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25/06/2023

Il rito antico dell'esame: strategie di sopravvivenza

di Andrea Bagni

Una volta, nei primi anni del mio insegnamento, uno studente di seconda di un tecnico industriale, di fronte ai titoli del “tema” d’italiano, mi chiese: Prof, ma perché una volta non ci dà un titolo che si possa scrivere quello che ci pare, senza troppe indicazioni?… Risposi che non glielo davo perché loro lo facevano già di scrivere quello che gli passava per la testa, senza troppe regole, qualunque traccia gli dessi. Era per la verità solo una battuta, un po’ per giocare, perché anzi una delle maggiori ossessioni degli studenti era la paura di essere andati “fuori tema” - quando al contrario se uno argomenta con un po’ di coerenza, non c’è fuori tema che tenga. Comunque la battuta funzionò, come funziona sempre giocare un po’ con i propri ruoli.

Mi è tornato in mente leggendo il testo della prima prova per l’esame di stato di quest’anno. Immagino un desiderio simile, almeno inconscio, in molte teste giovanili. Sogno illegittimo, certo. Però forse un sogno legato alla lontananza delle ragazze e dei ragazzi di oggi dai Grandi Temi proposti; non perché non siano importanti ma perché sono quasi solo Grandi Temi che piovono da un cielo lontano. Lontani dai giovani come, peraltro, anche dalla scuola reale. Questo tuttavia non sarebbe un problema: chi ha frequentato cinque anni di superiori è giusto pensare debba essere in grado di misurarsi con contenuti e testi che non ha mai visto prima. Il mondo fuori non assomiglierà più di tanto a quello incontrato a scuola e importante sarebbe avere imparato un metodo, una capacità di lettura e di ragionamento. I libri che si comprano in libreria (pochi), per fortuna, non hanno quell’apparato di note (enorme) e interpretazioni anticipate, solo da ripetere, che infestano quasi tutte le antologie. Ci si deve misurare da soli con i testi. Dovrebbe essere il primo obiettivo di ogni educazione letteraria. Anzi il secondo: il primo farne venire il desiderio, di andare in libreria e leggere libri.

 

Nei Grandi Temi c’è un po’ di tutto: la scienza e la religione, con la poesia di Quasimodo; la nazione e la libertà, l’Italia e l’Europa con Chabod; la borghesia e l’economia del sapere, Moravia e Angela; l’individuo e la storia collettiva con la Fallaci; la velocizzazione del tempo nell’era dei social con Belpoliti e perfino una lettera al ministro Bianchi sulla scuola troppo facile al tempo della pandemia. Ma troppo facile sempre, sembra di capire dal testo degli illustri accademici – Cottarelli, Fornero, Ferroni etc. Vecchia storia, sempre nuova: la scuola non deve abbassarsi per i suoi studenti se no perde valore. E però direi neppure essere irraggiungibile per quelli che ne hanno bisogno, se no perde studenti. Ma i fautori della serietà pare non si pongano davvero questo problema serio.

Il più scelto sarà probabilmente quello sull’articolo di Marco Belpoliti, l’unico vicino alla quotidianità dei giovani. Però sarà molto facile che al solito finiscano per confermare più o meno bene quello che il testo dice, nella classica tradizione retorica del ripetere con più parole il già detto. Anche per l’altro che li riguarda più da vicino, sulla serietà necessaria della scuola, che cosa potrebbero scrivere degli studenti? Che invece no: deve essere facile e priva di valore? Forse metteranno per scritto quella espressione da controfigura scolastica di se stessi che hanno quando accompagnano i genitori agli incontri con gli insegnanti: Sono d’accordo con lei prof, quanto ha ragione, lo vede come sono serio però...
 

