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28/03/2018

Ragioniamo di alternanza scuola-lavoro - Parte III

di Carlo Palumbo

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Scuola e lavoro in Italia: un rapporto vitale nato agli inizi del Novecento e mai interrotto

L’introduzione dell’ASL è stata da alcuni giustificata con la necessità di colmare il vuoto di relazioni tra scuola e mondo del lavoro, condizione che avrebbe caratterizzato il nostro sistema prima della Legge 107/2015. Si tratta di una valutazione contraddetta dalla storia della scuola italiana.

All’inizio del Novecento si assiste a una crescita significativa delle Scuole e degli Istituti tecnici, che fino ad allora erano stati assai trascurati da Governo e Parlamento, nel contesto di scarso sviluppo economico che aveva caratterizzato l’Italia nel primo quarantennio dall’Unità. Nell’anno scolastico 1922/23, gli iscritti erano in numero superiore a quelli degli Istituti Magistrali e dei Ginnasi-Licei. La riforma Gentile separò nettamente, subito dopo la scuola elementare, la cultura umanistica del Ginnasio-Liceo Classico, destinato a formare i futuri ceti dirigenti essendo l’unico percorso di accesso a tutte le facoltà universitarie, e quella semi-umanistica del Liceo Scientifico, suo fratello minore, da quella tecnica, che preparava a specifiche professioni d’ufficio o industriali ma che era preclusa all’università. Le classi popolari, da parte loro, venivano costrette a completare l’obbligo scolastico nelle Scuole complementari e nelle Scuole secondarie di Avviamento professionale triennali, che non davano la possibilità di continuare gli studi. Rimaneva fuori dal sistema dell’Istruzione quella Professionale industriale, che dipendeva dai ministeri economici. A partire dal 1949, nascono i nuovi Istituti professionali di Stato, legati al tessuto economico locale e amministrati da un autonomo Consiglio; dal 1967, essi entrano a pieno titolo nel sistema di Istruzione di competenza del Ministero della Pubblica Istruzione. Diversi provvedimenti normativi, tra il 1969 e il 1992, completano l’omologazione dell’Istruzione professionale agli altri due percorsi, introducendo i bienni post qualifica, l’esame di maturità, l’accesso all’Università, discipline comuni equivalenti.

Con lo sviluppo economico e sociale successivo agli anni della ricostruzione e del boom, si assiste al rapido incremento della domanda di competenze professionali e tecniche, la cui disponibilità e qualità sono tra i fattori che contribuiscono a spiegare il successo dell’economia italiana tra il 1958 e il 1992. Gli istituti professionali rappresentano la principale risorsa di personale qualificato: in particolare tra il 1966/67 e il 1985/86 gli iscritti passano da 168.000 a 514.000. Quanto ai periti degli istituti tecnici, negli stessi anni da 604.000 arrivano a 1.194.000 iscritti.

