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03/04/2025

La cura delle parole – trasversalità

di Caterina Gammaldi

Un anno fa su questa rivista scrivevo un articolo intitolato allo stesso modo proponendo una riflessione sulla parola valutazione allo scopo di condividere alcune riflessioni  che potessero consentire un approfondimento sulla scuola del “fare” e sul processo di insegnamento – apprendimento in materia di valutazione, in una fase in cui si modificavano ancora una volta le norme per la valutazione degli apprendimenti nella scuola primaria e si introduceva la valutazione del comportamento, ancorando le scelte al potere del voto.

Con gli stessi obiettivi che dichiaravo in quel testo, mi accingo ora a scrivere di trasversalità proponendo ancora una volta la cura delle parole come obiettivo di una scuola che riflette e ricerca contro l’utilizzo improprio delle stesse, a fini non sempre palesi che, giova ribadirlo, non appartengono alla cultura e alla storia della scuola democratica.

Tanto più oggi, dopo la diffusione delle Nuove Indicazioni 2025, nella forma di “materiali per il dibattito pubblico”, che propongono una consultazione - farsa del mondo della scuola e delle sue rappresentanze (associazioni e sindacati) e un’idea di talenti e di personalizzazione, che smentisce il principio pedagogico che ci è caro, ovvero che si impara insieme. Un contributo che spero sia utile a svelare l’implicito nascosto nell’uso di alcune parole della scuola che  pretendono di orientare le scelte che, nei prossimi mesi, ci verrà chiesto di compiere.

Faccio riferimento, per cominciare, all’emanazione della legge n. 22/25 (il provvedimento ora in Gazzetta Ufficiale è entrato in vigore il 20 marzo scorso) “Introduzione dello sviluppo di competenze non cognitive e trasversali nei percorsi delle istituzioni scolastiche e dei centri provinciali per l'istruzione degli adulti nonché nei percorsi di istruzione e formazione professionale”, che propone alle scuole iniziative a partire dal prossimo anno scolastico, riprendendo aspetti già presenti nelle Linee guida emanate in materia di orientamento ed educazione civica.

Noto nella legge la e fra “competenze cognitive e trasversali”, che evidenzia che esse non sono considerate sinonimi, come, invece, appare spesso nei documenti e nel dibattito che hanno accompagnato il lungo iter legislativo. La legge prevede, in coerenza con gli ordinamenti didattici vigenti all’atto dell’emanazione, come è scritto nei commi successivi, l’adozione di specifiche Linee guida, una sperimentazione triennale e la formazione degli insegnanti. Aspetti non secondari se detta norma orienta la progettualità curricolare delle scuole, in un momento in cui gli ordinamenti didattici non sono o non saranno più quelli richiamati, ovvero le Indicazioni nazionali 2012, il documento Indicazioni nazionali e nuovi scenari 2018, le Indicazioni nazionali per licei, le Linee guida per i tecnici e professionali, a cui tutte le istituzioni scolastiche fanno riferimento per progettare il curricolo di scuola.  È solo il caso di segnalare che molte sono le novità legislative già introdotte che riguardano il secondo ciclo, ovvero la filiera tecnico – professionale, il percorso di scuola superiore denominato 4 più 2, il liceo Made in Italy, le Linee guida per l’insegnamento dell’educazione civica, le recenti Misure sull’orientamento a cui potrebbero aggiungersi le Nuove Indicazioni 2025 per scuola dell’infanzia e primo ciclo e l’annunciata revisione degli ordinamenti didattici del secondo ciclo che va in questa direzione.

Sì tratta di documenti che propongono la linearità dei curricoli (enfasi sulle conoscenze), la personalizzazione e i talenti, in nome delle potenzialità di ciascuno: non mi pare tutto questo possa corrispondere a un’idea di trasversalità ancorata al dialogo fra i saperi. Non a caso le Linee guida per l’insegnamento dell’educazione civica hanno sostituito trasversalità con la parola “contitolarità”.

Per meglio comprendere la natura del problema propongo nell’ordine la lettura del testo della legge sopracitata all’art. 1, segnalando subito che dette competenze sarebbero una risposta alle problematiche educative (dispersione, povertà educativa, analfabetismi funzionali). Segue una breve sintesi di alcuni documenti disponibili che hanno ispirato indagini internazionali e nazionali e che sono evidentemente coerenti con le scelte legislative in precedenza richiamate.

