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13/02/2018

Ragioniamo di alternanza scuola-lavoro - Parte I

di Carlo Palumbo

 Oltre i luoghi comuni del dibattito contingente

Questo è il primo di tre contributi che propongo alla rivista insegnare per riflettere sui problemi posti dall’introduzione dell’alternanza scuola-lavoro (d’ora in poi ASL). Nel primo ricostruisco l’origine dell’alternanza sul piano normativo e ideologico; nel secondo cerco di capirne l’utilità per le aziende e i giovani in cerca di occupazione; nel terzo vorrei verificare in che modo la ASL possa essere una risposta ai problemi storici dell’istruzione superiore, quali cambiamenti stia attivando e quali contraddizioni la condizionino.

A tre anni dall’introduzione generalizzata e obbligatoria nei trienni delle superiori, l’alternanza scuola-lavoro è diventata una realtà che coinvolge un milione e mezzo di studenti e circa 70.000 docenti tutor, ha costretto tutti quelli che vivono nella scuola a prenderne atto, modificando organizzazione e progettazione della scuola, sacrificando la didattica in classe a vantaggio di attività esterne controllate da imprese ed agenzie, per realizzarla.
Il ministro Fedeli ha convocato a Roma, lo scorso 16 dicembre, gli Stati generali dell’Alternanza, per discutere sullo stato dell’arte e per autocelebrarsi; contemporaneamente un gruppo di operatori del mondo della scuola, della formazione e dell’università impegnati a vario titolo in questi percorsi, ha promosso una raccolta di firme su un “Manifesto per un’alternanza di qualità”, in cui si indicano alcune delle criticità di questa prima fase triennale di avvio e si afferma che  "l’alternanza scuola lavoro sia un’occasione da non perdere per trasformare la scuola e migliorare il suo rapporto con il territorio e con il mondo del lavoro” e che “L’obbligatorietà, da molti criticata, costituisce in realtà una grande spinta per un ripensamento delle modalità tradizionali di fare didattica, sviluppando la capacità di affrontare e risolvere problemi e per valorizzare la cultura del lavoro" [1].
Le due vicende, seppur diverse per intenti e promotori, sono il segno di un’indubbia vittoria della Legge 107/2015 voluta dal governo Renzi e dalla ministra Giannini, che sono riusciti a imporre la loro agenda e la loro soluzione ai problemi vecchi e nuovi della nostra scuola superiore. Anche chi scrive, lo scorso anno scolastico, si è trovato a progettare un percorso di alternanza per una classe quarta di un liceo artistico torinese con risultati complessivamente positivi.

Da dove viene l’idea dell’alternanza?

La volontà della L. 107/2015 [2]di rendere obbligatoria l’alternanza in tutti i trienni costituisce una novità rispetto alle intenzioni dei precedenti governi. E all’inizio ha provocato molti malumori, soprattutto nei licei.

L’espressione è stata introdotta per la prima volta con la Legge 196/1997, il cosiddetto “Pacchetto Treu. Norme in materia di promozione dell’occupazione”, il governo era il primo guidato da Prodi. La legge si occupa innanzitutto di regolamentare il lavoro temporaneo e a tempo parziale, col fine di contrastare le forme in nero o irregolari, ponendo le basi per il superamento del rapporto a tempo indeterminato come contratto tipo, aprendo nei fatti il processo di precarizzazione del lavoro nel nostro Paese.
L’articolo 18, dal titolo “Tirocini formativi e orientamento”, introduce momenti di alternanza tra studio e lavoro per agevolare le scelte professionali mediante la conoscenza diretta del mondo del lavoro, attraverso tirocini pratici e stages. La promozione di queste iniziative, rivolte a chi abbia assolto l’obbligo scolastico, sarebbe compito di soggetti pubblici e privati in possesso di specifici requisiti, tra cui agenzie regionali per l’impiego, università, istituzioni scolastiche, centri di formazione e orientamento, cooperative sociali e comunità terapeutiche. I tirocini non costituiscono rapporto di lavoro. 
Per la scuola la svolta avviene col successivo governo Berlusconi all’interno del confronto politico su obbligo scolastico e riforma del sistema. La ministra Moratti ottiene l’approvazione della Legge 53/2003, “Delega al Governo per la definizione delle norme generali sull'istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni“. Si abroga la Legge 9/1999, che prevedeva l’obbligo a 15 anni, si introduce il principio del diritto-dovere (attenzione, non l’obbligo) a istruzione e formazione fino ai 18 anni. Da notare che nella stessa legge si trattano contemporaneamente i due settori, quello dell’Istruzione e quello della Formazione professionale, che fino ad allora erano competenza di due differenti ministeri.
Fondamentale è l’art. 4 del testo di legge, che prevede la possibilità 

di assicurare agli studenti che hanno compiuto il quindicesimo anno di età la possibilità di realizzare i corsi del secondo ciclo in alternanza scuola-lavoro, come modalità di realizzazione del percorso formativo progettata, attuata e valutata dall'istituzione scolastica e formativa in collaborazione con le imprese, con le rispettive associazioni di rappresentanza e con le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura.