Fino a tutti gli anni Novanta, il mondo politico e quello professionale hanno chiara la distinzione di funzione tra Istruzione scolastica da una parte, Formazione professionale e Lavoro dall’altra, ciascuna con proprie finalità e sfere d’azione. Questa consapevolezza non impedisce collaborazioni e integrazioni reciproche. Tra il 1986 e il 1992, i ministri della Pubblica Istruzione Falcucci e Galloni, utilizzando quanto previsto dal DPR 419/1974, danno avvio a una serie di progetti assistiti negli Istituti tecnici e professionali, che portano a un profondo aggiornamento di questi percorsi di studio. Le sperimentazioni proposte dal Ministero, poi assorbite nei cosiddetti Progetti Brocca e recepite dai collegi docenti, pur all’interno della legge preesistente, rendono queste scuole più aderenti all’evoluzione economica e tecnologica del paese e integrano la preparazione culturale generale, che si avvicina a quella dei licei. Queste sperimentazioni introducono una terza area, accanto a quella comune e a quella di indirizzo, in cui sono previsti rapporti con la formazione professionale regionale, con le aziende, presso cui vengono organizzati tirocini, modalità didattiche attive come l’impresa formativa simulata. Tutte queste attività sono svolte sotto la responsabilità dell’istituzione scolastica, né la formazione professionale né il tirocinio aziendale hanno il compito di conseguire le finalità del sistema di Istruzione, si tratta piuttosto di arricchire il percorso formativo scolastico, non di operare uno scambio di competenze e di responsabilità tra istituzioni diverse.
Ciò è stato particolarmente vero per il Progetto 92, nato in via sperimentale nel 1987 per il triennio di qualifica degli Istituti professionali e dal 1991 completato con l’introduzione dei bienni post-qualifica. Accanto a una proposta curricolare scolastica rinnovata nei contenuti e nelle discipline, sono introdotti due nuovi istituti obbligatori: lo stage o tirocinio in azienda per almeno 120 ore, in genere da svolgere in orario extracurricolare al termine del quarto anno, ma ogni scuola decide in autonomia; un corso professionalizzante di secondo livello di 300-450 ore, da frequentare presso un’agenzia di formazione professionale riconosciuta a livello regionale. Il Progetto 92 richiede investimenti economici significativi: per il personale, essendo aumentato il monte ore; per le attrezzature e per i laboratori, da adeguare all’interno della scuola; per i costi delle attività svolte nelle strutture formative esterne, particolarmente rilevanti. Dopo il 2001, i finanziamenti si riducono progressivamente, fino alla conclusione imposta dalla riforma Gelmini-Tremonti, che chiude una delle esperienze più significative del dopoguerra.

I problemi storici dell’Istruzione superiore in Italia

Sono passati 56 anni dall’approvazione della Legge 1859/1962, che introduce la scuola media unica e sopprime le scuole di avviamento professionale, attuando finalmente l’obbligo scolastico per otto anni, come previsto dall’art. 34 della Costituzione italiana. La legge scatenò per anni la reazione allarmata dei conservatori nella scuola e nella società, che paventavano la fine del “merito” e della “cultura nazionale” (di cui lo studio del latino era ritenuto il vessillo), travolti dall’accesso di tutti all’istruzione media. Ci sono voluti trent’anni perché la società italiana assorbisse questa innovazione rivoluzionaria: solo all’inizio degli anni Novanta l’obbligo scolastico diventa effettivo per tutti e gli adulti in possesso del diploma di scuola media superano quelli forniti della sola licenza elementare. Era allora maggioritaria la convinzione che l’Istruzione fosse il principale strumento per raggiungere il pieno sviluppo della persona umana, la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione del Paese.

Da allora si sono fatti pochi passi in avanti e qualcuno indietro; il rapporto istruzione/livello professionale è entrato in crisi, studiare non sembra essere più una garanzia di emancipazione, l’istruzione rischia di riprodurre se stessa invece di alimentare la trasformazione della società. Il tema della scuola diventa un elemento centrale dello scontro politico tra centro-sinistra e centro-destra, che si misurano con due diverse visioni del problema: a sinistra, con il ministro Luigi Berlinguer, si punta ad estendere l’obbligo scolastico, i 16 anni sono infatti l’obiettivo, condizione necessaria per una riorganizzazione profonda della scuola secondaria superiore, e ad integrare in un unico sistema i differenti percorsi liceali, tecnici e professionali; a destra, con la ministra Letizia Moratti, si mira a costruire dopo i 14 anni un secondo ciclo costituito da una parte dagli istituti superiori riformati e denominati tutti licei, dall’altra dall’Istruzione e Formazione professionale regionale, che nelle intenzioni dovrebbe essere rafforzata nelle competenze e nelle risorse, per costituire un vero e proprio secondo canale formativo, in condizioni tendenzialmente paritarie col primo. Nel frattempo, l’obbligo scolastico, portato a 15 anni dalla Legge 9/1999, viene trasformato in diritto-dovere, e può essere conseguito anche al di fuori dei percorsi di istruzione. Invece di costruire le condizioni per una trasformazione dell’istruzione superiore in una scuola inclusiva e di qualità, garantendo a tutti un’offerta formativa adeguata, si preferisce mantenere l’impianto organizzativo e didattico tradizionale, orientando una parte della domanda verso un’istruzione professionale depotenziata o verso il canale della formazione professionale, senza affrontare i problemi culturali e di orientamento diventati ormai storici del nostro sistema.

