Si è svolto, nello scorso fine settimana, il Coordinamento nazionale del CIDI: un appuntamento statutario, che come sempre ha costituito un’occasione di elaborazione interna e di confronto con interlocutori privilegiati, tra esponenti dell’associazionismo e dei soggetti politici organizzati, vicini per sensibilità e per cultura democratica.
Mai come questa volta si è trattato di un incontro tutt’altro che ritualistico, nella consapevolezza condivisa dei tempi cruciali che stiamo vivendo e di quello che si muove attorno e dentro l’universo della scuola e dell’educazione. Vorrei partire da qui, dalle importanti sollecitazioni che sono arrivate da questo contesto prezioso di scambio, nel segno di un pluralismo culturale che ha valorizzato le differenze e al tempo stesso ha fatto emergere ancora una volta le potenzialità di percorsi comuni, per provare ad articolare qualche pista di riflessione e di azione.
Se un fil rouge è rintracciabile nella densità dei temi e delle questioni sollevate, è certamente quello che riconosce il carattere sistemico della crisi che si è aperta nel Paese con l’avvento della destra-destra al governo: tale che fa emergere non solo un avvicendamento di assetti politici ma un vero e proprio cambio di paradigma culturale, una nuova egemonia che si avvale di una nuova narrazione. Se è questo l’ordine di grandezza dei fenomeni, la risposta organizzata rispetto al tempo che viene deve andare oltre la pura volontà di resistenza per puntare ad un movimento di tipo contro-egemonico. Insomma, si tratta di “rilanciare le nostre parole comuni, il nostro lessico civile democratico con gli esponenti politici che stanno dalla parte della Scuola della Costituzione” (così ha scritto sui social la presidente Valentina Chinnici in un primo commento a caldo dopo il Coordinamento).
Per avviare un processo che è ambizioso ed ineludibile al tempo stesso, forse è utile partire da qualche considerazione. Al solito, ci aiuta la prospettiva storica, anche quella relativamente recente: a mio avviso, per certi versi bisogna risalire alle stagioni berlusconiane e al berlusconismo che non ha coinciso con una parabola politica limitata nel tempo. È allora che si è annunciato il processo di ri-significazione che ha mirato a sostituire un intero immaginario collettivo, con un altro radicalmente alternativo, suggerendo “le parole per dirlo”. Chi non ricorda l’esordio di Silvio Berlusconi e l’annuncio della sua “discesa in campo” (26 gennaio 1994): l’Italia è il paese che amo” ? A ben vedere, il nuovo lessico era già tutto in questo esordio. Era la politica che parlava alla pancia e non alla testa, la primizia di un’operazione che avrebbe ben presto soppiantato le regole della comunicazione politica tradizionale, costringendo i suoi protagonisti da Primo Novecento a rincorrerla su quel terreno inusitato, già in partenza perdenti. La disponibilità di mezzi di informazione di massa, usata con assoluta spregiudicatezza, certamente unita a una rete di relazioni e connivenze, rese capillare ed efficace quella diffusione della nuova narrazione, tra uno stile da Truman show e un metodo da campagna acquisti. Il resto è noto…
Ma quello che qui mi preme sottolineare è la centralità del linguaggio, fin nel lessico, che ha segnato il punto di svolta (con parecchie, inquietanti analogie con la fascistizzazione dell’Italia dopo il 1925…).
Tutto un déjà vu, dunque, rispetto alla crucialità del presente che stiamo vivendo? Non direi. Nell’Italia berlusconiana tutto sembrava avvenire, almeno nelle intenzioni di chi “dava le carte”, all’insegna di un che di ludico che occultava abilmente gli aspetti feroci del neoliberismo nella sua fase di vitalità adolescenziale. Il messaggio rivolto alla gente comune sembrava essere: “partecipa al gioco, chiunque può vincere; se ce l’ho fatta io, puoi farcela tu pure”, come in ogni baraccone da Luna Park che si rispetti. E il nuovo linguaggio si sovrapponeva al vecchio, senza bisogno di scalzarlo violentemente, contando sul logoramento e la mancanza di appeal delle parole d’ordine tardo ottocentesche.
