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16/02/2025

Il confronto sulla storia insegnata a partire dalle anticipazioni fornite dal ministro Valditara sulle future Indicazioni nazionali

di Carlo Palumbo

In un clima di preoccupazione dell’opinione pubblica per l’attuale contesto internazionale, con l’attenzione dei media puntata sulla nuova presidenza americana e sui possibili esiti dei principali conflitti in corso, quelli in Ucraina e nel Vicino oriente, con l’Unione europea concentrata sempre più sul tema del riarmo e del sostegno al conflitto contro la Russia, con una ripresa dei nazionalismi in numerosi paesi europei, il ministro Valditara ha recentemente diffuso alcune anticipazioni sulle nuove Indicazioni nazionali per le scuole [1]
Al centro delle considerazioni del Ministro vi è una rilettura del curricolo centrato sulla nostra identità nazionale. Ovviamente questa volontà di riscrivere il nostro progetto educativo ha aperto un serrato confronto tra gli addetti ai lavori. Di seguito cercherò di rendere i tratti essenziali di questa discussione.
Un primo problema viene proposto da Dario Missaglia, che interviene sul 1° numero del 2025 della Rivista Articolo 33, con un articolo dal titolo: “Dalla guerra della memoria alla guerra alla memoria”. L’autore inizia il suo ragionamento a partire dal volume di Filippo Focardi, “La guerra alla memoria”[2], che fornisce una vasta sintesi sulla narrazione che le forze politiche hanno fatto sulla Resistenza. Missaglia ricorda che nel 2024 le forze dell’attuale governo hanno scelto su questo tema il silenzio. Un silenzio su storia e memoria che serve a spingere verso l’oblio, verso un nuovo senso comune schiacciato su un presente senza radici. La storia, e il suo insegnamento, diventano un inutile peso, una perdita di tempo, a meno che non si trasformi in un racconto retorico, teso a costruire un’identità fittizia. E gli effetti deleteri di questo presente senza storia non può che avere conseguenze sulla comprensione del nostro mondo attuale. Per l’autore, “questo presente senza storia è un rischio reale, alimentato dal dominio dei social, da spinte indotte dal mercato e anche da una politica della sinistra ancora ‘incerta’, la risposta culturale, pedagogica e didattica che anche noi dobbiamo alimentare affinché viva nella scuola, non può che riproporre la dimensione storica come l’unico modo di leggere e interpretare le vicende umane”.
 Senza storia i ricordi si smarriscono, tutto diventa indistinto, e “l’effetto sulla persona è la deriva verso l’indifferenza, verso quella ‘zona grigia’ che Primo Levi denunciava come il rischio mortale, perché se dimentichiamo l’orrore di ciò che è stato, esso può tornare. Il rischio letale dell’indifferenza, si può sconfiggere soltanto con una scuola che ‘prende parte’, si schiera senza indugio sulla scelta della Costituzione come vincolo etico e culturale per la formazione delle nuove generazioni”. Missaglia ricorda le ambiguità della lettera aperta della Presidente del Consiglio Meloni, in occasione della ricorrenza del 25 aprile 2023, in cui proponeva di trasformare quella data in “momento di ritrovata concordia nazionale”, con una rilettura da destra della Festa della liberazione. Purtroppo a sinistra nessuno ne denunciò “l’infondatezza storica e la evidente strumentalità politica”, mentre a destra non si colse “il rischio di intaccare la matrice neofascista che ancora segna parte del proprio elettorato”. Nel 2024, invece, Giorgia Meloni “si è astenuta da una qualsiasi dichiarazione o riflessione sul 25 aprile. Una consegna al silenzio quasi a preludere a una nuova strategia: non più il conflitto a viso aperto con la cultura antifascista ma la progressiva sterilizzazione della memoria, l’incedere silenzioso verso l’oblio della storia”. In due differenti occasioni, le celebrazioni per l’anniversario della strage di piazza della Loggia a Brescia, il 28 maggio scorso, e l’anniversario del delitto Matteotti, ricordato in Parlamento il 10 giugno, si evidenziano i differenti comportamenti del Presidente della Repubblica Mattarella, presente in ambedue le occasioni, e l’assenza per contrasto del Capo del Governo, a dimostrare ancora una volta che la destra attuale è tutta tesa “a sminuire, ridurre, confinare fascismo e Resistenza in un tempo lontano che le nuove generazioni non conoscono e non sarebbero interessate a conoscere.


