Se pensate come un dato assoluto, le culture divengono un recinto invalicabile, che alimenta nuove forme di razzismo.
Marco Aime, Eccessi di culture
Ciascuno di noi dovrebbe essere incoraggiato ad assumere la propria diversità, a concepire la propria identità come la somma delle sue diverse appartenenze, invece di confonderla con una sola, eretta ad appartenenza suprema e a strumento di esclusione, talvolta a strumento di guerra.
Amin Maalouf, L’identità
Dobbiamo… legare concentricamente le nostre patrie-familiari, regionali, nazionali, europee – e integrarle nell’universo concreto della patria terrestre.
Edgar Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro
Sembra scritto oggi ciò che dicevo in un articolo del 2006, pubblicato sulla rivista insegnare, che mostra, purtroppo, ancora tutta la sua attualità in questo particolare momento di messa in discussione di alcune fondamentali acquisizioni in storia e nel suo insegnamento.
Migrazioni, tensioni internazionali, flussi di comunicazioni disegnano la fitta trama della società complessa e globalizzata dentro la quale, mentre alcune barriere sembrano crollare, nuove frontiere, nuovi confini vengono disegnati.
Come aveva già scritto Alberto Cavallari “Vi sono frontiere dentro di noi che riaffiorano appena si cancellano, anche quando cessiamo di difendere le frontiere che ci dividono e cerchiamo l’uguaglianza universale contro il separatismo che rende stranieri”. Allora come può la scuola rispondere a queste e ad altre sfide dei nostri tempi? Che cosa può fare la storia? E quale storia?
Riprendendo una metafora di Franco Frabboni [1] per comprendere la complessità, le ingiustizie, le violenze e costruire speranze e utopie per il futuro occorre che gli uomini e le donne dei nostri tempi siano dotati di ‘occhiali intercontinentali’, occhiali dallo sguardo mondiale, quindi dotati di molteplici e profondi punti di osservazione.»[2]
«Allora occorre che tutti gli studenti si approprino della categoria della complessità per analizzare le diverse società nel tempo e nello spazio, assumendo una molteplicità di sguardi e di punti di vista, mettendo in discussione la propria percezione soggettiva e personale, evitando semplificazioni e letture unidimensionali degli eventi (come purtroppo avviene in questi ultimi tempi) che fomentano incomprensioni, conflitti e vorrebbero dare senso a presunti scontri di civiltà; e partendo, invece, dall’assunto che “tutte le culture hanno le loro virtù, le loro esperienze, le loro saggezze e, nello stesso tempo, le loro ignoranze”, per esercitare la capacità di distinguere, l’intelligenza critica e, quindi, per poter scegliere.
E ancora, occorre una riflessione seria sui concetti, oggi così abusati, di identità, tradizioni, radici, cultura, che vanno assunti nella loro problematicità, guardati nella loro dinamicità, apertura, criticità per spezzare quell’idea generalista ed essenzialista, purtroppo così diffusa, che vede le culture come cose stabili, omogenee, delimitate da precisi confini spaziali e simbolici. Si tratta, invece, di pensare che le società sono sempre multiculturali e che le culture sono e sono state sempre sistemi porosi, luoghi di scambio: i cosiddetti conflitti culturali, nascondono molto spesso interessi di potere di élite politiche ed economiche.
Ecco perché, in un contesto di planetarizzazione dei fenomeni e degli eventi, ma anche dei conflitti, in contesti interculturali quali sono le nostre società, in classi che registrano una presenza sempre più consistente di ragazzi e ragazze provenienti da più parti del mondo, non trovano giustificazione l’idea di un curricolo identitario […] e la visione italo-eurocentrica […].» [3]
Ma questo non vuol dire non far studiare la storia italiana, anzi.
