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27/05/2024

Il “prendersi cura” degli adolescenti a rischio è compito della scuola

di Annalisa Marcantonio

Nella generale categoria dei comportamenti antisociali in età adolescenziale si può intravedere una gamma variegata di situazioni personali. Psicologi e psicoanalisti che indagano su casi emblematici di disagio adolescenziale, nelle loro ricostruzioni e analisi, adottano sempre più spesso un approccio empatico e riflessivo, offrendo alla nostra attenzione storie, capaci di fornire uno sguardo illuminante su fasi complesse della crescita di ragazze e ragazzi. Grazie a questi racconti siamo messi in grado di comprendere meglio le trasformazioni che caratterizzano questa età dell’esistenza, in cui emergono manifestazioni di sofferenza con differenze significative, rispetto al vissuto delle generazioni precedenti nello stesso periodo.

Non si tratta di differenze che riguardano solo il contesto, lo scenario in cui si muovono oggi persone e gruppi sociali, che va comunque considerato. L’età dell’adolescenza rappresenta un passaggio esistenziale che mostra oggi tratti specifici: è una transizione caratterizzata dalla produzione di rappresentazioni del mondo (interno ed esterno) che possono essere angosciose, fino a sempre più spesso generare atteggiamenti contraddittori verso le istituzioni e i soggetti che rivestono l’autorità. Appare evidente che la scuola rappresenta, con la famiglia, l’ambiente in cui, meglio di ogni altro, è possibile veder agire le/gli adolescenti.  Interagire con loro, perseguire finalità educative efficaci rappresenta però una sfida sempre più difficile, per quei docenti che si interroghino seriamente sulla portata strategica della loro funzione sociale.

A fronte della necessità di comprendere quelle forme di disagio che ostacolano il raggiungimento dell’obiettivo intrinseco della scuola secondo la Costituzione, cioè l’inclusione, si avverte una preoccupante carenza di analisi su quelle condizioni negative che possono ostacolare la crescita personale e sociale delle/degli adolescenti. Questo deficit di attenzione, conoscenza e riflessione sul tema riguarda in varia misura i soggetti adulti coinvolti, famiglie, docenti, dirigenti scolastici, mondo politico e Governo. Se ci soffermiamo poi su quest’ultimo attore, possiamo notare che, a guardare le recenti disposizioni di legge, c’è una sostanziale indifferenza agli allarmi che arrivano da molti formatori e psicologi illuminati. Al contrario, la risposta delle istituzioni ai numerosi casi di violenza messi in atto da adolescenti, anche in ambiente scolastico, appare spesso inadeguata e riconducibile al mero atteggiamento sanzionatorio. Allo stato attuale, diverse scelte ministeriali riguardanti la didattica, la valutazione e le misure atte a contrastare i comportamenti asociali, devianti, compiuti nelle scuole, puntano a incrinare le fondamenta dell’impostazione pedagogica democratica che per un cinquantennio ha ispirato le norme base - delle istituzioni scolastiche, nel nostro Paese.
Ne è prova evidente il
DDL S. 924-bis, “Revisione della disciplina in materia di valutazione del comportamento delle studentesse e degli studenti”. Nel testo di legge, per la sua impostazione, è difficile trovare traccia dei traguardi compiuti dei recenti studi sulle problematiche degli adolescenti. Esso inoltre depotenzia i regolamenti già esistenti, indirizzati a inserire le sanzioni in un quadro più generale di contratto formativo tra scuola, studenti e famiglie. Il disegno di legge, già analizzato nei suoi vari aspetti da docenti e dirigenti sulle pagine di questa rivista [1] presenta aspetti discutibili, a partire dall’impostazione in cui – osserva Simonetta Fasoli – si intende operare chirurgicamente sulla normativa esistente. Si è proceduto prendendo le mosse dal decreto legislativo 13 aprile 2017, n. 62 (quello che disciplina la valutazione didattica), individuando gli articoli su cui apportare modifiche, integrazioni o sostituzioni di interi periodi. Nei passaggi del testo in cui il team del ministro Valditara si erge a difesa della “autorevolezza dei docenti delle istituzioni scolastiche secondarie di primo e secondo grado del Sistema nazionale di istruzione”, vediamo che la misura prevista, in caso di atti gravi che abbiano meritato provvedimenti disciplinari a carico di studentesse e studenti, rimane l’allontanamento dalla scuola. L'istituto dell'allontanamento dalla scuola viene però riformato, con l’indicazione di stabilire una gradualità di sanzioni da applicare agli studenti.  A decidere sull’entità della sanzione è ovviamente il Consiglio di Classe che, entro le indicazioni date, è tenuto ad approntare proposte per “il coinvolgimento della studentessa e dello studente in attività di approfondimento sulle conseguenze dei comportamenti che hanno determinato il provvedimento disciplinare”. In queste situazioni, compito precipuo della scuola diventa perciò quello di sanzionare, piuttosto che educare. Sembra di capire che, secondo il DDL, il rispetto dell’autorevolezza dei docenti viene assicurato dalla meticolosa stesura (se interpreto correttamente lo spirito della norma) di una tabella di provvedimenti sanzionatori, nella suprema convinzione che la minaccia del basso voto in condotta, a rischio di bocciatura, svolga un’azione deterrente, nel favorire il senso di responsabilità degli studenti. E questo, come dimostrano esperienze passate, non è affatto scontato. Ma è del tutto evidente che si rischia così di generare un clima scolastico che, anziché favorire forme di mediazione tra i vari soggetti coinvolti, depotenzia la funzione della relazione educativa e imbriglia la vocazione professionale dei docenti, anziché accrescerne l’autorevolezza.