Il recente contributo di Missaglia segue il dibattito pubblico sulla scuola che nel corso del 2024 si è confrontato sulle anticipazioni fornite dal ministro Valditara. Se ne è parlato in diversi convegni dai quali emerge che la tendenza a rinazionalizzare i programmi di storia non è solo italiana e non parte certamente solo dalla volontà del nostro ministro. In realtà questo processo comincia dopo il fallimento della Costituzione europea e l’ingresso dei paesi dell’Europa dell’Est nell’Unione. Sono per primi questi Paesi, già appartenenti al Patto di Varsavia fino al 1989-1990, a riscoprire precocemente un’identità nazionale su cui riorientare gli stessi programmi scolastici di storia. Una tendenza che negli ultimi quindici anni si è progressivamente diffusa anche in Europa occidentale, a cominciare dall’Olanda. Di seguito vorrei proporre una sorta di antologia di riflessioni tratte da alcuni di questi interventi, che forniscono importanti spunti per continuare la discussione.

Comincio dal convegno organizzato a Roma il 19 novembre 2024, col titolo “Nazione, Identità, Scuola. Linee per una discussione critica”, dall’Associazione Proteo Fare Sapere. Il convegno interviene sul lavoro della Commissione nominata da Valditara per le nuove Indicazioni curricolari per la scuola e sulle anticipazioni che individuano nell’identità nazionale italiana e nella rinnovata enfasi di patria e nazione uno degli assi della formazione scolastica. Il convegno sarebbe servito ad acquisire consapevolezza su queste categorie, evitando di esprimere una valutazione sotto la spinta di reazioni emotive immediate. Per Massimo Baldacci, che lo ha aperto, si tratterebbe di un cambiamento nella politica culturale e formativa che riguarda la scuola. Dei tre possibili indirizzi, l’economicismo, l’autoritarismo, il nazionalismo, il relatore ritiene che l’orientamento che più innerva l’impostazione dell’attuale Governo sia il “nazionalismo”. Ne sarebbe un’anticipazione il volume Insegnare l’Italia (2023) di Galli della Loggia e Perla [3] dove sono messe in discussione alcune delle Indicazioni curricolari del 2012, in particolare l’apertura interculturale del curricolo e il taglio critico assegnato alle scienze umane e soprattutto alla storia, per rispondere alla sempre maggiore complessità culturale del mondo presente. Esse andrebbero sostituite, per i due autori, attribuendo un ruolo centrale all’identità nazionale italiana, “presentata come il cemento della coesione nazionale dello Stato, come il frutto della sua storia e della sua tradizione”.   Il tema dell’identità nazionale diventerebbe così l’organizzatore dell’intero curricolo di studi e il fondamento dell’istruzione scolastica.