Per la prima volta si parla genericamente di “percorso formativo” e di “istituzione scolastica e formativa”, senza distinguere tra Istituzione scolastica e Istituzione formativa, tra percorso scolastico e percorso formativo (professionale). I due momenti diventano equivalenti, non solo sul piano linguistico e argomentativo. Con la Legge 53, la ASL diventa così una delle modalità previste per assolvere il diritto-dovere all’istruzione e formazione fino ai 18 anni. Lo stesso governo Berlusconi emana il DL 77/2005, che dovrebbe dare attuazione alla ASL, definendone ambito di applicazione e finalità: gli studenti possono richiedere di assolvere il diritto-dovere con l’apprendistato oppure attraverso l’alternanza di periodi di studio e di lavoro sotto la responsabilità dell’istituzione scolastica o formativa. 
Queste le finalità dell’alternanza: 

attuare modalità di apprendimento flessibili e equivalenti sotto il profilo culturale ed educativo, rispetto agli esiti dei percorsi del secondo ciclo, che colleghino sistematicamente la formazione in aula con l'esperienza pratica; arricchire la formazione acquisita nei percorsi scolastici e formativi con l'acquisizione di competenze spendibili anche nel mercato del lavoro; favorire l'orientamento dei giovani per valorizzarne le vocazioni personali, gli interessi e gli stili di apprendimento individuali; realizzare un organico collegamento delle istituzioni scolastiche e formative con il mondo del lavoro e la società civile, che consenta la partecipazione attiva dei soggetti di cui all'articolo 1, comma 2, nei processi formativi; correlare l'offerta formativa allo sviluppo culturale, sociale ed economico del territorio. 

Un nuovo paradigma ideologico nelle "Linee guida per il passaggio al nuovo ordinamento" del 2012

I successivi cambi di governo impediscono l’attuazione immediata dell’alternanza scuola-lavoro. Anche la ministra Gelmini, che farà approvare in via definitiva dal Parlamento un insieme di leggi che attuano una profonda riorganizzazione del sistema, in particolare con la contrazione del monte ore dei curriculum di insegnamento e una razionalizzazione degli indirizzi, non riesce a vedere l’attivazione dei suoi provvedimenti. Saranno il governo Monti e il ministro Profumo a diramare le Direttive 4-5/2012 “Linee guida per il passaggio al nuovo ordinamento” relative rispettivamente agli Istituti Tecnici e Professionali, per fornire le indicazioni operative all’attuazione della riforma Gelmini e quindi anche dell’istituto dell’alternanza. Nel lungo e particolareggiato documento, troviamo una sintesi del nuovo paradigma culturale e ideologico che ne giustifica l’esistenza:

2.2.2 Alternanza scuola-lavoro
(…) l’alternanza scuola-lavoro si configura quale metodologia didattica innovativa del sistema dell’istruzione che consente agli studenti che hanno compiuto il quindicesimo anno di età, di realizzare i propri percorsi formativi alternando periodi di studio “in aula” e forme di apprendimento in contesti lavorativi. (…)
Con l’alternanza scuola-lavoro si riconosce un valore formativo equivalente ai percorsi realizzati in azienda e a quelli curricolari svolti nel contesto scolastico. Attraverso la metodologia dell’alternanza, infatti, si permettono l’acquisizione, lo sviluppo e l’applicazione di competenze specifiche previste dai profili educativi culturali e professionali dei diversi corsi di studio che la scuola ha adottato nel Piano dell’Offerta Formativa.
(…) Il mondo della Scuola e quello dell’azienda/impresa non sono più considerati come realtà separate bensì integrate tra loro (…) “Pensare” e “fare” come processi complementari, integrabili e non alternativi.
Il modello dell’alternanza scuola-lavoro intende non solo superare l'idea di disgiunzione tra momento formativo ed applicativo, ma si pone l’obiettivo più incisivo di accrescere la motivazione allo studio e di guidare i giovani nella scoperta delle vocazioni personali, degli interessi e degli stili di apprendimento individuali, arricchendo la formazione scolastica con l’acquisizione di competenze maturate “sul campo”. Condizione che offre quel vantaggio competitivo (rispetto a quanti circoscrivono la propria formazione al solo contesto teorico) che costituisce, esso stesso, stimolo all’apprendimento e valore aggiunto alla formazione della persona. [3]

