Il rapporto tra significato e significante e il passaggio dalla parola al termine richiedono una consapevolezza da parte del parlante nell’uso della lingua in termini di pertinenza, chiarezza del messaggio e interpretazione dei contesti comunicativi.
Da un po’ di mesi, assistiamo attoniti, nella comunicazione del Ministero dell’Istruzione, a fraintendimenti, alla destabilizzazione delle relazioni linguistiche fondamentali in termini di parole in quanto elementi recanti un significato all’interno di una forma condivisibile tra comunicanti.
Le Indicazioni Nazionali, da molti anni, avevano decretato la fine del programma e indicato piste di lavoro per la costruzione di curricoli significativi, cioè di percorsi culturali contestualizzati nelle singole realtà scolastiche, all’interno di una cornice di riferimento nazionale corrispondente ad una certa idea di scuola e di istruzione. Cresciuti con la lettura e la pratica di quelle indicazioni, gli insegnanti hanno inteso “progettazione” in quanto parola-termine non riconducibile all’idea di programma più prescrittivo e stabilito su nozioni e non su saperi essenziali, a prescindere quindi dai contesti di insegnamento-apprendimento. Per questa consapevolezza professionale gli insegnanti riflessivi sono rimasti basiti nel leggere l’ordinanza ministeriale del 16 Maggio, in cui si ritrova l’idea del vecchio programma che deve essere recuperato a Settembre da chi non ha raggiunto la sufficienza.
Se consideriamo le scuole-rubinetto, cioè come punti di erogazione di informazioni divise per categorie, se pensiamo all’insegnante come un impiegato di questi uffici-informazioni, che fornisce blocchi di argomenti senza tenere conto dell’interlocuzione con la classe, se consideriamo gli alunni degli utenti passivi di questo servizio, allora certamente avremo definito una scuola che deve “recuperare a settembre” una parte di “programma” non svolto.
Saremmo irrealistiche se pensassimo che tutti gli insegnanti sono professionisti riflessivi, e che il quadro appena delineato non riguardi in realtà una fetta significativa del corpo docente; gli insegnanti riflessivi, tuttavia, sono anch’essi più di quanto sembri e, per usare una metafora evangelica, sono “il lievito nella pasta”: sono in minoranza, ma parlano con gli altri e inducono a loro volta altra riflessione.
Gli insegnanti riflessivi sono quelli che pensano alla loro classe come un luogo di crescita condivisa, di inclusione reale di ogni individualità; fanno del rapporto tra insegnamento-apprendimento non una dinamica di potere, più o meno travestito con i mascheramenti del paternalismo né un terreno di rivendicazioni, giacché si sentono vittime di ingiustizie retributive e se la prendono con gli alunni lavorando con loro il meno possibile. Le aule degli insegnanti riflessivi sono presìdi di cultura e di pari opportunità, giacché sono laboratori permanenti.
Dopo i primi giorni di disorientamento causato dal sentirsi orfani di questo tipo di lavoro, gli insegnanti riflessivi hanno rimodulato segmenti del curricolo per adattarli alla dimensione dell’interazione nell’ambiente mediale e della strumentazione digitale, cercando di individuare obiettivi di apprendimento selezionati nei nuclei fondativi delle discipline, e predisponendo approcci di lavoro in cui fosse salva l’operatività consapevole degli alunni. Gli insegnanti riflessivi hanno quindi ri-progettato il loro segmento di curricolo per la scuola a distanza con la consapevolezza che si tratta di una situazione emergenziale, non certo di una soluzione ideale o, meno che mai di un’alternativa alla relazione educativa diretta e continuativa.
In questo sistema di lavoro, la lettura dell’ordinanza del 16 Maggio ha generato incomprensione facendo saltare il rapporto che credevamo chiaro tra significato e significante del termine “progettazione”. Secondo tale rapporto non c’è nulla da recuperare perché si documentano i reali interventi strutturati, i reali processi di apprendimento avvenuti, gli esiti raggiunti all’interno di quel percorso curricolare esperito sia pur a livelli diversi da tutta la classe. Dunque nessun recupero dovrebbe essere previsto; piuttosto a settembre si riprogetta a partire dai reali apprendimenti avvenuti in una dimensione mediale temporanea e generata esclusivamente dell’emergenza.
Sarà questo il momento dei Piani di integrazione degli apprendimenti ? Ancora una volta rimane confuso il rapporto tra significato e significante perché “integrare” rimanda ad una idea di qualcosa che viene inserito perché la struttura portante non è completa; il curricolo è già di per sé significativo perché viene disegnato attraverso gli apprendimenti e diventa completo nel suo divenire implementando strategie e procedure idonee a quel contesto in cui il contenuto viene costruito attraverso l’attivazione di processi cognitivi e relazionali. Abbiamo riscritto gli obiettivi e ridefinito le attività, sulla base della nostra essenziale funzione di progettisti, con la conoscenza già consolidata delle classi in cui lavoriamo, dentro la cornice delle Indicazioni, dove gli obiettivi e i traguardi sono a noi ben noti. Il concetto stesso di “recupero” è fuori da ogni logica didattica, pedagogica, organizzativa.