Per Baldacci l’intera operazione sarebbe priva di fondamento critico, perché l’identità personale e sociale non è un dato predefinito rispetto al soggetto, ma un compito da affrontare e che muta storicamente. Si tratta cioè di “un’opera di costruzione psico-sociale, che si compie nel rapporto e nella tensione con l’alterità”. Questa ricerca sarebbe oggi “una sorta di ossessione”, a causa “dei processi di frantumazione sociale e di individualizzazione prodotti dalla società competitiva neoliberista”. Anche l’idea di “nazione” andrebbe messa in discussione. Essa appare a volte basata su una visione “essenzialista”, come dato di natura oppure si perderebbe in un passato lontanissimo. Può assumere, nella forma più radicale, il carattere di una “comunità di sangue” e di “destino”. L’altra interpretazione è quella “costruttivista”, come “costruzione politico-culturale di origine moderna”, prodotta dai moderni Stati per nazionalizzare le masse. Si tratterebbe cioè di una comunità immaginata e costruita attraverso la comunicazione sociale, la stampa innanzitutto, anche richiamando pretese antiche tradizioni culturali. Per Galli della Loggia, l’idea di nazione sarebbe invece ipostatizzata, un dato consolidato e un fondamento anche “sotto il profilo pedagogico”.  Per Baldacci, al contrario, l’idea di nazione “rappresenta una costruzione culturale a scopi politico-egemonici” da parte di gruppi sociali che aspirano alla guida di un Paese. Tuttavia l’idea nazionalista è cresciuta in questi anni anche per reazione allo smarrimento provocato dalla ristrutturazione del capitalismo e dal neoliberismo, costituirebbe cioè un rifugio, una sicurezza, permettendo di accedere, per chi ci crede, ad una qualche comunità anche se illusoria. Nell’intenzione di Valditara, l’identità nazionale servirebbe a curvare il curricolo in senso nazionalista e monoculturale (contro quello interculturale), col rischio, proprio di ogni operazione di questo tipo, di trasformare un’operazione identitaria, cioè con un valore distintivo, in una antagonistica contro l’altro, contro chi è diverso. L’atteggiamento contro i flussi migratori andrebbe già in questo senso. Tutta questa operazione culturale e pedagogica ha carattere regressivo, e contrasta col complesso dei valori che la nostra Costituzione invece individua.

Il 9 novembre 2024, a Bologna, si è svolto un altro convegno sullo stesso tema, col titolo “Didattica della Storia tra storiografia e memoria”, promosso dalla Società Italiana di Didattica della Storia.  Nella relazione introduttiva, Piero Colla ha parlato di “Stato, Nazione, Patria e curricoli di storia. Trend e controversie europee”. L’autore affronta il tema della “rinazionalizzazione” dell’insegnamento della storia che può essere individuato nelle politiche scolastiche di molti paesi europei. Vi sarebbe cioè un rapporto tra curricolo di storia, politiche dell’identità e centralità dello Stato nazionale. Ciò evidenzia il fatto che la storia insegnata si presenta secondo termini evolutivi, si tratterebbe cioè di analizzare l’alternanza tra de-nazionalizzazione e ri-nazionalizzazione. L’autore utilizza i risultati degli studi dellOsservatorio del Consiglio d’Europa sull’insegnamento della storia (OHTE) . 
La rinazionalizzazione non appare un fatto assodato, e neanche un destino. La lettura della realtà appare più quella di un compromesso tra funzioni diverse: identitaria, civile, funzionale a competenze cognitive. In passato la storia era funzionale ai processi europei di Nation building. Oggi la questione è più complessa, perché Stato e nazione non sempre si sovrappongono: una “narrazione nazionale può vivere facendo a meno dello Stato e del curricolo”. Lo Stato-nazione di oggi non è quello ottocentesco, né dal punto di vista sociale, né dell’organizzazione formale dell’insegnamento. In molti paesi europei, alle ambizioni di narrazioni nazionali si contrappongono gruppi minoritari, poteri locali, minoranze linguistico-culturali. Si confrontano quindi narrazioni contrapposte. In una prospettiva secolare, “il nesso dei canoni, dei curricoli, delle culture (laddove esistono canoni e curricoli) col fenomeno della costruzione immaginaria della Nazione, non è stato così indiscusso, così indifferenziato come si potrebbe credere (…) La presa dello Stato-nazione sull’insegnamento è sempre stata un tema conflittuale, conteso – sia sul piano narrativo, sia sul piano istituzionale”. Colla propone gli esempi di Gran Bretagna, Belgio, Germania, Spagna, dove questi conflitti sono di lunga data. E spesso si è in presenza di formazioni nazionaliste ma che agiscono come “anti-Stato”. Un caso a sé è quello francese, che anzi funge da archetipo, in cui “la storia è utilizzata in modo costante e prescrittivo, come cemento dell’identità nazionale”. In Francia “lo Stato ha preceduto la nazione, e si è incaricato di metterne in forma i lineamenti”. In Gran Bretagna e in Germania non è così.
Si può delineare una visione pan-europea dell’insegnamento della storia. Dopo la seconda guerra mondiale, ad Ovest vi è una presa di distanza dalla visione della storia come illustrazione edificante, come autoaffermazione della nazione. Hanno pesato l’impatto emotivo della guerra, il rifiuto dei pregiudizi tra i popoli e la spinta all’integrazione europea, i discorsi sulla democrazia e sui diritti universali. Negli anni della guerra fredda, a Est, invece, il fondamento nazionalista è stato contrastato con l’ideologia internazionalista tipica delle “democrazie popolari”. I canoni nazionali, in questa epoca, sono stati erosi da due forze centripete: la prima, dall’alto, quella fondata sul dialogo “tra le nazioni”, in nome di valori superiori e universali; la seconda, all’interno, invece, dal basso, quando sono state progressivamente riconosciute comunità culturali sub-statali capaci di mettere in discussione l’unità della memoria condivisa o imposta della cittadinanza.

