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11/09/2023

Guardare in controluce: governo, “giovani”, società.

di Giuseppe Bagni, Giuseppe Buondonno

Meloni, Valditara, Piantedosi (con annessi e connessi politico-familiari) sono una “bomba a grappolo” di cultura reazionaria. I giovani ne sono l’obiettivo o, per usare un lessico insieme militare e pubblicitario, il target.

Mettiamo insieme qualche istantanea, per verificare, in controluce, il modello di scuola e di società, di giovani e di umanità che fanno – in modo neanche troppo subliminale – intravedere e che stanno cercando di produrre. È un lavoro importante, che non abbiamo la presunzione di poter esaurire in queste righe, né da soli; dunque, se altri vorranno aggiungere, confutare, arricchire, correggere, sarà molto meglio. Ma è necessario, perché, come ci insegna un grande filosofo della Storia, senza mettere in luce “la verità effettuale della cosa”, il “dover essere” non può avere alcuna base teorica, né politica. Una sola precisazione, forse superflua, ma meglio farla: sto parlando di scuola, anche quando non dovesse sembrare; perché i modelli umani e culturali che la società propone o impone non sono scindibili dal nostro lavoro.

Caivano, gli zainetti e il lupo.

I fatti tragici di Caivano e Palermo, e la visita del governo al Parco Verde, hanno prodotto alcuni blitz nelle periferie urbane e un decreto legge. Guardiamo più attentamente. Se si arrestano mafiosi e spacciatori, si sequestrano armi e droga, non solo non si può dissentire, ma ci vuole un plauso, prima di tutto alle forze dell’ordine. Però, difficilmente può sfuggire la pura occasionalità propagandistica del gesto; perché dal punto di vista anche solo repressivo, per non parlare di quello preventivo e dissuasivo – cioè per garantire vivere civile, diritti e sicurezza alle persone – serve una presenza costante dello Stato, dalle forze dell’ordine alla democrazia partecipata e alla cittadinanza attiva. Altrimenti, spenti i riflettori e buttata un’occhiata ai sondaggi elettorali, nelle tante Caivano d’Italia si ricomincia come o peggio di prima, fino alla prossima “emergenza”. Le periferie delle città sono la vita quotidiana di milioni di persone e di giovani, tutti i giorni; i loro diritti e le loro prospettive.

Veniamo al decreto che, ormai, mediaticamente è diventato sulle “baby gang”. Si potrebbe dire con una frase: solo repressione e nessuna prevenzione. È vero, ma non basta. Non è concepibile, infatti, dopo secoli di cultura pedagogica e giuridica, equiparare o confondere comportamenti o crimini degli adulti e dei minorenni; perché (ma serve davvero ripeterlo?), questi ultimi sono prima di tutto – e comunque – vittime del contesto umano e sociale in cui nascono e crescono. E dunque - nonostante venga invocata a gran voce dai giornali della destra e da qualche amplificatore social o televisivo – questa equiparazione non solo è inaccettabile giuridicamente, ma ancor più sbagliata sul piano degli effetti. Produce criminalità strutturale, invece di contrastarla. Daspo e divieti sui cellulari, poi, mettono ancor più in evidenza l’inversione della realtà e l’approssimazione occasionale che informa la logica del provvedimento. Servirebbe una riflessione seria, scientifica e pedagogica sugli effetti del virtuale e del digitale, sul piano emotivo, relazionale, culturale; invece viene enfatizzata, inseguita – persino imposta, per esempio alle scuole – la “magnifica sorte e progressiva” del digitale e dell’artificiale; ignorando (o fingendo di ignorare) i legami causali con certi effetti. Verrebbe da dire (con un’incursione nel paradosso) che il mondo adulto dovrebbe presentare l’astensione dai social come un premio per comportamenti virtuosi, più che come una punizione.

