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07/03/2022

‘Competenze non cognitive’. Di che cosa parla la proposta di legge?

di Bruno Losito

Nel mese di gennaio la Camera dei Deputati ha approvato quasi all’unanimità la proposta di legge (n. 2372), relativa al Disegno di legge 2493 per “l’introduzione sperimentale delle competenze non cognitive nel metodo didattico”, presentata dall’Intergruppo parlamentare per la sussidiarietà. La proposta è ora in discussione al Senato.

L’approvazione della proposta ha suscitato, come era prevedibile reazioni di segno opposto. Ancora una volta, come ormai accade da tempo quando si affrontano proposte e provvedimenti relativi al nostro sistema di istruzione, la discussione si è sviluppata con modalità e con affermazioni di merito che denotano una approssimazione che lascia sconcertati, anche per le forti connotazioni di carattere ideologico individuabili nelle diverse posizioni. Come del resto si è verificato e si verifica tuttora per quanto riguarda le ‘competenze’ in generale.

Nel caso della proposta di legge in quanto tale, è lo stesso linguaggio utilizzato che contribuisce ad alimentare ambiguità e incomprensioni. Si ha l’impressione di trovarsi quasi di fronte a un paradosso, ma probabilmente non è così: quanto più si raggiunge l’unanimità tra tutte le forze parlamentari, tanto più il linguaggio si fa confuso, come già è accaduto nel caso del testo di legge sulla introduzione nei curricoli scolastici dell’Educazione civica e delle relative Linee guida.

1. In primo luogo, conviene cercare di chiarire a che cosa si riferisca la legge quando parla di ‘competenze non cognitive’ e quale sia il contesto di riferimento cui presumibilmente essa va ricondotta.
La differenza tra cosiddette hard e soft skills deriva dalle ricerche in ambito economico che avrebbero evidenziato come spesso i giovani immessi nel mercato del lavoro presentino carenze che non sono legate tanto alla mancanza di conoscenze (disciplinari e strumentali) quanto a quella di capacità di adattamento ai contesti lavorativi e relazionali, di capacità comunicative e di risoluzione di problemi. Questo abilità sono state indicate come – appunto – soft skills, tra le quali rientrano il problem solving, la creatività, il pensiero critico. I termini che indicano questo tipo di abilità variano a seconda dei contesti culturali, disciplinari, sociali: ‘life skills’, ‘socio and emotional skills’, ‘character skills’, ‘coping skills’, ma anche ‘competenze trasversali’ per sottolinearne il non ancoramento ad ambiti conoscitivi specifici.

Se e in quale misura queste abilità possano essere considerate come ‘non cognitive’, come in alcuni ambiti di ricerca le si definisce, è questione controversa e gli studiosi più accorti hanno sottolineato come sia difficile, se non impossibile, per queste abilità supporre una assenza di una qualsiasi attività di tipo cognitivo, se non altro in relazione alla elaborazione delle informazioni e alla acquisizione di conoscenze, incluse quelle di carattere sociale. 

È comunque un dato di fatto che ormai da anni queste abilità (e le diverse modalità di indicarle) sono entrate con forza nell’ambito del dibattito e della ricerca educativi, in particolare in relazione a importanti studi comparativi promossi da organizzazioni internazionali come l’OCSE. Questi studi, rivolti in un primo periodo soprattutto al mondo dell’educazione degli adulti, hanno interessato progressivamente sempre di più l’ambito dell’istruzione scolastica. Due esempi per tutti.

L’OCSE ha realizzato recentemente uno studio pilota sulle ‘social and emotional skills’ il cui rapporto è stato presentato l’anno scorso (Beyond Academic LearningFirst Results form the Survey of Social and Emotional Skills, Paris, OECD, 2021). Le ‘social and emotional skills’ incluse nello studio dell’OCSE fanno riferimento alle cinque dimensioni del modello cosiddetto dei ‘big five’, un modello di struttura della personalità che ne individua cinque tratti essenziali.  Si tratta di un modello di derivazione psicologica, utilizzato per la valutazione (testing) della personalità, soprattutto in contesti organizzativi e lavorativi, con soggetti adulti, e di cui alcuni studi - condotti soprattutto negli ultimi venti anni - avrebbero dimostrato l’applicabilità anche in riferimento a soggetti in età scolare.

Le abilità oggetto dell’indagine OCSE rappresentano alcuni sotto-domini delle cinque dimensioni individuate dal modello dei ‘big five’, ritenuti particolarmente rilevanti dal punto di vista educativo e suscettibili di essere incentivati in ambito scolastico, quali la curiosità, la creatività, il senso di responsabilità, l’autocontrollo, la perseveranza, l’empatia, la cooperazione, la resistenza allo stress, il controllo emotivo (la terminologia utilizzata è parzialmente diversa da quella del modello e parzialmente adattata al contesto educativo-scolastico).
Lo studio ha interessato due popolazioni di studenti rispettivamente di 10 e 15 anni, in dieci città di nove paesi (Canada, Cina, Colombia, Corea, Federazione Russa, Finlandia, Portogallo, Stati Uniti, Turchia). L’Italia (con la città di Roma) ha inizialmente aderito allo studio per poi ritirarsene.