Coltiviamo, a questo punto, il dubbio che ci si voglia incastrare: se dichiariamo che non abbiamo nulla da recuperare, allora che ci stiamo a lamentare della distanza e della digitalizzazione della relazione educativa? Se, invece, dichiariamo che dobbiamo recuperare, ci mostriamo allineati con la scuola delle quantità e delle misure, sacrosante strutture cognitive in ambito scientifico-matematico, aberranti criteri valutativi in ambito pedagogico.
E qua veniamo all’altra mefitica palude nella landa desolata dell’ordinanza: la valutazione.
Nella ormai imminente chiusura dell’anno scolastico si è infatti profilato un ulteriore dilemma, per altro privo di senso: valutazione formativa o sommativa?
Ancora una volta la riflessione sulla lingua viene in aiuto per illuminare i rapporti confusi, ma non certo per risolvere lo sconforto professionale. Lo scrutinio come atto valutativo è da intendersi solo come sommativo, poiché attestante un esito finale, mentre la valutazione formativa descrive il processo, include elementi di autovalutazione e serve per rimodulare gli interventi in riferimento alle problematicità emerse, anche da parte dello studente). Il nodo della questione è che non è possibile valutare in decimi un avvenuto apprendimento complesso, ma semplicemente un’acquisizione di nozioni dichiarative o procedurali. L’apprendimento, almeno come lo intendiamo, se effettivo e significativo, ha quindi in sé un’idea di valutazione descrittiva anche in fase sommativa come narrazione del percorso esperito dall’alunno. Niente di più lontano quindi dalla coincidenza voto/materia o voto/alunno; non significa nemmeno far coincidere un livello, che delinea con presunta compiutezza un profilo di apprendimento, con un numero. Su questo ultimo punto erano state esplicite persino le circolari e le linee guida che hanno accompagnato i modelli di certificazione delle competenze, a partire da quella del 2015, richiamando l’attenzione dei docenti su narrazione, descrizione, “complessità e processualità” in merito alle valutazioni finali.
L’ordinanza ministeriale ha indotto quindi alla cancellazione rapida e apparentemente incosciente di un patrimonio di cultura valutativa che, pur non essendo diffuso unifomemente nelle scuole del primo ciclo, poteva essere un efficace antidoto contro il pensiero negativo del voto numerico come metro e misura di tutte le cose di scuola, problema reale già durante l’ordinaria attività in presenza e non imputabile certo alla DaD.
Da più parti, moltissimi insegnanti di ogni ordine e grado, (anche qualche dirigente…) nella coscienza della situazione emergenziale e anche nella consapevolezza del problema “valutazione” nella scuola di base, hanno chiesto un atteggiamento completamente diverso sulla sospensione dell’atto valutativo: dalla più netta posizione di “insegnare” che ha chiesto la moratoria dei voti per le classi di passaggio di in ogni ordine e grado, firmata da oltre 2000 insegnanti, alla lettera aperta firmata dal Cidi e dall’MCE, alla dichiarazione del Comitato Scientifico delle Indicazioni Nazionali, alle numerose raccolte di firme per iniziative di singoli collegi docenti. E’ stato ignorato persino il parere del Consiglio Superiore per la Pubblica Istruzione.
Se scoperchiamo, poi, il vaso di Pandora relativo all’Esame di Stato della secondaria di primo grado, la situazione risulta ancora più schizofrenica, ma questa è un’altra drammatica storia.
Appare evidente che è saltato il rapporto tra significato e significante condiviso tra i parlanti generando la non comunicabilità, e quindi paralizzando l’operato coerente degli insegnanti riflessivi, con i quali non si è voluto di fatto dialogare. Si è scelto di operare d’imperio ministeriale, non certo con autorevolezza professionale, con un obiettivo che, stentiamo persino a riconoscerlo, coincide con la demolizione di ogni costruzione significativa realizzata nella scuola di base dal 2012, anno di promulgazione delle Indicazioni nazionali, attraverso un percorso, non sempre ben tracciato ma certamente significativo, fatto di misure di accompagnamento. di formazione e di riflessione nelle scuole.
Il dramma vero è che nel gioco dei rapporti tra significato e significante si costruiscono le storie convulse di futuri cittadini, le uniche che interessano veramente agli insegnanti che vivono con rispetto il proprio lavoro.