« È opportuno sottolineare come proprio la ricerca storica e il ragionamento critico sui fatti essenziali relativi alla storia italiana ed europea offrano una base per riflettere in modo articolato ed argomentato sulle diversità dei gruppi umani che hanno popolato il pianeta, a partire dall’unità del genere umano.»[4]
Una storia, si potrebbe dire, su più scale, a diversi livelli di approfondimento, capace di far cogliere anche gli intrecci tra persone, culture, economie, religioni, eventi. Ogni fenomeno storico ha una scala spaziale privilegiata di osservazione per la comprensione dei processi e degli aspetti: dal mondiale al locale e viceversa.
Basti pensare a fenomeni e processi che avvengono su scala mondiale o che inglobano più aree (es. ominazione e popolamento planetario, rivoluzione agricola, rivoluzione urbana, vie di scambio, migrazioni, conquiste, ecc.). La stessa storia europea si presenta come l’esito di una plurimillenaria rete di contatti con società e culture diverse da quelle occidentali. Pensiamo anche al Mediterraneo crocevia, da millenni, di popoli, merci, idee, religioni, modi di vivere. Ma proviamo anche a guardare agli scambi tra l’Asia e l’Africa, talvolta plurilaterali, avvenuti, per esempio, sulle acque dell’Oceano Indiano che, come il mar Mediterraneo, è stato per millenni lo specchio di contaminazioni incessanti tra culture, lingue, economie. Insomma, allarghiamo lo sguardo su fenomeni o vicende, evidenziandone gli intrecci e le connessioni, all’interno di scenari più ampi che possono essere di volta in volta transregionali, transnazionali, transcontinentali.
Lo stesso Erodoto, ora così evocato, aveva ampliato lo sguardo, viaggiando per mare e per terra, e, attraverso le sue dirette osservazioni, che ben distinse dalle informazioni raccolte nei luoghi visitati o frutto di sue convinzioni, ci narra di genti, di costumi, di paesi, di fiumi che vanno ben oltre i confini che andiamo tracciando.
Allora, per tornare all’Italia, in questa dinamica di scambi e di complessità della storia, si può parlare di una identità italiana? Se, per dirla con le parole di Tomaso Montanari «[…] identità significa -etimologicamente- uguaglianza assoluta, corrispondenza esatta e perfetta, bisogna dire con chiarezza: no, questa ˝identità italiana˝ non esiste. […]. Non che gli italiani non esistono ma […] gli italiani sono multiculturali per storia e cultura. Non ha senso opporre noi a loro perché il nostro noi si è formato grazie a una somma di loro accolti e fusi in questa terra: una coabitazione senza selezione che dura fin dalla mitica fondazione di Roma da parte della discendenza di Enea, rifugiato, richiedente asilo e migrante troiano.»[5]. E lo studio della storia d’Italia ce lo conferma.
Come insegnare storia, motivando gli studenti? Certamente non sposando una sola modalità. Occorre, invece, utilizzare una varietà di metodologie, attività, strumenti di lavoro: dalle lezioni introduttive, di raccordo e di sintesi, al manuale, alle carte geografiche, tematiche, geo-storiche, ai video, ai documenti-fonte, come scritture, brani letterari, immagini, fotografie, canzoni, film, filmati, dati statistici, monumenti, opere d’arte, ma anche attingendo da internet, sapendo valutare l’attendibilità dei siti. E tutto questo e altro ancora moltissimi docenti già lo sanno e lo fanno da tempo. Per brevità mi soffermo solo su alcuni tra i più noti e utilizzati strumenti e modalità di insegnamento della storia.
Partiamo dalla narrazione, che da sola o comunque se diventa dominante nell’insegnamento di questa disciplina, soprattutto per come è intesa nel documento Nuove Indicazioni 2025 [6] non può servire a promuovere processi di apprendimento significativo, la capacità di formulare ipotesi, di interrogarsi sui fenomeni, di cercare soluzioni, di avere una parte più attiva nell’affrontarne lo studio e per acquisire e consolidare la conoscenza e il senso della storia. Quindi non c’è bisogno solo della narrazione, ma anche dell’interpretazione degli eventi storici, della critica dei fatti e delle fonti.