L’Istruzione superiore italiana mantiene il carattere classista che la caratterizzava già alla sua nascita: la distribuzione degli iscritti tra licei, in particolare classici, e gli altri indirizzi, dipende più dalla classe sociale di appartenenza e dal titolo di studio dei genitori, che dalle capacità  e inclinazioni degli studenti. Questa scelta appare determinante perché è in grado di influenzare la ricerca del lavoro, le possibilità di carriera, il livello dello stipendio. Si tratta di aspetti problematici presenti anche in altri paesi sviluppati, ma non con l’intensità del caso italiano, dove da trent’anni l’ascensore sociale si è bloccato. Difficilmente in Italia il talento nato in un contesto deprivato riesce a farsi strada con pari diritti e risultati di chi è socialmente avvantaggiato: siamo entrati in un circolo chiuso in cui i figli dei ricchi tendono a mantenere la propria posizione sociale ma altrettanto accade a quelli dei poveri.

 Alcuni commentatori, per rimediare all’evidente dislivello, preferiscono tirare in ballo la “meritocrazia”, ma in realtà si sa che anche questa è ovvio appannaggio delle scuole meglio organizzate e degli studenti “migliori”. Le differenze inoltre si accrescono soprattutto dopo la scuola media. Tra i bambini della primaria non vi sono grandi distanze nei risultati, né per condizioni economiche, né geografiche, anche se devono essere tenute presenti le difficoltà di partenza dei figli di immigrati.  
A 15 anni le disparità appaiono già incolmabili, come indicano i risultati Invalsi al secondo anno di superiore. La scuola superiore italiana è rimasta, più della scuola primaria e della media inferiore, legata a una tradizione idealistica e prevalentemente trasmissiva delle conoscenze. Un modello pedagogico e culturale che può garantire, nei casi migliori, una grande solidità formativa, soprattutto quando può realizzarsi in studenti già formati e supportati da famiglie e risorse economiche adeguate. Se la nostra tradizione scolastica non fosse anche oggi in grado di produrre delle reali eccellenze formative, noi non avremmo migliaia di nostri studenti e ricercatori nelle migliori università del mondo o laureati nei centri di ricerca e sviluppo delle aziende di avanguardia. Giovani apprezzati non solo per le conoscenze scientifiche e tecnologiche possedute, ma anche per la visione umanistica e critica, che invece può mancare nei percorsi scolastici di paesi più ricchi e avanzati dell’Italia, dove però prevale una preparazione più settoriale e specialistica. Le eccezioni positive non riescono, tuttavia, a determinare la qualità dell’intero sistema secondario superiore, che oggi non si rivolge a una élite ristretta, ma si pone come  realtà di massa, che coinvolge la quasi totalità di ogni generazione di giovani.