A partire dagli anni Novanta, la de-nazionalizzazione dell’insegnamento della storia ha seguito due strade complementari: da una parte la ricerca di competenze trasversali attente al dialogo interculturale e alla diversità; dall’altra una politica della memoria (o delle memorie) in una dimensione politica ed educativa. Le due strade hanno proposto, dopo il 2000, un uso identitario, per l’Europa, della storia non nazionalista. Si pensi alla memoria delle vittime, in particolare della Shoah, che dovrebbe costituire una sintesi narrativa forte come antidoto del razzismo, mentre non è riuscita ad affermarsi il mito di una tradizione identitaria europea. L’educazione alla memoria, a volte con l’obiettivo di riconciliare le memorie contrapposte, ha tuttavia assunto una dimensione moralistica anche controproducente.

Con l’allargamento dell’Unione europea del 2004, tuttavia, questo meccanismo si inceppa. Si esaurisce la spinta propulsiva verso l’unità, mentre arrivano le minacce, reali o percepite, alla sicurezza e all’identità culturale dei paesi europei: “terrorismo, immigrazione, visibilità crescente delle differenze culturali”. La Raccomandazione del Parlamento e del Consiglio del 2006 con le competenze chiave per l’apprendimento permanente, prevede “la capacità di impegnarsi nella partecipazione attiva e democratica, in società sempre più differenziate”, ma viene percepito in diversi paesi come un attacco alle proprie prerogative. Con la sconfitta dopo il 2004 dei referendum sulla Costituzione europea (Francia, Paesi Bassi, Danimarca), inizia una sorta di riflusso nel processo di de-nazionalizzazione, comincia ad essere criticata la retorica universalistica e la smobilitazione del sentimento nazionale. Sarà proprio dall’Olanda e dal Belgio che per prima viene avanzata una richiesta di reintrodurre un “canone” formale e obbligatorio di storia nazionale. Secondo Colla, “la ri-nazionalizzazione è in parte una risposta populista, a quello che l’uomo della strada si aspetta dall’insegnamento della storia, in parte una reazione alla frammentazione delle fonti, alla crisi della verità, alla frammentazione della società stessa.”
Tuttavia anche “l’elogio dell’universalismo corrisponde ad un uso normativo e morale della storia”, si tratta invece di liberare gli insegnanti “Dalle tante finalità che si sono accumulate sulla materia, per focalizzarci di nuovo sulla conoscenza e sulla funzione critica della storia”.
Sempre Piero Colla è autore di un articolo pubblicato su Novecento.org il 22 febbraio 2023, dal titolo: “Tre questioni sull’insegnamento della storia in Europa e dell’Europa di fronte alle urgenze del presente”. 