Lo stesso dicasi del manuale, che se è l’unico strumento per lo studio della storia, si rischia che la comprensione e l’apprendimento scadano inevitabilmente, e per lo meno tendenzialmente, in esercizio mnemonico. Piero Bevilacqua scrive in L’utilità della storia che tutto finisce per essere concatenato, necessario e indiscutibile. Da qui l’indifferenza dei ragazzi nei confronti della storia. Occorre, invece, ricordare che il manuale come ogni altra sintesi storica è una convenzione. Non si tratta dell’estratto di tutto ciò che è accaduto, più semplicemente contiene notizie sugli eventi e processi del passato che le precedenti generazioni hanno creduto di dover tramandare. Ma il manuale non è solo una sintesi essenziale e parziale del passato, è prima di tutto interpretazione storiografica di eventi e processi dei secoli e dei decenni che abbiamo alle spalle. Noi non conosciamo realmente i fatti ma la loro interpretazione. Questo comporta che i fatti si possono discutere, sottoporre a verifica, modificare, arricchire, contraddire (n.d.a.: non attraverso vulgate effimere, scandalistiche e revisionistiche della storia in senso lato, ma nel senso di una continua messa in discussione onesta e laica delle acquisizioni storiografiche). Il manuale diventa un terreno di riflessione critica [7] e considerando la varietà di quelli editi in questi ultimi anni, ricchi di apparati iconografici, documenti, carte geo-storiche, lo possiamo trasformare in un vero e proprio tavolo di lavoro, ma anche strumento di studio individuale. C’è solo un problema e non da poco. Cosa succederà ai manuali se vanno in vigore queste cosiddette “Nuove Indicazioni 2025”?
Certamente non si può neanche pensare di fare storia solo con l’uso delle fonti, ma ci sono diverse ragioni che le ritengono molto utili e necessarie nella formazione storica degli studenti. Come ha scritto Ivo Mattozzi, «sin dalla scuola primaria l’uso delle fonti ha tre obiettivi generali: 1. far concepire che la conoscenza del passato è possibile solo grazie all’uso delle fonti; 2. far rendere conto che anche le conoscenze organizzate nei libri scolastici sono state prodotte originariamente mediante il lavoro sulle fonti; 3. sollecitare le attività mentali in direzione della formazione di quelle specifiche strutture e di quello specifico stile cognitivo richiesti per la costruzione delle fonti e la produzione delle informazioni.» (Mattozzi, 1992).
Ma il lavoro didattico sulle fonti costituisce anche un contesto efficace per imparare a ragionare e acquisire conoscenze significative e meno labili di quelle acquisite in una lezione frontale o dal manuale. (Girardet, 2004). Ricavare dei fatti dai documenti è un’attività da non trascurare nella fase dell’apprendimento del sapere storico (Brusa, 1991). Tutto questo all’interno di una didattica attiva in cui lo studente partecipa alla co-costruzione di un sapere stabile e trasferibile, perché l’utilizzo delle fonti favorisce il lavoro di ricerca, di critica della fonte, di verifica e collegamento tra le informazioni, di argomentazione. Naturalmente mi riferisco ad una variata tipologia di fonti: scritte, iconiche, ma anche manufatti, resti archeologici, monumenti architettonici, testimonianze orali, audiovisivi. Inoltre, in un contesto di sovrabbondanza di informazioni storiche, che provengono dall’extra-scuola, l’analisi delle fonti può aiutare a orientarsi, selezionare e valutare le informazioni e acquisire quegli strumenti metodologici utili a formare soggetti consapevoli, critici, autonomi.[8]
E non dimentichiamo l’utilità del lavoro con le carte geo-storiche, che permettono di collocare i fenomeni nello spazio, farne comprendere le relazioni, le persistenze e i mutamenti nel tempo, in una storia in un rapporto privilegiato con la geografia.
