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08/09/2024

La scuola al via (?!)

di Caterina Gammaldi

Riprendo il filo del discorso partendo dai provvedimenti annunciati dal Ministro e approvati dal Parlamento che saranno oggetto di riflessione e di proposta nelle istituzioni scolastiche nei prossimi giorni, concentrando l’attenzione su due aspetti: l’introduzione della filiera tecnologico – professionale, le nuove Linee guida per l’educazione civica.

In una delle ultime interviste il ministro ha dichiarato che fra le sue priorità vi è il principio di autorità e la cultura dei doveri.   “Autorità” – sostiene – “non è autoritarismo, è un concetto profondamente democratico … l’autorità del docente serve a rafforzare le competenze e la maturazione degli studenti”.  Autorità, si badi, non autorevolezza affidata al ritorno del voto di condotta, alla protezione legale per i docenti vittime di violenza degli studenti, alle multe per i genitori che aggrediscono gli insegnanti, ad azioni punitive di contrasto ai comportamenti di soggetti (minori e adulti) che non rispettano le regole e soprattutto chi insegna. Perché la scuola, si sa, è luogo di untori e di conflitti, non istituzione della Repubblica, che per Costituzione ha l’obbligo di rimuovere gli ostacoli.

Al via, dunque, guardando ad alcune novità che coinvolgeranno la comunità scolastica, utili per riprendere il confronto e l’iniziativa.

La filiera tecnologico-professionale

La legge 8 agosto 2024 n. 121, di recente approvazione, è in Gazzetta Ufficiale; ha   istituito  la filiera formativa tecnologico – professionale, a partire dal  6 settembre, con una sperimentazione a cui hanno aderito 176 istituzioni scolastiche dislocate prevalentemente in Lombardia, Puglia, Calabria, Campania, Sicilia e Lazio.  Secondo una impostazione che privilegia la didattica laboratoriale, la cultura di impresa, la personalizzazione, il tutoring e l’orientamento, gli studenti saranno affidati alle “cure” del territorio e a competenze professionali provenienti dal mondo del lavoro. Le imprese riconosceranno (bontà loro!) il diploma quadriennale, che darà accesso all’università o agli Istituti Tecnologici Superiori. Al di là del merito del provvedimento  - già negli istituti tecnici e professionali sono presenti competenze provenienti dal mondo delle professioni, partenariati e intese, azioni di orientamento al lavoro - , sollevo alcuni dubbi sulla bontà del provvedimento, anzitutto per gli  effetti che sicuramente deriveranno da un anno di scuola in meno, particolarmente gravi nelle regioni del Sud e nelle isole, come mostrano i tanti  rapporti nazionali, non ultimo quello INVALSI  che, periodicamente,  segnalano le difficoltà di contesto e di apprendimento proprio nella cosiddetta filiera tecnologico – professionale. Il ministro rassicura: non ci sarà perdita di insegnanti, si farà ricorso a competenze professionali esterne esclusivamente per le materie in cui mancano le competenze all’interno della scuola. C’è da credere che ci si muoverà secondo il  vecchio adagio napoletano “facite ammuina”, visto che, oggettivamente, ci sarà un tempo scuola ridotto e un numero elevato di professionalità da impiegare (far ruotare)  in un modello orario prevalentemente antimeridiano.

Quali spazi e tempi saranno dedicati allo studio delle nuove materie … STEM e lingue, alla didattica laboratoriale, ai Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento, presentate come novità di rilievo?  Faccio notare che, già garantire l’obbligo/diritto di istruzione a 16 anni è stato in molte delle regioni coinvolte un problema a causa di un pendolarismo diffuso di insegnanti e studenti, una rete viaria ottocentesca, la mancanza di collegamenti con le aree interne, le caratteristiche economiche e produttive del territorio, per non parlare delle cosiddette “aree a rischio” che hanno impedito che si praticassero attività curricolari ed extracurricolari  con tempi distesi in orario pomeridiano.  Una situazione che richiederebbe ben altre risposte politiche e culturali del Parlamento, del ministro protempore e della sua maggioranza, delle Regioni, risposte in grado di portare a soluzione le diseguaglianze esistenti, stante il numero consistente di dispersi, di NEET e le problematiche educative e nell’apprendimento, segnalate soprattutto nel primo biennio della scuola superiore e proprio nell’istruzione professionale.

Inoltre, se il percorso di studio non è più quinquennale e prevede nuove materie di studio e un nuovo modello organizzativo, ciò comporterà necessariamente la revisione delle Linee guida vigenti, degli obiettivi di apprendimento, del profilo di competenza in uscita e ad oggi non è dato sapere chi sarà consultato, a riguardo, dal gruppo di lavoro istituito a questo scopo. A meno che non si pensi di lasciare tutto com’è - impianto orario e programmi di studio - nonostante le criticità segnalate. Faccio notare il caso di alcune discipline soprattutto nel primo biennio (la storia, solo un’ora nel primo biennio dei professionali) e l’aumento della professionalizzazione; una grave anomalia se si compara con la dichiarata importanza della formazione culturale;  una situazione da cui non possiamo aspettarci  l’auspicata  equivalenza formativa dei percorsi di istruzione superiore.  A fronte dei cambiamenti sociali e del mondo del lavoro, agli studenti dei tecnici e dei professionali non basta più un po’ di cultura generale e una corposa professionalizzazione fin dai 14 anni d’età.
I processi di modernizzazione se non governati rischiano di essere solo operazioni di mero trasformismo.