L’UNESCO ha realizzato uno studio di fattibilità - Reimagining Life Skills and Citizenship Education in the Middle East and North Africa - per la misurazione delle ‘life skills’ in relazione alla educazione alla cittadinanza, in un gruppo limitato di paesi dell’area cosiddetta MENA (Middle East and North Africa). Le abilità incluse nella rilevazione, considerate interdipendenti tra loro e non ordinate gerarchicamente, sono dodici ed afferiscono a quattro aree: cittadinanza attiva (empatia, rispetto per la diversità, partecipazione), apprendimento (creatività, pensiero critico, problem solving), empowerment personale (comunicazione, resilienza, gestione del sé), occupabilità (cooperazione, negoziazione, capacità decisionale). Lo studio, affidato dall’UNESCO alla National Foundation for Educational Research (NFER) e all’International Association for the Evaluation of Educational Achievement (IEA), ha prodotto un primo rapporto prevalentemente focalizzato sulle procedure metodologiche adottate, sulle caratteristiche degli strumenti di rilevazione utilizzati, sulle condizioni di fattibilità.

Ho citato questi due studi, perché possono essere utilizzati come riferimento per riflettere sulle potenzialità e sui limiti della scelta di enfatizzare l’importanza delle abilità considerate in ambito educativo e scolastico. Ed anche perché, nonostante le possibili convergenze, evidenziano quanto possono essere diverse le prospettive teoriche e metodologiche che sottendono questa enfatizzazione.

2. Come si colloca la legge approvata dalla Camera in questo contesto?

La terminologia utilizzata sembra indicare una scelta di carattere teorico ben definita, fino a che punto consapevole non è possibile dirlo. Come esempi di ‘competenze non cognitive’, la legge indica “l’amicalità, la coscienziosità, la stabilità emotiva, l’apertura mentale” (Art. 1). Si tratta di quattro ‘dimensioni’ individuate dal modello dei cosiddetti ‘big five’, (manca, nell’esemplificazione data dalla legge, la quinta dimensione - quella dell’estroversione). La terminologia adottata  non indica neanche un tentativo di adattamento del modello al contesto educativo-scolastico, quale quello operato nell’indagine dell’OCSE.

Una prima perplessità suscitata dalla proposta di legge riguarda, quindi, la legittimità di adottare un modello teorico di carattere psicologico, elaborato e applicato nel mondo del lavoro e centrato su tratti di personalità. Soprattutto quest’ultimo aspetto rischia di riproporre la storica contraddizione tra ‘educazione’ e ‘istruzione’, di cui non si sentiva certo il bisogno. E suscita più che legittimi dubbi sul modo in cui gli esiti della ricerca in ambito economico finiscano per influenzare le politiche educative e scolastiche.

Tra l’altro l’uso del termine ‘competenze non cognitive’ suscita ulteriori perplessità, soprattutto in relazione al modo in cui la discussione sulle competenze è stata introdotta nella scuola in questi ultimi anni. Al di là di quella che è stata indicata come la “polisemia del concetto di competenza”, tutte le diverse definizioni e interpretazioni di tale concetto condividono l’idea che una competenza consista essenzialmente nella capacità di utilizzare (‘mobilitare’) un insieme di conoscenze, abilità, atteggiamenti fortemente interrelati fra loro per affrontare contesti, situazioni, problemi specifici. Con una sottolineatura della non possibilità di distinguere e separare le dimensioni cognitiva e metacognitiva da quella affettivo-motivazionale, relativa agli atteggiamenti e ai valori.

Indipendentemente dalla valutazione che si può esprimere sul ‘problema’ delle competenze, sembra evidente quali e quanti elementi di confusione la terminologia adottata dalla proposta di legge potrà creare nelle scuole. Anche in considerazione delle caratteristiche dei profili di competenza che nella nostra scuola sono stati indicati come riferimento, in particolare quello delle competenze chiave per l’apprendimento permanente dell’Unione Europea.

La proposta di legge, in questo senso, ripropone una separatezza tra dimensioni cognitive e non cognitive dell’apprendimento assolutamente non accettabile. L’enfasi data alla caratteristica ‘non cognitiva’ delle ‘competenze’ tende ad accentuare questa separatezza, enfatizzandone – di fatto – la loro interpretazione come tratti di personalità, tipica del modello teorico scelto come riferimento.

E quanto è accettabile che una legge relativa all’istruzione assuma come proprio cardine un modello psicologico?

Un’ulteriore perplessità suscita la scelta di intervenire per legge direttamente sulle metodologie didattiche - non sugli aspetti ordinamentali, organizzativi o curricolari. Per quanto si invochi l’immancabile dimensione ‘sperimentale’ (abusando, per altro, ancora una volta di tale termine), che senso ha prescrivere per legge pratiche didattiche che si presumono innovative (articolo 3, comma 2)?

Per altro sarebbe da capire che cosa si intenda quando (articolo 3, comma 1) si dice che “l'introduzione sperimentale delle competenze non cognitive di cui all'articolo 1 nel metodo didattico avviene in maniera interdisciplinare” (corsivo mio).

I temi affrontati dalla legge richiederebbero una discussione approfondita, anche a partire dalle indagini che ho provato a richiamare. Ed evitando incomprensibili toni trionfalistici, come quando si afferma – da parte dei promotori della legge e dello stesso ministro – che questa ‘innovazione’ del ‘metodo didattico’ rappresenti la strada per risolvere i problemi legati alla povertà educativa e alla non equità del nostro sistema di istruzione.

Scrive...

Bruno Losito Docente diPedagogia sperimentale e Docimologia all’Università Roma Tre

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