Non così adesso. Stiamo assistendo ad un pericoloso processo che incalza penetrando nei confini stessi dell’universo linguistico-valoriale della cultura democratica di sinistra, come in una sorta di “invasione degli ultracorpi” che si appropria delle stesse parole, per mantenere il loro involucro, svuotarle e comunque operare una torsione di senso funzionale all’intera operazione egemonica. Un doppio movimento di espropriazione-appropriazione che emerge con evidenza, per esempio, ascoltando gli annunci e leggendo i testi di provvedimenti annunciati o emanati dal ministro dell’istruzione e del merito. A cominciare dalla stessa denominazione: il “merito” nella narrazione di questa destra è la risultante di un’epifania da selezione darwiniana; è il corollario di un talento “naturale” che emerge da un individuo ir-relato, meglio se in contesti di competizione. La riprova di questo approccio distorcente è nella considerazione, al contrario, dell’insuccesso come una colpa, come il segno lasciato da un legno storto su cui non vale la pena intervenire.
Stessa sorte tocca a concetti basilari nella cultura democratica come quello di “inclusione”. Sembra di udire la voce di qualche illuminato esponente del governo mentre afferma: “Inclusione? Ce l’ho!”. Ma basta andare oltre l’involucro della parola svuotata, per trovare le ricette rubricate sotto questo capitolo: si chiamano classi che lavorano per gruppi di livello stabilmente differenziati; inserimenti programmati con il pallottoliere dei numeri; percentuali di presenze che tengono sotto controllo la diversità “sostenibile”: perché il “programma”, come uno show, deve andare avanti. Infine, anche in questo caso, la controprova è nella preoccupazione di salvaguardare i cosiddetti “plusdotati”: categoria arbitraria, soggetta alle interpretazioni più fantasiose, contraria ad ogni criterio pedagogico, non dico “scientifico” ma semplicemente “sensato”.
Gli esempi potrebbero continuare… Mi fermo qui, solo per un ulteriore passaggio nel mio ragionamento. Appurato che l’operazione è questa, che questo è il metodo, che fare? A mio avviso, e cogliendo importanti suggestioni emerse anche nel nostro Coordinamento, si tratta di chiudere la ricognizione della casistica: in altri termini non rincorrere il governo dietro le sue “pensate” (pericolose quando le annuncia e ancora di più per il fatto che le realizza). Indirizzare l’asse dell’impegno sul terreno delle realtà sociali, smascherare l’operazione mistificante centrata sull’inganno delle parole, riconoscendo che è su quel terreno che va portata fino in fondo la battaglia culturale. Certamente, per questo è necessario stringere le alleanze con le forze politiche che in questa fase possono e devono costruire, in Parlamento e non meno nel Paese, le condizioni dell’alternativa. Pensavo, mentre ascoltavo gli importanti interventi alla tavola rotonda, durante il Coordinamento di sabato scorso: bisogna spostare il fulcro dell’azione dal piano istituzionale al piano civile, per creare sinergie e ponti tra l’uno e l’altro. È in questo movimento di spola che può prendere corpo l’alleanza strategica con i compagni di strada, dalle formazioni politiche all’associazionismo di matrice democratica.
Per quanto riguarda specificamente il mondo della scuola, più che di singole “parole d’ordine” credo ci sia bisogno di un “lessico ordinatore del mondo”, che costruisca il nuovo immaginario collettivo dopo lo smantellamento che, con diversi approcci (come ho cercato di argomentare), ha investito la nostra società, almeno da un trentennio a questa parte. Un immaginario collettivo è molto di più di un vocabolario ricostituito: è fatto di contesti, vissuti condivisi, modi di imparare a conoscere il mondo (riprendo qui l’efficace espressione usata da Emma Colonna nell’introdurre i lavori della tavola rotonda). Questa è la posta in gioco per cui vale la pena spendersi, insieme: niente di più, niente di meno.
Stiamo parlando, per quel che ci riguarda più da vicino, di una “pedagogia politica”? Per parte mia, preferisco dire che stiamo parlando di pedagogia, tout court: perché la pedagogia, se non è una tecnicalità dell’educazione, è in sé stessa politica, o non è. “Politica” infatti, in senso alto, è organizzare la speranza, connettendo i fini ai mezzi, riconoscere i bisogni per tradurli in diritti.