Adeguare l’impianto culturale, pedagogico e didattico alle necessità della cittadinanza democratica attuale, della società tecnologica e scientifica, globalizzata e di massa, dovrebbe essere la sfida che il sistema politico, il mondo della cultura e della scuola dovrebbero affrontare. Sarebbe necessario ridefinire i rapporti tra istruzione e lavoro, tra cultura e professione, tra teoria e pratica, tra scuola e sbocchi professionali, agendo all’interno di una grande visione di sviluppo, che superi la separazione dei percorsi, nata con la riforma Gentile e confermata in forma rafforzata da quella Gelmini, che è tornata a separare ancora di più i tre percorsi d’istruzione secondaria, distruggendo quegli elementi di convergenza che erano stati costruiti a partire dagli anni Ottanta. Si pensi alle Indicazioni per Cittadinanza e Costituzione, diverse nei tre ordini, tanto da immaginare una distribuzione degli studenti per ceti, come prima della Rivoluzione francese.
Bisognerebbe innalzare il livello di istruzione generale, estendendo l’obbligo a un primo biennio dall’impianto unitario e aree opzionali con funzione di orientamento, superando gli ibridi di Istruzione e formazione professionale nati con la riforma Moratti. Bisognerebbe introdurre su vasta scala, in particolare nei trienni, una didattica laboratoriale, imperniata sulla ricerca, sull’interdisciplinarietà, sul lavoro di gruppo, sulla concretezza dello studio, saldando in questo modo cultura e pre-professionalità, per costruire un abito critico, autonomo, scientifico e sperimentale. La didattica per competenze è spesso rimasta sulla carta, adeguando il linguaggio delle circolari e delle programmazioni, senza modificare il vivo del fare scuola, e va precisato che  il cambiamento potrà arrivare solo con una formazione sistematica degli insegnanti e con la creazione di centri di ricerca didattica in grado di accompagnare sul territorio l’innovazione, con personale e risorse adeguati. E interessante ricordare che qualche commentatore più attento ha utilizzato motivazioni simili per giustificare l’introduzione dell’ASL in tutte le scuole; ma senza un intervento di sistema, essa diventa piuttosto una protesi aggiunta a un corpo che continua a funzionare con i vecchi limiti.

L’ASL: ambiguità di senso e operazione di marketing mediatico-politico

Negli ultimi vent’anni la scuola italiana è stata sottoposta a continue torsioni dall’introduzione di norme contraddittorie e non coordinate promosse da maggioranze politiche di centro-sinistra, di centro-destra oppure da governi “tecnici”.  Nel momento in cui il Parlamento approva la Legge 107/2015, imponendo l’ASL in tutti i percorsi, le scuole stanno ancora metabolizzando la riforma Gelmini-Tremonti, che cancella un quarto di secolo di sperimentazioni, torna a separare e a gerarchizzare i tre canali, con un impoverimento del curricolo che colpisce soprattutto l’Istruzione professionale, una riduzione degli orari annuali di tutti i corsi Brocca, quelli più innovativi, tra il 10 e il 15%.

In questa situazione di profondo disagio, l’ASL arriva come un colpo di maglio sui collegi docenti, che sono costretti a smantellare la progettazione curricolare faticosamente costruita, per fare spazio al nuovo istituto obbligatorio. La legge prevede 200 ore nel triennio dei licei, che hanno un curricolo annuale di 990-1155 ore; 400 ore nel triennio degli istituti tecnici e professionali, con 1056 ore per ogni anno di corso (cioè quasi il 13% dell’orario totale). La generalizzazione a tutte le scuole dell’ASL, - in origine essa era stata pensata dal ministro Moratti come un canale complementare all’Istruzione, e il ministro Profumo l’aveva trasformata in possibile (non obbligatoria) metodologia didattica innovativa solo per Istituti tecnici e professionali-, finisce per negare l’autonomia didattica delle singole scuole, perché assorbe tutto il monte ore che la legge attribuisce loro. E questo è quello che sta succedendo da tre anni a questa parte: l’ASL toglie spazio alla programmazione ordinaria, sostituisce ogni possibile scelta didattica alternativa, obbliga tutte le scuole a uniformarsi al diktat della norma centralizzata. Sarebbero necessarie risorse economiche, umane e organizzative consistenti. Invece le scuole hanno dovuto operare con i finanziamenti ridotti dalle successive leggi finanziarie degli ultimi quindici anni. 