Dopo Caivano, molto saggiamente, alla radio, Maurizio De Giovanni ha detto, più o meno, serve più tempo a scuola e serve contrastare realmente la dispersione scolastica. Ha ragione, ma Valditara (mentre la sua maggioranza taglia oltre 25 milioni di euro, per i prossimi tre anni) promette una manciata di soldi e qualche insegnante in più, a Caivano; le altre periferie possono aspettare la prossima tragedia! Forse il ministro potrebbe cercare bene in Parlamento; troverebbe un disegno di legge che, tra l’altro, interviene con Zone di Educazione prioritaria e solidale su tutte le aree di maggiore dispersione scolastica e di disagio sociale. Depositato molto prima di Caivano e costruito ancor prima; perché chi vive nella scuola ha bisogno di prevenirle le tragedie e il disagio, non di inseguirli; e misura i propri successi in ragazze e ragazzi che trovano la propria identità e la strada nella vita e che, magari, invece di competere, aiutano gli altri.

Alle periferie delle nostre città (che non sempre sono geograficamente circoscritte), servono politiche sociali, scolastiche e culturali che costruiscano esperienze collettive, legami sociali reali, prospettive di vita comune, esperienze partecipative, anche civili e politiche; su cui possa germogliare una sicurezza democratica reale e complessiva (atentife ensemble, direbbero i francesi). Ci sono esperienze positive (l’ultima, emersa alle cronache, è a Palermo, al rione Sperone), ma devono diventare la norma; e avere risorse e attenzione.

E gli zainetti e il lupo che c’entrano? Molto, e sono in relazione stretta, anche tra loro. I primi, perché, mentre in tantissime scuole si lavora per diffondere una cultura di pace e di rifiuto della violenza, l’Esercito italiano pubblicizza, per gli studenti, zaini per l’esercito, con frasi ispirate alla “disciplina militare” e qualche scuola ha autorizzato anche i pcto in industrie belliche. Solo una “banale” contraddizione? No, è il veicolo di un modello: i giovani che vanno bene sono dei (o come dei) soldati: ordine, disciplina per crescere; altro che diversità, diritti e fragilità. Come dire, in fondo, quando serve, una violenza incanalata può anche far crescere, fa “diventare uomini”. Le affermazioni orribili del Generale Vannacci, come si vede, hanno radici profonde e, se si attivano le sinapsi, non troppo lontane dalla “pedagogia dell’umiliazione” propugnata da Valditara. Sorvegliare e punire, avrebbe detto qualcuno che abbiamo letto anni fa.
E c’entra, dunque, anche “il lupo”; da più punti di vista. Intanto perché, non a caso, nei commenti dell’area di governo, dopo i fatti di Caivano, è stato sostanzialmente rimosso il nucleo centrale di quella violenza, cioè il substrato patriarcale e maschilista che, come a Palermo e negli infiniti femminicidi e stupri, considera le donne e i loro corpi oggetto, proprietà e merce. E di questa sottocultura è intriso il mondo della Presidente del Consiglio; la quale sa mandare messaggi, infatti, appena eletta (prima donna a Palazzo Chigi) si è premurata di far sapere che voleva essere chiamata al maschile, evidentemente considerato, da lei e dal suo entourage, più autorevole (lo ricordo perché, parafrasando Fossati, in questo Paese la memoria può essere cattiva, ancorché vicina). E, d’altra parte, è da casa sua che è venuto – attraverso la pessima metafora del lupo – l’ultima colpevolizzazione delle vittime; considerate, per giunta, alla stregua dell’ingenua protagonista della favola. Tutto terribilmente conforme al machismo e all’omofobia che trasuda dagli amici di partito e di maggioranza della Presidente. E tutto terribilmente coerente con l’insistenza sulla mitologia ideologica della “famiglia naturale”, rimuovendo, non solo il fatto che quelle reali non arrivano a fine mese, ma, soprattutto, che proprio in tante famiglie si perpetua e tramanda la struttura del patriarcato. Mentre invece, per educare alla pace e al valore delle diversità, serve una profonda trasformazione culturale – anche dei curricoli, dei programmi, persino dei libri di testo – e serve un lavoro sugli adulti e proprio sulle famiglie; esattamente il contrario (per esempio) della mozione della destra che, in Regione Lombardia, vuole vietare le carriere alias.

Pezzi di ricambio

Qui i segnali sono tanti e non attribuibili solo a questa destra al governo, per cui sono anche segnali di un cedimento culturale di qualche decennio; la destra esplicita e radicalizza, con minori remore, forse.