Che dire del ruolo che i media, vecchi e nuovi, hanno assunto nell’insegnamento della storia, perché sono compatibili con il ritmo esistenziale dei ragazzi? Naturalmente occorre allenarli a una perenne vigilanza nei confronti del flusso di immagini e suoni che la società contemporanea produce, consentire l’acquisizione di capacità cognitive in grado di spezzare i modelli di passività che segnano il rapporto tra il pubblico e gli audiovisivi, promuoverne un consumo critico. Ma utilizzare i media come fonti richiede sempre la verifica dell’autenticità e dell’esattezza di un documento, la valutazione e l’attendibilità degli archivi, l’affidabilità dei siti.
Insomma, senza entrare nel merito di tutte quelle altre metodologie e quegli altri strumenti utili all’insegnamento della storia, che sono entrati in tanta pratica didattica, ricordiamo che molti sono i docenti che ormai sanno muoversi attraverso una varietà di opportunità, sapendo scegliere e calibrare metodi e strumenti, adattandoli ai diversi contesti e agli obiettivi che di volta in volta in volta si pongono. Devono continuare a farlo, nel nome della libertà d’insegnamento e dell’autonomia scolastica.
Non ci stancheremo mai di ripeterlo.
Bibliografia
Aime, M., Eccessi di culture, Einaudi, Torino, 2004.
Annali della Pubblica Istruzione, Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione, Le Monnier, Firenze, 2012.
Bernardi, P., Monducci, F. (a cura di), Insegnare storia, Utet Università, De Agostini Scuola spa-Novara, 2012.
Bevilacqua, P., L’utilità della storia, Donzelli, Roma, 2013.
De Luna, G., Colombini, C., Storia, Egea, Milano, 2017.
Frabboni, F., Società della conoscenza e scuola, Erikson, Trento, 2005.
Maalouf, A., L’identità, Bompiani, Milano, 2002.
Morin, E., I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Milano, 2001.
Sen, A., La democrazia degli altri. Perché la libertà non è un’invenzione dell’Occidente, Mondadori, Milano, 2004.
[1] Franco Frabboni, Società della conoscenza e scuola, Erikson, Trento 2005.
[2] Una storia senza frontiere, Filomena Pisciotta, in insegnare, 5/2006, mensile del Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti, editoriale ciid.
[3] Ibidem.
[4] Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione, Annali della Pubblica Istruzione, Le Monnier, Firenze 2012.
[5] Il fatto quotidiano,10/09/2018.
[6] Nuove Indicazioni 2025, Scuola dell’infanzia e Primo ciclo di istruzione- Materiali per il dibattito Pubblico: “ Anziché mirare all’obiettivo, del tutto irrealistico, di formare ragazzi (o perfino bambini!) capaci di leggere e interpretare le fonti, per poi valutarle criticamente magari alla luce delle diverse interpretazioni storiografiche, è consigliabile percorrere una via diversa. E cioè un insegnamento/apprendimento della storia che metta al centro la sua dimensione narrativa in quanto racconto delle vicende umane nel tempo.” (Pag. 71) “[…] sarà fondamentale privilegiare, da parte dell’insegnante, la dimensione della narrazione, particolarmente efficace in questa età di formazione. Non abbia timore l’insegnante di ricorrere nella sua esposizione al coinvolgimento anche emotivo e sentimentale dei giovani allievi, facendo uso di episodi particolari anche aneddotici, che fanno ancora parte della cultura del nostro paese (per la storia romana, ad esempio, il sacrificio di Muzio Scevola o l’apologo di Menenio Agrippa).” (Pag. 77).
[7] Piero Bevilacqua, L’utilità della storia, Donzelli, Roma, 2013.
[8] Ermanno Rosso, Le fonti, dalla storiografia al laboratorio di didattica, in Piero Bernardi, Francesco Monducci, (a cura di) Insegnare storia, Utet Università, De Agostini Scuola spa-Novara 2012.