Ma va anche evidenziato un altro aspetto problematico: gli istituti tecnici e professionali vantano consistenti rapporti con l’esterno, essendo  strutture che al loro interno sono abituate a organizzare attività di tirocinio. Si veda come le Linee guida del 2012 per questi indirizzi, almeno sulla carta, regolino la gestione dell’ASL, addirittura in maniera puntigliosa: si legga, per esempio, la distinzione tra stage, tirocinio formativo, tirocinio di orientamento, ASL presente nei rispettivi documenti. I licei, invece, hanno avuto difficoltà a dotarsi dei contatti e delle responsabilità per attivare esperienze di ASL. Nelle Indicazioni nazionali per i Licei del 2010 non si parla di ASL. Non deve perciò stupire che in molti casi si sia trattato di progetti improvvisati, deboli sul piano dei contenuti e delle attività, affidati a soggetti esterni impreparati e/o poco interessati ad accogliere giovani in formazione. Le maggiori opposizioni di principio sono venute proprio dai Licei o da quegli opinionisti che si sono promossi alfieri della cultura classica e umanistica colpita dall’introduzione del nuovo istituto.  

L’introduzione della ASL si accompagna a confusione e ambiguità che fanno pensare più a un’operazione di marketing politico che a un progetto di cambiamento reale della scuola. L’espressione usata per indicarla è una menzogna sul piano linguistico: l’alternanza è tra momenti in aula (la scuola) e tirocini all’esterno. La norma nega espressamente che il tirocinio sia un “rapporto di lavoro”. Al massimo, quindi, l’alternanza sarebbe tra scuola e tirocinio. Si tratterebbe quindi della generalizzazione di esperienze che hanno assai poco di originale.
La Guida operativa per la scuola curata da Carmela Palumbo presenta altre due ambiguità che stanno creando problemi alle scuole. La prima: se considerare la ASL un’attività da svolgere in orario curricolare, in tutto o in parte, oppure nei periodi di sospensione dell’attività didattica (cap. 4). Rimane così il dubbio: le attività di tirocinio sono “curricolari” o no? Vanno sottratte all’orario annuale o, essendo extracurricolari, sono ore aggiuntive? In questo caso, possono essere imposte come obbligatorie o no? La seconda: non è chiaro se l’ASL sia un istituto nuovo da inserire nella programmazione curriculare oppure una “metodologia didattica” (cap. 10). Abbiamo già verificato che si tratterebbe di una convinzione ideologica priva di validazione scientifica.  Ma le scelte metodologiche non appartengono alla competenza e autonomia professionale degli insegnanti?

Negli ultimi due decenni in Europa e in Italia si sono imposte esperienze formative di stage o tirocinio e, recentemente, di alternanza scuola-lavoro. Queste attività sono richieste in percorsi di formazione professionale, di scuola secondaria, nei corsi universitari triennali e magistrali, ma anche dopo gli studi, in attesa e con la speranza di trovare lavoro. Nate infatti per facilitare l’accesso al lavoro, sono spesso diventate la metafora di un lavoro che non si trova. Chi riflette sul senso e sulla qualità dell’ASL non può non fare riferimento anche a queste realtà. Si potrebbe anche pensare che dietro la visione ideologica promossa assieme all’ASL, vi sia la volontà implicita di descolarizzare una parte significativa dei giovani, da immettere in un mercato del lavoro con una minore cultura critica, ma dopo avere fatto loro interiorizzare e accettare a scuola che quella subalternità, propria di una società stratificata e rigidamente normata, si spaccia invece per attitudini, vocazioni, gusti singolari e familiari.

Scrive...

Carlo Palumbo Ha insegnato al Primo Liceo Artistico di Torino, pubblicista e autore di ricerche e progetti didattici anche nazionali, svolge attività di formatore e aggiornatore in progetti del CIDI, con particolare attenzione alla storia del Novecento,

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