Questa riflessione nasce da un’urgenza civile, da osservazioni personali e dalla convinzione che la scuola rappresenti un nodo essenziale per affrontare le grandi questioni della società contemporanea. Non ho la pretesa di proporre soluzioni definitive, ma il desiderio di condividere un percorso di domande che sento oggi imprescindibili in quanto cittadino, scout e architetto, deontologicamente al servizio degli interessi generali.
C’è stato un tempo in cui la scuola serviva a spiegare come funziona il mondo. Oggi mi sembra che il suo compito sia più difficile: deve insegnare a capire perché il mondo non funziona, e come si può cambiarlo. Una svolta pedagogica, ma anche culturale, che interroga la natura stessa dell’educazione, il suo rapporto con la società, con il sapere e con la politica intesa non come schieramento, ma come laboratorio della cosa pubblica.
Il punto è semplice ma radicale: non possiamo più permetterci una scuola che si limita a trasmettere contenuti come se fossero verità intoccabili, calate dall’alto, “noiose e demotivanti”, come scrivono Fiorentini e Piscitelli.
Pensiamo, ad esempio, all’idea — oggi data quasi per scontata — che il PIL debba crescere costantemente, anno dopo anno. È una formula di cui si parla come neutra e naturale, eppure porta con sé un'intera visione del mondo. Chi decide cosa va incluso nel conto e cosa resta fuori? Il ragionamento critico deve scaturire negli alunni attraverso un percorso che preveda momenti di attività e momenti di riflessione individuale e collettiva, sapientemente gestiti dall’insegnante. Spesso invece la stessa critica viene trasmessa come un sapere già pronto.
Dobbiamo immaginare una scuola che si costruisce nella relazione viva con la realtà, che formi cittadini in grado di pensare criticamente e agire collettivamente. Un percorso fino all’età adulta che non si chiuda nel recinto delle proprie mura, ma che si apra alla città, al territorio, al presente.
In questo senso, ho trovato interessante, da profano delle scienze dell’educazione [l'autore è architetto, n.d.r.] , confrontare le Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione del 2012 con quelle del 2025.
Le prime nascevano da un impianto argomentativo segnato da un lessico aperto alla complessità, alla costruzione della conoscenza non per formare degli “impiegabili” ma delle persone. Le ultime, pur presentando un orizzonte educativo articolato, sembrano introdurre una torsione più prescrittiva e orientata a un'idea funzionale dell'apprendimento. I termini "formazione", "senso", "riflessione" vengono rimpiazzati da parole come "sviluppo", "prestazione", "competenze".
Questa svolta è tutt'altro che neutrale. Parole come sviluppo e progresso non sono sinonimi.
Pasolini lo scriveva con forza e con chiarezza politica nel 1973: lo sviluppo è quantitativo, il progresso è qualitativo. Una società può essere sviluppata ma non progredita. Lo sviluppo è industriale, il progresso è umano. Confondiamo il prezzo con il valore.
In che misura il nostro stesso lavoro, giorno dopo giorno, serve a sovvenzionare processi che inquinano, sfruttano e degradano? Penso che la scuola debba aiutarci a distinguere ciò che vale da ciò che unicamente costa.
Come costruire un ponte tra educazione e trasformazione sociale senza cadere nell’astrazione o nella retorica partecipativa? Esistono tante esperienze che mostrano percorsi possibili. Iniziative locali, come di recente il progetto IRIS sulla forestazione urbana promosso a Firenze, potrebbero divenire occasione prolifica per sperimentare forme concrete di coinvolgimento scolastico e cittadino, non solo in chiave educativa, ma anche come contributo reale alla progettazione degli spazi pubblici.
Quali condizioni servirebbero perché un progetto del genere si trasformi in un laboratorio urbano intergenerazionale autentico, in cui la scuola non solo osserva, ma partecipi attivamente alla trasformazione del proprio contesto?
Un articolo dal titolo “La scuola fa città. Il ruolo degli spazi aperti scolastici e di quartiere nelle pratiche di educazione alla democrazia” fa un punto interessante sul tema, considerando giustamente “sul podio” "Scuola Città Pestalozzi".
Come possiamo far sì che esperienze simili diventino parte di un’idea più ampia di scuola pubblica, in cui educazione e cittadinanza si costruiscono insieme, giorno per giorno?
Una strada realistica forse consiste nel pensare questo tipo di laboratorio urbano intergenerazionale come un percorso graduale: più semplice nei primi anni, più articolato nella fascia adolescenziale, fino a diventare, per alcuni, un vero ambito di ricerca e intervento civico, non troppo diverso — per struttura e progressività — da quanto accade nel percorso educativo scoutistico.
Immaginare quindi un laboratorio urbano come spazio di convergenza tra bambini, educatori, artigiani, ricercatori e amministratori, è realistico?
Penso che sarebbe bello se alcune tesi di dottorato fossero discusse anche di fronte ad una classe di terza primaria, per testare la loro effettiva sostanza.
Come mantenere questi esperimenti ancorati alla realtà, evitando il rischio che si trasformino in esercizi simbolici o autoreferenziali? La questione non riguarda solo la struttura dei progetti, ma anche le persone che li rendono possibili.
L’educazione deve essere sempre di più, credo, un processo continuo che connette il quotidiano scolastico alle grandi questioni del presente. Nell’epoca della post-verità, in cui immagini e video possono essere falsificati, forse è proprio l’esperienza condivisa del fare — verificabile, tangibile, collettiva — a offrire un ancoraggio concreto alla realtà e lo spunto per riflessioni veramente fruttuose.
Può la scuola farsi carico anche di questo? Penso che non sarebbe peso, ma un sollievo.
Lo scopo non vuole essere aggiungere ma semplificare.
Attraverso un percorso più costruttivo e comunitario, meno competitivo e individuale.
Si cammina meglio insieme, sul sentiero, che soli sulla strada asfaltata.