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15/09/2017

La forma e la formazione dell’insegnante

di M. Gloria Calì

Il docente, oggi, se vuole definire il suo assetto in quanto professionista, se, cioè vuole assumere una fisionomia, si trova dilaniato tra voci stridule e dissonanti: i gruppi facebook, il sito di OrizzonteScuola, ecc. Nella maggior parte dei casi, quindi, gli insegnanti hanno un rapporto indiretto con i fondamenti della propria professione, attraverso la narrazione che ne fanno “altri”; minima, in particolare, e spesso superficiale, è la conoscenza della parte normativa ( indicazioni, circolari, decreti), sporadiche le occasioni di incontro e riflessione con altri colleghi su ciò che definiamo in sintesi la “professione docente”.  
Pesante e fortemente distraente sta diventando, in particolare, il ruolo dei social, che tendono a diventare piazze in cui dilagano occasionalmente anche le notizie, ma soprattutto le opinioni, che, per esigenza civile, prima che professionale, andrebbero fondate su prove ed esempi, e poi, per la stessa ragione, espresse e difese nel rispetto degli interlocutori. Anche la scuola è entrata in questo mondo fatto di invettive “liquide”, e di “parole in libertà”, i cui effetti, tuttavia non sono solo negativi: per rispondere, bisogna in qualche modo “essere”, perciò si definiscono le fisionomie (disparate, ahimè) dei docenti che, entrando nel circuito “opinionistico” dei social, esprimono loro posizioni. Manca una struttura comune, ogni docente parla essenzialmente per sé, o tutt’al più per la sua scuola.  

Per questo aspetto, il ruolo delle associazioni può essere importante: senza diventare un sindacato, può aiutare a diffondere la conoscenza e l’uso consapevole, in primo luogo, degli strumenti normativi relativi alla professione, e poi può intervenire nella costruzione di una consapevolezza sui fondamenti costituzionali della scuola e dei docenti dentro una società reale.
Chi sceglie, invece, di cercare nella formazione le tecniche, i metodi, le “novità che servono in classe”, non è meno disorientato, in quanto si scontra con i grandi temi del momento, che, quasi come un marchio di qualità, devono in qualche misura caratterizzare l’attività didattica, magari anche indipendentemente dalla sua efficacia reale: l’integrazione, il digitale, l’INVALSI, i compiti di realtà…
Anche in questo caso, il ruolo delle associazioni è ancora più significativo, poiché offrono non solo un affinamento metodologico ma anche uno spazio di riflessione e di ascolto reciproco, di costruzione di una “mentalità”.  

Altro ulteriore ambito di formazione, o forse meglio sarebbe dire di aggiornamento, è quello “culturale”, cioè quello inerente sia la cura degli strumenti specifici delle discipline sia ciò che potremmo definire il patrimonio personale di conoscenze e di gusti che fanno dell’insegnante una persona “colta”. È auspicabile, anche per l’equilibrio personale del docente stesso, che i due ambiti siano in relazione armonica e arricchente, e che ciò che potremmo definire lifelong learning sia un habitus che caratterizza il docente in quanto persona, senza che qualcuno senta la necessità di obbligarlo.  
L’insegnante che si vuole dedicare alla propria “cultura”, intesa in senso più ampio dell’immediato uso quotidiano, ha un incentivo nuovo, la card del docente, che, tuttavia, sembra ancora lontana dal raggiungere il suo obiettivo, cioè la cura libera, individuale e consapevole della propria fisionomia culturale.
Qui, ma in realtà non solo qui, entra in gioco il tema della motivazione, che ha una prima declinazione nella formazione iniziale, in cui, in qualche modo, bisognerebbe far raggiungere ai docenti la consapevolezza di sé e del proprio ruolo educativo e culturale in senso ampio.  
C’è poi tutta la materia “sindacal-viscerale”: siamo pagati poco, lavoriamo troppo, “ma è obbligatorio?”… ecc. ecc.  
È chiaro che non c’è una cura per farsi venire la motivazione, o per farsi passare la demotivazione. Molto importante, per questo aspetto, il contesto. Non intendo banalmente, un “contesto motivante”, espressione che spesso nasconde un’arena in cui si consuma una competizione malsana e infondata, ma un contesto di condivisone in cui le difficoltà, gli obiettivi, le risorse, siano comuni e in comune gestite e migliorate.
Qui, la formazione può fare poco, soprattutto la formazione dei docenti; magari, qualcosa può essere discusso a livello di formazione dei Dirigenti, ma nel quadro normativo attuale c’è poco spazio per il ruolo pedagogico e aggregante del capo d’istituto.
Altro fattore molto importante nella costruzione della motivazione, e, al tempo stesso l’unica cosa che il docente in qualche modo fare “da solo”, è coltivarsi. Chi è insegnante ha percorso un cammino di studio, di costruzione culturale e magari ha anche una sua specificità, dei gusti personali… Io credo che sia molto importante che il docente abbia cura della sua stessa curiosità intellettuale, della sua formazione come persona da perseguire attraverso il panorama di ciò che arricchisce la sua personalità globalmente intesa. Una personalità ricca, dinamica avrà più possibilità di diventare un docente significativo.  

