere il quadro generale della sezione. Robert, un bambino della zona dell’Africa centrale, aveva osservato: “La foglia è tonda, gialla, con le righe. E’ dura e ruvida”. Procede autonomamente sulla simbolizzazione degli aspetti visivi ma quando arriva a rappresentare quelli tattili si ferma. Allora l’insegnante gli ricorda: “Hai detto che la foglia è ruvida, ricordi?” Lui annuisce. Quali sono gli oggetti che abbiamo scelto per rappresentare il ruvido?” Robert va al cestino dove ci sono gli oggetti selezionati insieme, li tocca, poi sceglie la grattugia. Torna al tavolo e la disegna. Robert aveva bisogno solo di un supporto ma il lavoro cognitivo è stato tutto suo. Questo passaggio, quello della trascrizione individuale attraverso il simbolo di quanto precedentemente osservato, rende concreto e visibile il concetto ed è quindi importantissimo dal punto di vista cognitivo.
Ogni bambino, ascoltato, valorizzato, incoraggiato, trova poi il suo spazio nel momento della condivisione, quando tutto il gruppo si riunisce per trasformare i lavori individuali in un unico prodotto che rappresenti le conoscenze a cui siamo giunti su un determinato oggetto di osservazione.
A questo punto, se i passaggi precedenti sono stati coniugati alle esigenze di ognuno, se sono state cercate strategie per consentire anche a chi ha meno strumenti l’osservazione e la rielaborazione individuale, tutti i bambini arrivano all’appuntamento del confronto in modo consapevole. Ed è proprio questa consapevolezza che li motiva, che li interessa e che alimenta una discussione che, con la mediazione attenta dell’insegnante e con il dosaggio dei tempi, rappresenta un esempio alto di gestione democratica dei processi di apprendimento.
[1] Qualche riferimento di base sulla CAA