Riprendo alcune considerazioni del suo intervento.
La prima questione, sull’allargamento dell’Unione europea a partire dal maggio 2004, in cui si realizza l’adesione dei paesi dell’Est e del Sud-est europeo all’Unione (poi quelle della Bulgaria e della Romania nel 2007 e della Croazia nel 2009). Questa adesione, che riunifica dopo la guerra gran parte della vecchia Europa, coincide col tentativo, non riuscito, di ridefinire l’identità politica dell’Unione europea, a partire da una Costituzione comune.
Questo allargamento riaprì la questione dell’identità dell’Europa e dei suoi confini anche simbolici, considerando che Est ed Ovest si ritrovarono ad esprimere sensibilità differenti, quando fino ad allora la base comune che aveva tenuto insieme l’idea di Europa era costituita dal tema dei diritti umani. Mentre ad Ovest il dopoguerra appariva come un’epoca di stabilità e di autodeterminazione, al contrario i Paesi orientali lo hanno riletto alla luce di un’oppressione straniera, anche se “contrabbandata da emancipazione e riscatto”. Le due visioni hanno finito per scontrarsi nonostante una riunificazione formale su molti concetti: la nazione, la sovranità, lo Stato di diritto, lo Stato sociale, la libertà d’impresa, il significato della cittadinanza e il giudizio sugli altri, a partire dai migranti.
L’idea veicolata dai mezzi di comunicazione faceva pensare ad una migrazione dei valori unidirezionale, da Ovest verso Est, con una sorta di colonizzazione della cultura dei cittadini europei orientali. In realtà, la comunicazione funzionò nei due sensi. Nello stesso momento, in tutta Europa si verifica l’ascesa di forze politiche che basano la presa elettorale su una concezione etnoculturale e che sono scettici sull’idea di Unione europea. Queste tendenze, ostili all’universalismo democratico, sono state confermate di nuovo nelle elezioni europee del 2022, come nei casi della Svezia e dell’Italia, ma erano già presenti in paesi come la Romania, la Polonia, l’Ungheria e la Slovacchia. In qualche modo, negli ultimi anni si è affermata una differente idea di Europa rispetto a quella nata nel 1957 a Roma, ovvero un’Europa dei partiti nazionalisti, che trova la fonte di legittimità nelle comunità nazionali piuttosto che in un super-stato che li priverebbe di sovranità. L’attuale ondata “populista” sta operando per una decostruzione del progetto federale europeo.

La seconda questione: in che modo viene costruito il discorso storico da veicolare tra i cittadini europei? Vi sono differenze tra Est e Ovest in questo racconto? Per l’autore ovviamente la storia insegnata non può essere un derivato o uno strumento dei processi di costruzione della nazione sul modello ottocentesco. Appare però certo che si stia assistendo ad azioni comuni in molti paesi d’Europa che tendono a ri-nazionalizzare i curricoli di storia, con un discorso di restaurazione che dovrebbe contrastare la mancanza di senso di appartenenza e di conoscenza della storia comune da parte degli allievi: sta avvenendo in Francia, in Danimarca, nei Paesi Bassi. Differente è, invece, il percorso dei paesi che avevano fatto parte dell’area di influenza sovietica: qui il discorso nazionale viene recuperato per riaffermare la continuità del racconto nazionale dopo il periodo comunista, ma con un’amnesia sulle contraddizioni anche ideologiche che questi paesi hanno vissuto nel corso del Novecento. Sono queste le occasioni in cui viene riproposto pesantemente l’uso politico della storia nazionale, con l’obiettivo di nascondere le pagine imbarazzanti del proprio passato.