Nella legge 22/25 all’Art. 1 si legge infatti:  Al fine di promuovere lo sviluppo armonico e integrale della persona, delle sue potenzialità e dei suoi talenti, la cultura della competenza, di integrare i saperi disciplinari e le relative abilità fondamentali e di migliorare il successo formativo prevenendo analfabetismi funzionali, povertà educativa e dispersione scolastica, il Ministero dell’Istruzione e del merito, a decorrere dall’anno scolastico successivo all’entrata in vigore della  presente legge, favorisce iniziative finalizzate allo sviluppo delle competenze non cognitive e trasversali nelle attività educative e didattiche delle istituzioni scolastiche e paritarie di ogni ordine e grado, nel rispetto delle prerogative del collegio docenti.    

Si può condividere il dichiarato? Si può davvero pensare che sia praticabile un concetto espresso così chiaramente e cioè che lavorare sulle competenze non cognitive e trasversali sia una scelta per arginare problemi strutturali e culturali complessi che richiedono ben altre politiche educative?  Non ci stanno proponendo, forse, soluzioni semplici a temi e problemi educativi complessi presenti nella letteratura psico - pedagogica, nella ricerca didattica applicata, negli studi sociali da decenni in una prospettiva ancorata a soluzioni imposte dal mondo del lavoro?

Per mia chiarezza e di chi legge riprendo fra le mani un vecchio libro di amiche e amici che ha segnato la mia storia professionale di insegnante nella scuola media [1]. Nel capitolo I linguaggi speciali: per una politica linguistica di educazione linguistica del Consiglio di classe leggo “L’unitarietà del sapere, il rapporto tra le diverse discipline, il coordinamento tra gli insegnanti di una stessa classe rimangono ancora oggi problemi aperti e raramente affrontati a fondo nella realtà della scuola odierna”.

Problemi aperti, dunque, fin dagli anni ’80 del secolo scorso, nella stagione immediatamente successiva all’emanazione dei Programmi del ’79 a cui abbiano tutte e tutti, allora in servizio, prestato molta attenzione, sperimentando situazioni di insegnamento – apprendimento coerenti con il principio che guarda all’agire collettivo e all’educazione linguistica democratica contro gli steccati disciplinari.

In proposito ai nuovi colleghi, che per questioni anagrafiche erano allora a scuola da studenti, ricordo che quelle autrici e quegli autori hanno contributo a formare insegnanti inesperti nel solco delle 10 Tesi per l’educazione linguistica democratica che dobbiamo a Tullio De Mauro. Per evitare equivoci aggiungo che in quella stagione non si proposero le soft skills, ma il carattere trasversale del linguaggio verbale (con riferimento a tutte le discipline), un paradigma che è quello della complessità a cui hanno poi hanno fatto riferimento le Indicazioni per il curricolo del 2007, orientamenti confermati nel 2012 e nel documento Indicazioni nazionali e nuovi scenari. Ne ripropongo alcuni stralci.

2007 “Il bisogno di conoscenze degli studenti non si soddisfa con il semplice accumulo di tante informazioni in vari campi, ma solo con il pieno dominio dei singoli ambiti disciplinari e, contemporaneamente, con l’elaborazione delle loro molteplici connessioni. [2]

2012 “Lo sviluppo di competenze linguistiche ampie e sicure è una condizione indispensabile per la crescita della persona e per l’esercizio pieno della cittadinanza, per l’accesso critico a tutti gli ambiti culturali e per il raggiungimento del successo scolastico in ogni settore di studio. Per realizzare queste finalità estese e trasversali, è necessario che l’apprendimento della lingua sia oggetto di specifiche attenzioni da parte di tutti i docenti, che in questa prospettiva coordineranno le loro attività”.[3]

Come si sa indicare non è prescrivere e tale scelta richiama i principi pedagogici e didattici che regolano l’agire di un gruppo di adulti in una classe, insegnanti che condividono la cura e l’apprendimento. Principi che assumo a regola dell’autonomia didattica.