Va detto che questi tre aspetti non possono essere distinti in alcun modo: non si possono separare i mezzi dai fini, “chi sono” da “che insegnante sono”, e, soprattutto dalla dimensione essenzialmente plurale della professione. Molto raramente viene coltivata, nelle strutture formative oggi accessibili, la consapevolezza che l’insegnante non è “singolare”; è un elemento, certamente unico e non duplicabile, ma non solitario, di un sistema “scuola” inteso sia come “istituzione scolastica”, sia come “istituzione civile”.
Poiché, storicamente, uno dei vantaggi superficialmente riconosciuto alla professione docente è una (presunta) libertà individuale, e a partire da questa dinamica non ci si è soffermati a costruire una mentalità di “scuola”, che faccia “contesto”, cioè “tessuto comune”, per accogliere e sostenere, con gli strumenti culturali che gli sono propri, i bambini e i ragazzi, alimentandoli con la consapevolezza di essere, anche loro, parte di un contesto che si chiama società.
In questo senso, pochissima attenzione, e spesso oscurata da una mortificante polemica, è stata data al tema della documentazione delle attività scolastiche. Una fioritura di luoghi comuni, di facce scocciate… È vero che a scuola si scrive essenzialmente per dovere, nella migliore delle ipotesi percepito come limitante della creatività del docente: “Sempre carte!” (anche in tempi di dematerializzazione); “Sbrighiamoci a finire questa relazione” (che magari riguarda un alunno in difficoltà); “Puoi scriverlo tu, e poi me lo mandi e gli do un’occhiata?” (quest’ultima battuta, uno dei peggiori frustuli di conversazione che si sentono).  

  Uno degli scopi “culturali” della formazione, secondo me, è anche far superare ai colleghi l’idea che la documentazione sia un puro adempimento, per farli approdare all’idea che “scrivere” è anzitutto condividere, costruire percorsi efficaci, ma anche riflettere sul proprio operato. Progettazioni iniziali, relazioni finali, persino il curricolo è un adempimento che viene scritto quasi sempre da una o massimo tre persone. In questo ambito, infatti, si assiste alla maggiore schizofrenia, in particolare nella scuola di base: se il curricolo è il fondamento della didattica di una scuola, è ciò che individua e rende vivi i saperi dentro quella scuola, come può essere scritto da una sola persona? Qui una grossa responsabilità sta sui DS, che devono vigilare su una stesura collettiva e ragionata del curricolo di scuola. Una volta scritto, poi deve essere messo in pratica, e spesso i docenti già svolgono percorsi significativi, ma che restano statici se non vengono adeguatamente progettati in coerenza con il curricolo d’istituto, che, a sua volta, deve avere una struttura.  

A proposito di progettazione e condivisione tra colleghi, altro tema “caldo” è quello dell’uso intelligente degli strumenti di condivisione online: essi non hanno senso solo perché “si ha poco tempo”, e sono più rapidi, ma perché proprio è un altro modo di lavorare, in quanto consente di attuare ulteriori momenti ed altre dinamiche di co-costruzione, di scambio e di condivisione di strumenti e materiali sullo stesso piano, di riflessione comune. Aggiungo che, in realtà scolastiche fortemente dislocate sui territori, gli spazi di condivisione online non dovrebbero essere legati solo alle esperienze didattiche di ricerca-azione, o allo staff dell’organizzazione e della dirigenza, ma a tutti i gruppi di lavoro a partire dai Consigli di classe e di interclasse.
Anche qui, una quota della formazione, meglio se tra pari, può ridurre le distanze tra colleghi della stessa scuola, tra cui si trovano estremi divergenti di approccio alle tecnologia della condivisione e della collaborazione.

La formazione può dar forma agli insegnanti solo se evita le confusioni tra mezzi e fini, tra obblighi e necessità, e parte da un obiettivo condiviso: la scuola come comunità educante, cioè come pluralità di professionisti che esercitano la propria attività con una pluralità di utenti, piccoli, medi e grandi abitanti dei paesi e delle città d’Italia.  

Parole chiave: formazione in servizio

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