Ancora un chiarimento, però: la formazione di chi scrive è lontana mille miglia dal considerare la scuola una bolla separata dal mondo del lavoro, o dal sottovalutare il lavoro stesso come elemento dell’identità sociale e umana. Ma ciò che sta accadendo da almeno un ventennio è ben diverso: è il tentativo di piegare ogni aspetto del sapere al “mercato del lavoro”; di considerare l’utilità della conoscenza solo in funzione di esso e, dunque, inutile – avrebbe detto un grande filosofo – in sé e per sé. Un po’ alla volta, più o meno esplicitamente, ma questa è la sostanza. Didattica orientativa (che si vuole orientare al lavoro e sempre prima, addirittura, secondo qualcuno, fin dalle elementari); PCTO e PNRR pensati per “le esigenze delle imprese”, al di là di qualunque centralità formativa, umana e civile; in cui, cioè i ragazzi e le ragazze non sono il centro, ma gli strumenti di lavori sempre più dequalificati e precari; la didattica per competenze, sempre più esplicitamente schiacciate su competenze esecutive e, naturalmente, digitali (come se manualità, astrattezza, pensiero, fossero fastidiosi granelli di sabbia del passato nel meccanismo perfetto della modernità, e non l’essenza di Homo sapiens). Si può aggiungere anche l’orientamento per le superiori, sempre meno attento a inclinazioni e desideri dei ragazzi, e sempre più alla conquista di clienti da parte dei diversi istituti. Ultime tracce, in ordine di tempo: i licei del “Made in Italy”, la proposta di finanziamenti privati alla scuola pubblica (che, nel cortocircuito con i “docenti orientatori”, rischiano di trasformare le scuole in società interinali per la produzione); infine – mentre sarebbe urgente aumentare il tempo scuola e il numero di laureati – la proposta di riduzione dei professionali e dei tecnici a 4 anni, con tanto di “docenti esterni”, per ragioni evidenti anche ai più ingenui. Se siete poveri, dimenticatevi l’università per i vostri figli e inseriteli, prima possibile, già dalle medie o dalle elementari, in quella che Valditara chiama la “filiera tecnico-professionale”; ché altrimenti perdono tempo e lo fanno perdere alle imprese, le quali non vogliono perderlo, né sprecare risorse per la formazione, ci pensi la scuola pubblica ad inquadrare e addestrare, perché ad altro non serve.

Segni, istantanee, tracce, si è detto sopra. Ma, se si uniscono i puntini, il disegno viene fuori molto chiaro: i giovani non sono più considerati come quell’affascinante e complicato coacervo di incertezze, problemi, sogni, intelligenze in crescita, passioni possibili ma anche pericolose; cioè l’umanità reale. Ma, dopo avergli fregato il pianeta e il futuro, “giovani a una dimensione” (si sarebbe detto a Francoforte). E per schiacciarli su quella dimensione quantitativa e mercificata, che è da sempre l’essenza del capitale, vanno sorvegliati, puniti, inquadrati, addestrati. E selezionati alla radice, per classe e abilità; perché i tempi diversi della crescita, gli sbagli, le fragilità sono lussi che i tempi e le esigenze del mercato non si possono permettere.
È un modello organico: di scuola, di società, di umanità; in cui l’involuzione autoritaria delle democrazie si fonde con lo smontaggio di ogni solidarismo (a cominciare dal welfare) e con la privatizzazione di ogni spazio sociale. Non lo si può contrastare a pezzi e brandelli, né difendendo la Costituzione; ma solo aprendo un conflitto, sociale e culturale, per applicarla e svilupparla, scrollandosi, definitivamente, di dosso ogni subalternità al mercato e al suo modello, di scuola, di società, di umanità.

(foto di M.Gloria Calì)

Parole chiave: disagio, scuola e società

Scrivono...

Giuseppe Bagni Insegnante di Chimica negli Istituti secondari, già Presidente nazionale del Cidi, già membro eletto del CSPI.

Giuseppe Buondonno Insegnante di Lettere al Liceo Artistico di Fermo; è responsabile Scuola e Università di Sinistra Italiana.

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