Le vestali della scuola media hanno vinto[1]. Le imperiture custodi del sacro fuoco della “distinzione culturale”[2] ce l’hanno fatta. Il latino è risorto dalle sue ceneri. Ma per pochi, ben inteso. Come sempre. Che poi, era davvero scomparso? Tra iniziative pomeridiane e un’ora curricolare al posto di italiano, anzi due come in una scuola media milanese[3], le vestali non hanno mai smesso di resistere, con caparbietà e fierezza, va riconosciuto. Perché il latino è “il segno di distinzione” per la conservazione di classe, non per la formazione culturale della classe. È la “parola d’ordine" [4] che mobilita e unifica, che permette il riconoscimento a viva forza dei legionari della scuola seria, di cui Valditara è il valoroso imperator. Il ministro lo sa bene: c’è un esercito di docenti che, pronti al suo richiamo da sempre, non ha mai abbandonato il fronte, non ha mai smesso di presidiare la fortezza della cultura che separa, dove le indicazioni del 2012 e la legge del 1962 non hanno mai lontanamente scalfito le torri svettanti dei loro granitici “schemi di classificazione”. Del resto fu proprio un deputato missino durante il dibattito parlamentare sul mantenimento o meno del latino, all’epoca del disegno di legge della scuola media unica, a definirlo la “materia selettiva” per eccellenza, non però “sulla base del censo o delle condizioni sociali ma sul piano delle condizioni e qualità intellettive”, poiché la sua esclusione condurrà al “livellamento in basso” e “dall’appiattimento, dall’immiserimento della scuola media deriverà il decadimento degli studi superiori e di tutta la cultura, deriverà l’indebolimento di certi valori, deriverà entro pochi anni una completa decadenza della classe dirigente del nostro paese” [5]. Sulla classe dirigente per una volta possiamo essere d’accordo con i missini, i quali tuttavia furono più arditi dei loro attuali eredi, giungendo a proporre persino l’obbligatorietà del latino, per “elevare le categorie più umili, facendo anche ad esse studiare il latino, anziché far diventare più ignoranti gli agiati togliendolo loro”. Latino per tutti, dunque. Non solo per gli agiati. Altrimenti stenteremo a credere alle nobili intenzioni del ministro quando dice che la reintroduzione del latino servirà ad aprire le porte “a un vasto patrimonio di civiltà e tradizioni” a rafforzare “la consapevolezza della relazione che lega la lingua italiana a quella latina” a rinfocolare “il tema, importantissimo, dell’eredità”[6] . Allora perché renderlo facoltativo e non seguire il monito degli avi missini? Non sarà mica un cavallo di Troia, il latino facoltativo, che, occultando nel suo ventre l’ideologia del merito, maschera la predestinazione con il tanto perseguito orientamento degli ultimi due anni? Così, le famiglie che ambiscono a iscrivere i propri figli al liceo sceglieranno l’opzione latino, chi è già indirizzato ai tecnici-professionali rinuncerà a priori alle ineffabili bellezze classiche. Perché il latino è per i più capaci, i più dotati, i più volenterosi: a cosa potrà mai servire agli studenti poco inclini allo studio, al rigore, all’empirea luce dell’astrazione. C’è da scommettere che, nel giro di poco, i dirigenti scolastici si attrezzeranno e per adempiere alla loro smaniosa efficienza amministrativa, già al momento delle iscrizioni in prima media terranno conto delle richieste e verranno formate le classi in base al riesumato “indirizzo ginnasiale”. Così ecco risorgere l’antica ed elitaria idea della scuola media unitaria, con le sue materie opzionali dal secondo anno, di nuovo in lotta con l’idea di uguaglianza sottesa invece nella scuola media unica [7]. E se a questo si aggiunge che ancora oggi i licei sono scelti soprattutto dai ceti più abbienti ecco che la “meritocrazia traviata”[8] dei nostri tempi, per cui “ti meriti quello che hai perché sei quello che sei”, affonda la sua lama invisibile. Non diamocela a bere: orientare è selezionare, assegnare meriti è privilegiare. Non ce la dà a bere il ministro Valditara quando non perde occasione di sottolineare, con aria furbescamente stupita, che non è lui a essere ideologico, lo sono i suoi detrattori.
Né scelta, né obbligo, invece. Ma un’opportunità: inserire il latino non come disciplina, bensì come sfondo linguistico e culturale di senso. Magari suggerendo un’analisi contrastiva tra la lingua madre e la lingua figlia, per cogliere più le differenze che le somiglianze, per valorizzare l’alterità che emancipa e non la dipendenza che gerarchizza. E se poi il ministro auspicabilmente volesse intendere con “più grammatica”, più grammatica seria, è l’occasione propizia per porre fine una volta per tutte a quell’altro feticcio incrollabile che è l’analisi logica, affermatasi non per analizzare la nostra lingua ma per tradurre dall’italiano al latino, in un’insostenibile visione ancillare dei rapporti fra le due lingue. Una formidabile congiuntura, dunque, per soppiantare quel “carnevale di complementi senza gerarchia”[9], quella “ folla di nomi che si accavallano”, con i modelli della grammatica valenziale e generativa, più scientificamente attendibili e più didatticamente promettenti, nati proprio dall’esigenza di comprendere il funzionamento delle strutture linguistiche moderne, giungendo così ad abbandonare o correggere i concetti tradizionali che la grammatica scolastica ha ereditato dal passato. Quel passato la cui augustea venerazione non può e non deve insidiarsi in una scuola autenticamente democratica, che ha piuttosto il compito di setacciare criticamente memoria ed eredità - come tutte le discipline in fondo ci insegnano - per scoprire di volta in volta ciò che di prezioso in esse riluce ancora e può rimanere.
[1] Il riferimento ammicca ovviamente al titolo dell’indagine sociologica, purtroppo sempre attuale, di Marzio Barbagli e Marcello Dei, Le vestali della classe media, il Mulino, 1972.
[2] Pierre Bourdieu, La distinzione culturale, il Mulino, 2001.
[3] Come il Giornale ci fa sapere con orgoglio nordista, consultabile qui.
[4] Questa e la successiva sono espressioni tratte sempre da Bourdieu, cit.
[5] Questa e la successiva citazione sono tratte da Luigi Ambrosi, La scuola media dei conservatori. L’opposizione delle destre alla riforma del 1962, Rivista di Storia dell’Educazione, 2023.
[6] Qui l’intervista a Valditara.
[7] Sempre Ambrosi, cit.
[8] Questa e la citazione successiva sono tratte da Angélique del Rey, La tirannia della valutazione, elèuthera, 2018.
[9] Questa e la successiva citazione da Michele Prandi, Le regole e le scelte, Utet, 2006.