Si noti, innanzitutto, che il sostantivo “formazione” e l’aggettivo “formativo” hanno perduto qualsiasi significato specifico e tecnico per diventare termini generici. Ogni cosa potrà rientrare in un “percorso formativo”: non c’è distinzione tra un’esperienza e l’altra, non viene definito un sistema di valori, un criterio di qualità. 
L’alternanza scuola-lavoro si basa sulla convinzione, non confermata dalla realtà, che un ambiente scolastico e uno lavorativo producano di per sé risultati “equivalenti” in termini di apprendimento della persona. Si tratta di un pregiudizio reazionario, mascherato da “buon senso”. Vi sono differenze sostanziali tra un luogo di lavoro e un’aula di scuola. Un posto di lavoro solo eccezionalmente può prevedere l’apprendimento strutturato dei soggetti che vi sono impiegati. Questo può essere previsto al momento dell’ingresso del nuovo lavoratore, in genere utilizzando un contratto di apprendistato, dopo il periodo di formazione professionale o scolastica. In genere avviene per affiancamento da parte di un lavoratore esperto che diviene modello e tutor per quello nuovo. Oppure la stessa azienda può prevedere attività di formazione e riqualificazione del personale in cui a momenti teorici o in aula si affiancano esperienze in situazione. In questi casi si ricorre sovente a consulenze esterne. 
Per l’azienda la formazione è un investimento funzionale al raggiungimento della propria missione: migliorare il rapporto tra input e output, rendere più efficienti i processi, ottimizzare i risultati economici, innovare il prodotto. Se l’azienda è sul mercato, sarà impegnata principalmente ad aumentare i profitti attesi. Se è pubblica, dovrebbe puntare a migliorare i servizi al territorio nazionale forniti in termini di qualità ed efficacia. 

Le finalità indicate nelle "Linee guida" non sono pertanto quelle proprie di un luogo di lavoro, ma rientrano a pieno titolo tra quelle attribuite all’istituzione scolastica, che dovrebbe essere ottimizzata per raggiungere risultati in termini di apprendimento e per valorizzare “le vocazioni personali, gli interessi e gli stili di apprendimento individuali”.
Attribuire al lavoro in sé una generica qualità formativa è fuorviante per l’orientamento dei giovani e non serve a facilitarne l’ingresso nel lavoro, perché le radici dell’attuale crisi occupazionale sono altre, come vedremo, e solo secondariamente dipendono dal percorso di istruzione e formazione.

A queste considerazioni di ordine generale dobbiamo aggiungere quelle relative alle concrete condizioni di lavoro del nostro paese, di quali siano i rapporti reali tra datore di lavoro e lavoratori, della bassa qualità della gran parte delle attività lavorative disponibili, delle condizioni di sfruttamento sempre più diffuse, di quanto sia difficile fare corrispondere le richieste delle scuole per un’alternanza di qualità, alla disponibilità del sistema delle aziende pubbliche e private, di quanto sia problematico mettere migliaia di studenti di fronte a esperienze che possono essere umilianti per chi le vive. 

Le "Linee guida" esprimono dunque una visione deformata del rapporto tra i due sistemi, che hanno ruoli, funzionamento e finalità differenti:

Il mondo della Scuola e quello dell’azienda/impresa non sono più considerati come realtà separate bensì integrate tra loro (…) “Pensare” e “fare” come processi complementari, integrabili e non alternativi” (…) “superare l'idea di disgiunzione tra momento formativo ed applicativo". [4]

Ma le relazioni non possono che essere più complesse, avendo la scuola il compito di costruire, a partire da un proprio sistema di valori, personalità, cittadinanza, competenze pre-professionalizzanti e orientamento, l’altra di essere l’articolazione viva del sistema economico-sociale-culturale e amministrativo del Paese in un ambiente economico dominato dalle leggi di mercato. Solo una visione primitiva e reazionaria può pensare, in un paese avanzato come il nostro, di subordinare il sistema scolastico a quello produttivo. 

