Sul libro di Norberto Bottani vedi le "Letture allo specchio" di Fabio Fiore e Giacomo Mondelli.
Dopo aver letto le tesi sostenute da Norberto Bottani nel libro Requiem per la scuola e sicuramente sollecitata dalla visione dei miei alunni che stavano varcando la soglia del liceo e che, come spesso accade, mi stavano lasciando in consegna alcuni “se” e altri “ma”, ho pensato in preda a una sorta di sogno illusoriamente profetico che, seppure le ipotesi per il futuro della scuola del prossimo anno scolastico realisticamente si limitino a piccoli propositi e progetti di lieve portata, per la scuola ancora non si possa intonare nessun “requiem”.
Infatti, poiché credo nella medicina e nei progressi da essa compiuti, ritengo che la scuola possa, debba guarire, ovvero che sia inevitabile che guarisca e che la cura, a lungo termine, sia soprattutto politica nel senso squisitamente etimologico del termine. Senza la scuola non si diventa adulti e qualora essa “morisse” assisteremmo a una società di bambini, di Peter Pan alla ricerca dell’isola che non c’ è.
La scuola del presente e del futuro non può essere giudicata colpevole, non ha bisogno di essere assolta, non deve essere modificata, abolita, ma piuttosto ricreata, sì ricreata, e già la parola ricreare contiene in sé un giocoso esercizio della mente e dello spirito, vitale e potente. Tale ricreazione, però, non deve essere il frutto di quei prodigiosi e magici esercizi didattici quotidiani ffettuati dall’ esercito silente e isolato dei singoli meravigliosi insegnanti di ogni ordine e grado che la ricreano ogni giorno. La ricreazione non deve essere cioè un atto creativo spontaneo e individuale, ma frutto di un progetto sistematicamente pensato e costruito, con obiettivi ben precisi e con pochi ma chiari punti saldi.
Intanto deve essere forzatamente inclusiva (la scuola per sua definizione non può che esserlo, perché è il luogo delle discussioni e del confronto per antonomasia), tale da poter aiutare i giovani a riconoscere la propria identità nel rispetto delle diversità. Così la scuola potrà essere il luogo in cui oltre a imparare, a imparare a imparare, i giovani possano, altrove o se non in famiglia, elaborare separazioni, lutti, dolori.
Deve essere la scuola dell’espressione e non della prestazione, e pertanto non meritocratica, non competitiva: gli Esami di Stato sono uno dei peggiori esempi nello svolgimento del processo, negli esiti e nella soddisfazione esercitata sugli utenti di quanto la competizione e il merito inficino i reali processi di crescita e maturità dell’apprendimento. In modo da non diventare il ricettacolo delle ansie e delle aspettative delle famiglie che, pur di raggiungere un risultato essenzialmente e spesso soltanto numerico, tentano, e talvolta vi riescono, di falsificare i percorsi restituendo così un’immagine distorta della realtà, che mortifica desideri, sogni, propositi e progetti. Queste famiglie non aspettano dalla scuola una valutazione obiettiva, ma che la scuola certifichi le loro presunte certezze, perché il fallimento dei propri figli potrebbe essere tradotto di fronte al contesto sociale di riferimento come una esplicita attestazione del proprio fallimento, sul quale preferiscono non fermarsi a riflettere, ma continuare piuttosto a tirare innanzi.
Deve essere la scuola del desiderio, che sia però desiderio del desiderio (deve essere governata da una sorta di sehnsucht, struggimento, malattia del doloroso: bramare) in cui del passato non si può buttare niente, del presente non si può cedere su niente e per il futuro non è ammessa la semplificazione, ma la ricerca di complessità.
Allora l’idea di una scuola futura, ma non lontana, vicina a quella che ha appena riaperto i battenti, dunque di possibile attuazione, delinea un modello rigoroso, austero, autorevole, attento (da ad teneo = tengo a te, perciò ti sto vicino), tale che diventi la pietra di paragone, il riferimento saldo e sicuro di tutti i soggetti cui si rivolge; siano essi, per usare dei termini che hanno un fascino mitologico e una spiegazione psicologica degli Edipo (uccisori dei padri, amanti delle madri ), dei Narciso (amanti di sé), degli Enea (coloro che portano sulle spalle il peso e la responsabilità di Anchise), o ancora, ma siamo nel girone dei felici e fortunati, dei Telemaco (coloro che aspettano fiduciosi il ritorno del padre).
Tale scuola dovrebbe essere un laboratorio di energie, di menti e cuori, tale che tutti gli allievi dovrebbero avere il desiderio irresistibile di superare il maestro in un processo di imitatio –aemulatio inarrestabile, perché “l’insegnamento ci chiede l’impossibile. Ci chiede di creare legami con ogni studente, non di creare legami con tutti i ragazzi come se fossero un unico studente… perché non lo sono… La verità è che non faremo mai tutto ciò di cui ha davvero bisogno un ragazzo. Ma è altrettanto vero che questo non è un buon motivo per smettere di fare del proprio meglio” (Tomlinson J.C.A., & Strickland C. A., 2005, Differentiation in practise. A resource guide for differentiating curriculum, Association for Supervision and Curriculum Developmente, Alexandria, VA).
Ed allora dovrebbe essere una scuola in cui non si perda tempo, in cui si sappia sempre che cosa fare e cosa dire, in cui niente sia improvvisato, precario, provvisorio, così che gli insegnanti possano essere e sentirsi felici di insegnare, gli alunni di conseguenza di apprendere.
Una scuola delle grandi virtù come insegnava Natalia Ginzburg: “… non il risparmio, ma la generosità e l’indifferenza al denaro, non la prudenza, ma il coraggio e lo sprezzo del pericolo; non l’astuzia, ma la schiettezza e l’amore alla verità; non la diplomazia, ma l’amore al prossimo e l’abnegazione; non il desiderio del successo, ma il desiderio di essere e sapere. Con le piccole virtù si rischia di scivolare in fretta nel cinismo, nella paura di vivere, si rischia di pesare il mondo e la vita sulla bilancia della convenienza. Le grandi virtù accendono la fantasia, l’energia, ci danno sostanza, sogni, orizzonti, ci rendono più forti e più liberi.”
La scuola che vorrei che i miei alunni si ritrovassero in questi giorniu a frequentare dovrebbe essere pubblica, aperta a tutti, laica, tale da riscuotere il consenso del contesto sociale, in cui gli ambienti di apprendimento dovrebbero essere dignitosi e accessibili, mai rinunciataria neanche di un centimetro rispetto alle conoscenze e competenze irrinunciabili, credibile e perciò inevitabilmente consapevole di avere a che fare con “pezzi” unici, irripetibili quali tutti gli alunni sono.
Una scuola che potrebbe strutturarsi sulla falsariga delle parole chiave delle “Lezioni americane” di Italo Calvino: esattezza ma al contempo leggerezza, rapidità ma contemporaneamente lentezza (Calvino non l’aveva ipotizzata ma la scuola ha bisogno anche di tempi lunghi), visibilità, che è anche trasparenza, molteplicità che è interculturalità e soprattutto coerenza, lezione che, se mai il caso avesse una sua logica, Calvino progettò soltanto, ma non scrisse mai.