Mi soccorre Vertecchi che scrive: “Personalizzare vuol dire adattare i traguardi dell’istruzione alla previsione di successo che si ritiene di formulare per ciascun allievo. In pratica si afferma una concezione deterministica della relazione fra le caratteristiche individuali e i livelli di apprendimento … la linea di progresso nell’educazione scolastica si è espressa principalmente attraverso la messa a punto di situazioni individualizzate. In altre parole si è ritenuto che l’educazione scolastica dovesse continuare ad essere praticata per gruppi di allievi in modo collettivo, ma che una specifica attenzione dovesse essere rivolta alle esperienze di ciascuno”.  [4]

Non sono certo queste le idee che sembrano aver condiviso gli estensori della legge in questione quando scrivono che il fine è promuovere lo sviluppo armonico e integrale della persona, cui segue l’enfasi sulle potenzialità e sui talenti, né delle Linee guida emanate in materia di orientamento e di educazione civica, né delle più recenti Nuove Indicazioni del 2025, in cui i termini persona, talenti, personalizzazione ricorrono frequentemente. In proposito abbiamo sentito la professoressa Perla, coordinatrice della Commissione che ha elaborato le Nuove Indicazioni 2025, dichiarare che la centralità della persona è l’assunzione dei principi espressi nel Manifesto del personalismo comunitario da Mounier, da cui discendono le scelte che focalizzano l’attenzione sui talenti e sulla personalizzazione. Una scelta ben rappresentata nei Piani di studio personalizzati di cui nessuno parla e che sono stati oggetto di numerose pubblicazioni [5].  Giova ribadirlo: nella parabola evangelica i talenti sono doni da mettere a frutto e nel mondo greco i talenti erano monete di valore variabile. Se questo è perché non farli fruttare in un gruppo di pari eterogeneo secondo i principi dell’individualizzazione, richiamati da Vertecchi?

Torno alle soft skills e ai tanti documenti che sono stati resi pubblici dopo il decalogo dell’OMS [6], che hanno ispirato e ancora ispirano indagini internazionali e nazionali e Raccomandazioni europee. È del tutto evidente; non abbiamo una definizione univoca di competenze chiave, di competenze per la cittadinanza e per la vita; c’è una netta differenza fra le competenze definite hard skills e quelle definite soft skills.   Motivi sufficienti per fare chiarezza e svelare che le soft skills sono solo un maldestro tentativo per piegare la scuola – istituzione a principi quali la dimensione socio – emotiva e le esigenze della modernizzazione, che si possono sintetizzare con la pedagogia dell’adattamento dei singoli sempre e soltanto alle richieste del mercato del lavoro.

Tento un primo chiarimento.  Anzitutto propongo una rilettura del decalogo stilato dall’OMS in cui si descrivevano tre aree di competenza: emotive, relazionali e cognitive.  Con il termine skills for life, non soft skills, l’OMS intendeva abilità e competenze che è necessario apprendere per mettersi in relazione con gli altri, per affrontare i problemi, le pressioni, lo stress della vita quotidiana. L’OMS ne raccomandava fin dal 1992 l’adozione nei programmi di insegnamento a tutti i livelli soprattutto nell’età scolare (infanzia e adolescenza). Nell’elenco appaiono decision making, problem solving, pensiero critico, pensiero creativo, comunicazione efficace, capacità di relazioni interpersonali, autoconsapevolezza, empatia, gestione delle emozioni, gestione dello stress, che in parte richiamano il ruolo dei sistemi educativi.

Una proposta accolta, con accenti diversi, nella legge e in alcuni provvedimenti legislativi del ciclo secondario, che non può essere archiviata perché datata o poco praticabile a scuola se non si fa chiarezza su cosa intendiamo per percorsi di istruzione. All’OMS dobbiamo in tempi più recenti l’ICF che, come è noto, ha influenzato la progettazione curricolare in materia di inclusione (vedi BES). Ma, come evidente, si tratta di ben altro ed è necessario esplicitare quel che intendiamo per inclusione per tutte e per tutti.  Non è la stessa prospettiva evocata con il principio della centralità della persona nelle recenti Nuove Indicazioni 2025, peraltro senza aggiungere alla parola persona l’aggettivo “umana” (come nella Costituzione) o proporre la centralità del soggetto che apprende (nella pedagogia). È di ben altra fisionomia la dimensione socio – emotiva, dei talenti, del capitale umano, accolti anche in documenti e indagini internazionali, a fondamento dell’agire educativo [7].

Per cogliere la preoccupazione che esprimo ribadisco che l’idea di trasversalità a cui guardo con rinnovato interesse è, dal mio punto di vista, quella ancorata al dialogo fra i saperi, l’unica, io credo, che rimane una priorità di intervento educativo e didattico in una dimensione cooperativa e laboratoriale.