Terzo argomento: riguarda un presunto indebolimento dell’insegnamento della storia nella scuola in Europa. Se nei paesi dell’Europa occidentale avanzano gli insegnamenti nuovi legati alla “cittadinanza”, ed effettivamente si può parlare di una crisi della storia come insegnamento, all’Est l’insegnamento della storia è rivalutato ma finalizzato politicamente. Lo studio preliminare alla creazione presso il Consiglio d’Europa dell’OHTE, risale al 2019, conferma che progressivamente la storia è stata inglobata in altre discipline, esclusa dall’esame finale o resa facoltativa. In diversi casi è presente solo nel primo ciclo e successivamente solo nei licei. Nei paesi dell’Europa occidentale e del Nord-America si tratta di un processo di lungo periodo, iniziato già negli anni Novanta. Inoltre sono diventate sempre più indeterminate le finalità, i quadri epistemologici, i contenuti e i metodi della disciplina. Il tipo di conoscenze che la storia dovrebbe assicurare è diventato insicuro e sempre più subordinato a competenze di carattere socio-emotivo.
In Europa orientale, al contrario, sulla spinta della ritrovata indipendenza nazionale, vi è stata una riscoperta o una reinvenzione del racconto nazionale, sempre in chiave autoassolutoria rispetto al passato recente, ma anche con pratiche autoritarie del sistema politico che hanno impedito di rendere più libero il curricolo e che hanno portato ad intervenire per un controllo dei manuali con varie modalità.

Chiudo con due contributi di Charles Heimberg, dell’Università di Ginevra, e di Ivo Mattozzi, di Clio 92, su “quale storia serve ad una società democratica”. Si tratta degli interventi al seminario: “Insegnare storia al tempo della rinazionalizzazione dei programmi”, organizzato da SIDIDAST e svoltosi il 12 luglio 2024

Secondo Charles Heimberg, sarebbe necessario “tenere conto delle sfide epistemologiche della scientificità degli apprendimenti, dell'importanza dell'uso pubblico della storia in diversi ambiti della società e della necessità di saper includere temi socialmente sensibili per consentire a questa disciplina di dare un contributo reale alla costruzione di un'intelligibilità del presente per gli allievi”. Al contrario: “Il processo di nazionalizzazione, o rinazionalizzazione, dei programmi di storia, dal momento che tende a rinchiudere gli attori in un'identità predeterminata e reificata, taglia fuori ogni prospettiva di emancipazione, ottenuta attraverso il lavoro della storia. Inoltre, porta allo sviluppo di una visione del passato che non rende giustizia allo spazio di iniziativa dei suoi protagonisti e li rinchiude in una sorta di fatalità del passato che finisce per indurre un senso di fatalità del presente”. Meglio fornire agli studenti strumenti per una riflessione indipendente, che permetta loro “di collocarsi nel mondo”. In una società democratica, non possiamo permetterci di non fornire alle giovani generazioni un approccio critico della storia per guardare al passato e al presente in una prospettiva di emancipazione, piuttosto che confinarli nei miti e nelle favole identitarie che si vorrebbe forzatamente reintrodurre in una prospettiva di costruzione identitaria su base nazionalistica.
Secondo Ivo Mattozzi, la storia serve allo studente per imparare a ragionare storicamente e per stare nelle storie effettive. La storia scolastica deve essere allora fondata come disciplina da un punto di vista epistemologico e metodologico. Il processo di insegnamento-apprendimento dovrebbe perciò formare molteplici competenze: “la competenza alla lettura e comprensione e analisi critica dei testi storici, la competenza a usare tracce come fonti, la competenza a reagire alle false notizie e all’uso pubblico della storia, la competenza a prendere posizione nelle storie in corso”. Esse sono il risultato di operazioni cognitive e di conoscenze significative il cui raggiungimento dovrebbe ispirare il curricolo di storia. “Le operazioni cognitive sono quelle indispensabili per capire la struttura dei testi storiografici e per imparare a trasporli in rappresentazioni grafiche, in mappe concettuali, in altri testi. E sono impegnate anche nella critica e nell’uso delle tracce come fonti per produrre informazioni e nella loro organizzazione spaziale e temporale”. “Le conoscenze sono significative solo se sono selezionate e organizzate in modo da rendere evidente il rapporto tra processi e stati di cose del passato e caratteristiche del presente”. Queste competenze potrebbero essere raggiunte anche occupandosi come contenuti di storia italiana. Ma l’obiettivo dovrebbe essere la formazione del pensiero storico e di competenze critiche, non istillare valori ideologici e fare della storia un uso politico.
L’identità della popolazione nel passato, e oggi quella degli immigrati, si è formata per tanto tempo senza che si studiasse la storia nazionale scolastica. “È la storia effettiva da loro vissuta nella società che li accoglie che induce gli immigrati ad acquisire i tratti identitari della società accogliente. Sono i tratti caratteristici della civiltà italiana che vengono assorbiti via via che gli immigrati fanno esperienze della vita scolastica, esperienze del mondo del lavoro, esperienze economiche, esperienze sociali: insomma, è la storia in corso che rende possibile acquisire comportamenti e valori che contribuiscono a formare l’identità italiana”.