 

L’urgenza di combattere il dropout

Varie analisi di esperti rilevano oggi, nelle comunità scolastiche, un impegno insufficiente nell’affrontare al suo interno le problematiche che riguardano studenti in situazione di difficoltà. Di contro la tendenza alla selezione sta aumentando. Come afferma Mauro Grimoldi [2] a partire dal caso di Rovan, un adolescente con disturbo della personalità, aggressivo e violento, dal complesso vissuto familiare:  “Dopo il conseguimento rocambolesco della licenza media, segnale di una chiara volontà espulsiva da parte della scuola, da cinque anni a questa parte Rovan è quello che tecnicamente i servizi sociali definiscono un dropout scolastico. In buona sostanza, non fa niente”.
Grimoldi inoltre delinea la nuova fenomenologia della delinquenza minorile, riguardante non solo giovani emarginati con vissuti difficili ma anche adolescenti che fino al giorno prima erano considerati bambini modello, educati e cresciuti con affetto.
Nel presentare il caso emblematico di Rovan, comparabile a quanti, tra gli adolescenti, sono incapaci di gestire la pulsione aggressiva, Grimoldi indica in questi soggetti la mancanza di un argine interno all’aggressività, sotto forma di un giudice interno personale che si incarica di presidiare la funzione del giudizio, e sottolinea che questo argine interno è un prodotto squisitamente culturale. Esso, identificabile con il Super -IO, si configura diversamente a seconda dell’epoca storica, in maniera correlata per via diretta all’educazione ricevuta dalle proprie figure di identificazione (significative per quantità e qualità). Se, com’è stato rilevato, alla base di comportamenti devianti nei ragazzi c’è la mancanza di una percezione chiara della propria responsabilità rispetto all’azione antisociale, dell’esserci stati, della presenza di sé nel tempo e nel luogo del loro agire, la funzione della scuola come comunità accogliente ed educante assume un particolare rilievo.

 

Lo sguardo dell’Altro

Il rapporto dell’adolescente con l’istituzione scolastica è stato recentemente messo in luce sotto nuovi aspetti che fanno riflettere sul peso della valutazione come banco di prova della relazione costruita tra studenti e docenti. Analizzando il caso di Andrea, un “bravo ragazzo” divenuto fortemente aggressivo a seguito di una bocciatura, Grimoldi focalizza la rappresentazione negativa che della scuola si era venuta in lui delineando. Questa rappresentazione può essere generalizzata e riferita ad analoghi, numerosi casi in cui la scuola è vissuta come “realtà intollerabile”. Alla base di questa esperienza c’è il passaggio da una “famiglia affettiva”( espressione usata dagli psicologi per distinguerla da quella “normativa”), ad un luogo, la scuola, in cui l’adolescente viene osservato sistematicamente e infine valutato per le sue competenze e per le sue mancanze. Tale percezione può costituire “una scoperta temibile e raggelante” per adolescenti allevati nella famiglia affettiva ipermoderna.
Così ad un Altro - Persona si accompagna un -Altro sociale, niente affatto rassicurante ma giudicante come l’istituzione scolastica.
Se la scuola può rappresentare un involucro esterno gelido, cattivo e giudicante, per altro verso in questo ambiente l’adolescente sperimenta la propria identità attraverso il rispecchiamento e il riconoscimento nel gruppo. Massimo Ammanniti dedica largo spazio a questo tema, nel suo ultimo saggio [3]. Le relazioni di mutuo scambio, di cooperazione e condivisione che si stabiliscono fra coetanei sono generalmente caratterizzate da “una ridotta enfasi sull’esclusività”. Dai membri del gruppo, il coetaneo è percepito come un’estensione di sé, se ne ha bisogno per essere confermati nella propria identità. In considerazione di ciò, sorgono due notazioni. La prima riguarda la centralità che nella vita scolastica deve avere in riconoscimento delle relazioni tra pari, nelle scelte didattiche ed educative dei docenti, la seconda rimanda all’importanza dei social network nell’esperienza degli adolescenti. La ben nota pervasività dei social ci induce a riflettere su quanto essi contino nell’alimentare il bisogno di piacere agli altri attraverso i like, il numero dei follower e i selfie [4]. Le forme di cyberbullismo in cui ci si può imbattere, tuttavia, fanno provare angosce di impotenza, immettono in un mondo di fantasie paranoidi. Tale scenario aumenta d’intensità nei frequenti casi di adolescenti che si chiudono nella propria stanza. Massimo Ammaniti cita, a questo proposito, un caso interessante in cui l’adolescente Vincenzo riassume il suo rapporto con i compagni e con il mondo esterno nella seguente frase: “Io sto nel mio” [5]