La presunta separazione fra "pensare" e "fare"

L’altro fraintendimento presente nel testo è questa idea della separazione tra “pensare” e “fare”, “tra momento formativo ed applicativo” che secondo l’estensore del documento caratterizzerebbe la nostra scuola e che l’alternanza dovrebbe sanare. In realtà esiste un problema di impostazione dei nostri percorsi di istruzione, ne parlerò in un successivo intervento, ma non sono questi i nodi colti dalle "Linee guida". Non riusciamo a condividere (e a verificare nella realtà) l’idea che l’apprendimento si realizzerebbe attraverso un momento “teorico”, ad opera della scuola, rispetto a cui il “lavoro” rappresenterebbe il momento “applicativo”. L’apprendimento scolastico è sempre il risultato di uno stretto rapporto tra teoria e applicazione, che sono sperimentate nel vivo dell’azione didattica. Ovviamente l’applicazione avviene in un contesto “artificiale”, quello della classe e delle relazioni tra docente e discenti.  Quanto studiato e applicato a scuola ha, in genere, una rilevanza e uno spessore differente da ciò che è richiesto in un’attività lavorativa. 
Anche in un Istituto professionale o tecnico solo porzioni limitate di quanto studiato/applicato nelle discipline di indirizzo può essere riversato direttamente nel lavoro. Non avrebbe senso una rincorsa delle scuole di quanto servirebbe nei luoghi di lavoro in termini di conoscenza della tecnologia, della normativa, delle procedure organizzative e del funzionamento delle attrezzature e dei macchinari. È questo il ruolo che storicamente è stato affidato alla Formazione professionale e all’Apprendistato. A meno che non sia considerato inutile lo studio umanistico, critico, legato alla cittadinanza e alla libera formazione personale, superfluo o addirittura dannoso dal punto di vista economico-produttivo. Ma si tratterebbe di una ben misera visione. Che avrebbe, se vincente, una disastrosa ricaduta sulla nostra vita sociale, già così spesso degradata e lontana dai più avanzati esempi dell’Europa centro-settentrionale.

C’è un’ultima considerazione da fare. Nel testo in questione c’è un attacco di principio alla funzione attribuita storicamente all’istruzione. E’ nascosto in una frase apparentemente innocua: l’alternanza “si pone l’obiettivo più incisivo di accrescere la motivazione allo studio e di guidare i giovani nella scoperta delle vocazioni personali, degli interessi e degli stili di apprendimento individuali”. Ma motivare allo studio, scoprire le vocazioni personali, gli interessi e gli stili di apprendimento, non dovrebbero essere tra le principali finalità dell’istruzione? Le "Linee guida" affermano, neanche troppo tra le righe, che la nostra scuola non riesce a raggiungere alcuni tra i compiti più importanti, e ne decretano perciò il fallimento proponendo una ricetta-percorso che deprime la scuola. 

Si può quindi affermare che la Buona scuola non abbia inventato molto: l’istituto dell’alternanza scuola-lavoro fu introdotto dalla legge Treu; la ministra Moratti ne aveva fatto uno dei possibili percorsi per l’adempimento del diritto-dovere a istruzione e formazione fino ai 18 anni, assieme all’apprendistato e alla scuola; le Linee guida del ministro Profumo ne hanno fornito la giustificazione ideologica; con la Legge 107 l’alternanza è stata resa obbligatoria nei trienni di tutte le scuole secondarie superiori. Ma la scuola italiana non ha aspettato l’alternanza per dialogare col mondo del lavoro. Ne parleremo nella seconda parte.

Note

1. Cfr. “Manifesto per un’alternanza di qualità".
2. Cfr. L. 107/2015 , art. 1, commi 33-44; uno stralcio dei commi è scaricabile qui.
3. Cfr. "Linee guida per il passaggio al nuovo Ordinamento. Istituti tecnici (Secondo biennio e quinto anno)", 2.2.2., MIUR , 2012; il testo è scaricabile qui.
4. Ibidem.

Immagine


L'immagine a lato del testo ritrae la "Fonderia del Regio Istituto Industriale di Torino", Anni Trenta, Archivio dell'Istituto Avogadro.

 

Fine parte I... Segue: leggi la Parte II...

Scrive...

Carlo Palumbo Ha insegnato al Primo Liceo Artistico di Torino, pubblicista e autore di ricerche e progetti didattici anche nazionali, svolge attività di formatore e aggiornatore in progetti del CIDI, con particolare attenzione alla storia del Novecento,

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