Ancora un tassello e alcune preoccupazioni. L’Istituto Nazionale di Valutazione del Sistema educativo di Istruzione e formazione (INVALSI), nel solco di una indagine internazionale Socio Emotional Skills promossa dall’OCSE [8], ha avviato una indagine con il coinvolgimento di scuole campione e circa 3000 ragazzi frequentanti la prima classe della scuola secondaria di primo grado. Il progetto in questione, denominato ENRICH (Evaluating Non cognitive skills for Resilience Innovation and   Change), ha fra gli obiettivi dichiarati quello di progettare e sperimentare un framework che misura le competenze non cognitive, di  rilevarle, di creare un database, di analizzare le determinanti che spiegano i fattori non cognitivi [9]. Un aspetto non secondario che desta molte preoccupazioni soprattutto per un possibile utilizzo di informazioni sui tratti della personalità oggetto dell’indagine, che segnano le vite di bambini e adolescenti, soprattutto quelli a rischio educativo. Segnalo il pericolo di una visione deterministica che fa il paio con l’enfasi sulla personalizzazione e sui talenti, che mette in relazione le competenze non cognitive con il rendimento scolastico. Una impostazione che privilegia un orientamento che fa leva sulle caratteristiche delle persone che evolvono nei contesti familiari e sociali, differenze che la scuola accoglie e delle quali si prende cura.

Non posso che richiamare, in conclusione, l’attenzione che merita tale situazione per noi insegnanti se, come pare, si vuole liquidare l’idea di trasversalità ancorata a quelle che sono definite le hard skills, ovvero le conoscenze e le abilità specifiche su cui si costruiscono competenze culturali ampie e durature, dunque competenze di cittadinanza.

Siamo di fronte a una ennesima semplificazione e a una marginalizzazione del ruolo della scuola che derivano entrambi da un approccio definito come “modernizzazione”; invece di insistere sul dialogo fra i saperi, scarica su di essa lo sviluppo di competenze extra-disciplinari, che hanno bisogno di ben altri interventi di sostegno e di accompagnamento in ambito sociale. Non è onesto intellettualmente inventarsi una didattica che si costruisca sul riconoscimento e la cura delle proprie emozioni e dello stress, che pure hanno un ruolo educativo importante, ma che sono altra cosa rispetto agli aspetti specificamente didattici delle discipline scolastiche. A meno che non stiamo predisponendo sportelli in appalto esterno diffusi in tutte le istituzioni scolastiche per risolvere le problematiche educative o si intenda spingere gli insegnanti ad occuparsi di altro, in particolare del discusso concetto di capitale umano che chiama in causa, dopo la scuola, il mondo economico e produttivo. Già i tutor e gli orientatori hanno depotenziato gli organi collegiali proponendo che altri insegnanti, non direttamente impegnati nelle classi degli studenti destinatari dei percorsi di accompagnamenti, sostengano i singoli nelle scelte future, indipendentemente dalla quotidianità del fare scuola, dal curricolo, al contesto socio – economico e culturale di riferimento.

C’è da stare attenti a scuola se dovesse prevalere la tesi che le fragilità di ciascuno si curino con didattiche estranee ai percorsi curricolari che si fondano, invece, sul contributo di studiosi e di esperti disciplinari che fanno leva sull’apprendimento inteso come processo attivo, sulla relazione educativa e la mediazione culturale che è tempo di riconsegnare all’autentico dialogo fra i saperi, quella unitarietà che rimane ancora problema aperto mancando i luoghi della negoziazione e del confronto fra chi insegna e chi impara.

Note

[1] D. Bertocchi et alli, L’italiano a scuola, La Nuova Italia 1987

[2] Indicazioni per il curricolo per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo di istruzione, MPI   2007

 [3] Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione, MPI  2012

[4] B. Vertecchi, Insuccessi personalizzati Insegnare 5/03 V. anche Parole per la scuola, Franco Angeli, 2012

[5] Bertagna G. Per una scuola dell’inclusione, edizioni Studium, 2022

 [6] OMS, Skills for life, n. 1, 1992

[7] Beyond literacy: the incremental value of non cognitive skills , Papers n. 311

[8] Survey on Social and Emotional Skills, OECD 2023   Disponibili sul sito dell’OCSE i risultati della ricerca in due rapporti, aprile – ottobre 2024

[9] ENRICH, Progetto condotto in partenariato con Università di Napoli Parthenope e da INVALSI – Missione 4  PNRR, 2025 in corso

Scrive...

Caterina Gammaldi A lungo docente di scuola media; già componente del CSPI

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