Ora una conclusione provvisoria per chi si occupa di scuola e di insegnamento della storia che invita ad agire. In seguito all’intervista rilasciata il 15 gennaio 2025 al Giornale da Valditara, che anticipava alcuni elementi delle nuove Indicazioni nazionali, Massimo Baldacci (Presidente nazionale di Proteo) e Antonio Brusa (Presidente della Società Italiana di Didattica della Storia), hanno sottoscritto un documento, che sta circolando da qualche giorno.  

Nel documento si afferma: “Tale tema è se un intero programma di studi possa essere finalizzato a uno scopo politico, quale quello della costruzione (o della salvaguardia) di un’identità collettiva, e se a questo debba essere subordinato l’apprendimento di discipline scientifiche, quali in particolare la storia e la geografia (ma non dimentichiamo la riduzione della letteratura a contenitore di valori identitari). A questo proposito, appare emblematico il passaggio dell’intervista circa l’insegnamento della storia: ‘L’idea è quella di sviluppare questa disciplina come una grande narrazione, senza caricarla di sovrastrutture ideologiche, privilegiando inoltre la storia d’Italia, dell’Europa, dell’Occidente’. (…) Si tratterebbe, a dispetto delle parole del ministro, di una scelta ideologica, che andrebbe a scapito del profilo scientifico del curricolo, e quindi del suo autentico valore formativo (…). Nel frattempo, sollecitiamo gli insegnanti, gli studiosi e le associazioni professionali a prendere consapevolezza della posta in gioco e a discuterla”.

L’appello è stato sottoscritto da Valentina Chinnici a nome del Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti, e da M. Gloria Calì per conto di questa rivista. 

 

Note

[1] S. Zurlo, “Più storia dell’Italia ma senza ideologia”. Il ministro Giuseppe Valditara: “Sui banchi i ragazzi devono trovare il gusto della lettura e imparare a scrivere bene”, Il Giornale 15 gennaio 2025.
[2]  F. Focardi, La guerra della memoria. La Resistenza nel dibattito politico italiano dal 1945 a oggi, Laterza, Roma-Bari 2020
[3] E. Galli della Loggia-L. Perla, Insegnare l’Italia. Una proposta per la scuola dell’obbligo, Scholé, Brescia 2023.

Scrive...

Carlo Palumbo Ha insegnato al Primo Liceo Artistico di Torino, pubblicista e autore di ricerche e progetti didattici anche nazionali, svolge attività di formatore e aggiornatore in progetti del CIDI, con particolare attenzione alla storia del Novecento,

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