In senso generale, esperienze come l’abbandono, il tradimento, la bocciatura rappresentano per gli adolescenti ingiustizie, ferite al proprio Sé ideale. In questo quadro forme di disagio come disturbi dell’alimentazione, diffusi specialmente tra le ragazze, sono da interpretare come ribellione al sistema sociale e familiare. Un altro “paradosso” individuato da Ammanniti sta nel fatto che gli adolescenti di oggi sono presi da loro stessi e, contemporaneamente, alla ricerca continua di approvazioni e conferme da parte degli altri, all’interno del gruppo. In esso si crea un campo psicologico che non dipende solo dalle intenzioni coscienti dei suoi membri ma anche da tendenze inconsce che possono generare aspettative illusorie ed onnipotenti. Ci si può domandare quanto tali fantasie e proiezioni possono trovare conferma nelle star e negli influencer di cui le/gli adolescenti seguono le vicende nella rete.
Ben oltre una normale tendenza all’identificazione con il personaggio famoso, gli osservatori hanno notato che il peso crescente degli influencer può essere spiegato come una reazione alle frustrazioni che lo sguardo dell’Altro - sociale comporta. Grimoldi analizza i motivi di questa fascinazione e osserva che, nella categoria degli attali influencer rientrano soggetti che possono rappresentare un riferimento identitario e rassicurante: non presentando competenze specifiche, sono da considerare anch’essi dei dropout, per quanto privilegiati, cui è assicurato dai moltissimi followers un successo gratuito, svincolato dalla prestazione [6]
Se accettiamo presupposti di quest’analisi, perciò, l’affrontare problemi di natura educativa proponendo e rafforzando rigide forme di controllo sul mondo giovanile sono destinate a fallire, di fronte ai “paradossi” dell’adolescenza. L’enfasi posta dal Ministero dell’Istruzione e del merito sulla prestazione scolastica, il riproporre forme selettive di valutazione piuttosto che interrogarsi seriamente sulla loro efficacia formativa non produce un miglioramento del clima scolastico. Solo una migliore conoscenza delle dinamiche caratterizzanti i gruppi, corroborata dalla consapevolezza delle trasformazioni storico-culturali in atto, potrebbe aiutare la scuola ad uscire dall’ “impasse” in cui si trova, con effetti durevoli sull’efficacia della relazione educativa. Nel contesto sociale, di cui essa è una componente fondamentale, la comunità scolastica dovrebbe da una parte riuscire a contenere entro limiti accettabili la pressione delle aspettative di successo personale che gravano sull’adolescente, da parte della sua “famiglia affettiva”, dall’altra saper offrirgli un contesto ove trovare figure significative con cui identificarsi, in un clima che consenta il generarsi di un sentimento di “compassione” per tutti gli esseri viventi.

 

Note

[1]   S. Fasoli, "Il voto in condotta: un governo e un ministro da bocciare"; 25/09/2023
A. Palmieri, "Valutazione, questa misconosiuta..."; 23/4/2024

[2]   Mauro Grimoldi, "Dieci lezioni sul male", cap. 2, Raffaello Cortina, 2024

[3]  Massimo Ammanniti, "I paradossi dell’adolescenza", Raffaello Cortina,2024

[4]  Mauro Grimoldi, op. cit., dedica largo spazio all’analisi fenomeno, in particolare nella sezione dal titolo: “Forme adolescenziali di soppressione della pietà”, pagg. 190-196

[5]  Massimo Ammanniti, op. cit. pagg.55-71

[6]  Mauro Grimoldi, op. cit. pag. 62

Parole chiave: adolescenza, disagio

Scrive...

Annalisa Marcantonio Ha insegnato Filosofia e Storia nei Licei; fa parte del direttivo del CIDI di Pescara e partecipa alle iniziative di formazione della Società Filosofica Italiana (SFI), sezione di Francavilla al Mare.

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