L’esame di stato è un rito antico. Così antico che nel vissuto di massa ancora si chiama maturità. Fogli protocollo da firmare e bollare nei giorni precedenti, schede di valutazione da riempire, medie dei voti, tabelle di corrispondenza, alla fine pacchi e sigilli di ceralacca, firme e verbali cervellotici, come a un seggio elettorale – e sempre di voti in fondo si tratta. Poi agisce il terrore dei ricorsi, per cui si finisce per essere più burocratici della burocrazia.
Per chi si trova a leggere una cinquantina di testi, tutti di seguito all’esame, credo che questi titoli siano un problema. Sono “fattibili”, come dicono spesso gli studenti, ma nel senso triste che qualcosa in generale puoi scrivere su tutti. L’insegnante poi si trova a valutare testi quasi tutti uguali, dove quello che si sente subito è che non si è voluto correre rischi: non si sa chi corregge, come la pensa, che cosa vuole – dunque meglio stare sulle generali, niente di personale, tanto meno originalità. Peraltro anche le indicazioni di scrittura che accompagnano le tracce vanno in fondo nella stessa direzione: si chiede soprattutto pensiero convergente.
 

Dal punto di vista degli esiti finali non sono sicuro che sia quella della prudenza la scelta giusta per ragazze e ragazzi. Ho sempre detto loro che per un insegnante - che corregge in serie su fogli ufficiali con matita d’ordinanza, giudica e registra su modelli di valutazione prestampati pieni di item spesso strampalati -  una pagina “personale” spesso è una boccata di ossigeno che potrebbe essere premiata. Però le lunghe sei ore del compito di regola spingono a un controllo della forma e dei contenuti più che all’espressione di sé. Nel famoso rito di passaggio all’età adulta si finisce per guardare più agli adulti che siamo chiamati a diventare che a quello che siamo, o sogniamo di essere. L’occhio di vetro di cui ha parlato agli artisti Papa Francesco citando Miguel Angel Asturias, quello che non serve a vedere la realtà ma a sognare altro, quello resta spesso tristemente chiuso.

Nelle prove di quest’anno c’è traccia del nuovo governo di destra e della sua cultura? Forse un po’ sì. C’è la nazione, e senza alcun riferimento al nazionalismo e a quello che ha prodotto di terribile nel “secolo breve” che invece sembra non finire mai. C’è Oriana Fallaci e l’individuo che fa la storia, oltre la polemica un po’ bizzarra con il ministro precedente. Tuttavia credo che pesi di più nella nostra scuola la buropedagogia che tenta da tempo di colonizzarla (riuscendoci almeno in parte). Alla fine ragazze e ragazzi temo abbiano a che fare con il grigiore di una routine da partita doppia del sapere: dare, avere, rendicontare, che prepara al grigiore di una vita fatta di grigio lavoro precario miseramente esecutivo. E questo pesa di più di un’esplicita ideologia ministeriale - oppure quell’ideologia passa per questa via amministrativa piuttosto che per messaggio culturale.

E però c’è anche altro, malgrado tutto. C’è, sebbene poco visibile, la resistenza che gli abitanti della scuola, insegnanti, ragazze e ragazzi, riescono ad esercitare liberando spazi e territori per relazioni personali e intense di sapere, magari negli interstizi che la megamacchina dei voti, della meritocrazia di nascita, lascia aperti. Nelle classi succedono ancora cose belle, incontri importanti e momenti sorprendenti che restano dentro a volte per sempre. Varchi, li avrebbe detti Montale, che fuori dai riflettori e dalla noiosissima comunicazione di massa sulla scuola, forse permettono di stare un po’ fra esseri umani, in un campo magnetico di relazioni fra generi e generazioni diverse che si incontrano per provare a costruire un mondo comune. Uno spazio politico, di polis, fuori dalle muraglie che hanno in cima cocci aguzzi di bottiglia. Fuori dagli esami, dalle graduatorie, dalle gerarchie meritocratiche.

Scrive...

Andrea Bagni Ha insegnato fino al 2019 italiano e storia in un Istituto Tecnico per il Turismo. È stato redattore e poi vicedirettore di ècole; scrive e collabora con il manifesto, e Volere La Luna.

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