Le nuove Linee guida per l’educazione civica.

Annunciato dal ministro lo scorso 4 agosto, il provvedimento emanato il 7 Settembre sostituisce quello adottato nel 2020 a seguito della legge n. 92/19 e  indirizza i collegi docenti fin dall’avvio di quest’anno, che, come è noto, rivedono la progettazione curricolare nei primi giorni del mese. Il testo merita una lettura attenta, ma nella sostanza, alla luce dello osservazioni del CSPI al di là come le si voglia chiamare “bocciatura o insieme di rilievi e osservazioni”, contiene tutte le contraddizioni che sono emerse nel periodo che ha preceduto l’emanazione. Non si conoscono gli esperti di cui il ministro si è avvalso per la stesura, ma nel testo del decreti le osservazioni in capo al provvedimento segnalano che il ministro non ha accolto un parere reso all’unanimità (da eletti e designati), sostanzialmente perché ha dichiarato in una intervista si tratta di “pregiudizio ideologico”. Dichiarazioni che confermano la tesi che sulla scuola non ci sono possibili intese anche all’interno della maggioranza di governo (fa fede il dibattito sulla proposta avanzata da uno dei partiti di governo sullo ius scholae).  Rimangono le 33 ore annue, come già negli anni scorsi, affidate ai docenti di diritto (dove ci sono) o distribuite fra gli altri insegnanti (la competenza in questo caso è del collegio docenti), sono recuperati i  tre nuclei concettuali “definiti i pilastri della legge n. 92/19” ovvero Costituzione, Sviluppo sostenibile, Cittadinanza digitale, di cui non si era fatto cenno nella nota ministeriale che aveva anticipato il decreto. Le proposte descritte, l’articolazione del curricolo in traguardi e obiettivi di apprendimento alimenta la convinzione che il provvedimento parli il linguaggio della maggioranza di governo e intenda dare voce a iniziative lontane, nonostante le dichiarazioni,  dai principi democratici della scuola che ci è cara, secondo Costituzione.
Ne analizzo alcune.
Anzitutto l’enfasi sui doveri e sulle responsabilità individuali. Un riferimento che, monco di una scelta che interpella l’io e  il noi, rischia di non rendere effettiva nell’esperienza degli studenti  l’idea di società orizzontale che orienta il dichiarato di don Milani, ovvero il “sortirne insieme è la politica”.
Il richiamo alla Patria che nella Costituzione è un dovere (art. 52 La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino) è anch’esso un dovere, prevale sui diritti, richiama un principio scelto a conclusione di una guerra disastrosa, in una stagione in cui, invece, sarebbe necessario attendersi una scelta che guardi ai diritti di cittadinanza, allo ius soli. L’enfasi sui doveri spiega anche la scelta a vantaggio della formazione alla coscienza di una comune identità italiana come parte della civiltà europea ed occidentale e della sua storia.  Taccio sulla cultura d’impresa, la proprietà privata, i generici riferimenti agli stili di vita, ai beni culturali, alla tutela dell’ambiente, al rispetto delle donne, all’uso consapevole della rete, fino al divieto in conclusione di utilizzo dello smartphone. Di tutto e di più per consentire, attraverso alcune progettualità “educative”, l’indebolimento del progetto di scuola fondato sui saperi. 

E intanto...

 …  mentre si attendono novità sul terreno della valutazione nella scuola primaria e sulla revisione delle Indicazioni nazionali affidata al gruppo di lavoro coordinato dalla professoressa Perla, non posso non esprimere alcune riflessioni a margine della legge Calderoli, cui dovrebbe seguire il premierato.  La “secessione dei ricchi” come la definisce Viesti [1] mina alle fondamenta il sistema scolastico nazionale.  Già la presidente regionale Todde (Sardegna) e il presidente regionale Giani (Toscana) hanno presentato ricorso alla Corte costituzionale sui contenuti della legge, lesiva delle prerogative delle Regioni a statuto speciale e ordinario, ma soprattutto dei principi costituzionali. Nei prossimi giorni altre regioni potrebbero avanzare gli stessi dubbi. Con riferimento al diritto all’istruzione costituzionalmente garantito mi pare che non possiamo non riproporre le scelte dei Padri e delle Madri Costituenti nel 1948;  loro avevano visto giusto: non c’è uguaglianza e partecipazione senza una scuola aperta a tutti e senza tutela della salute  a partire dai più deboli. L’istruzione è un diritto fondamentale.  Tralascio in questo ambito tutte le considerazioni che, nello specifico del diritto alla salute fa il rapporto della fondazione GIMBE presieduta da Nino Cartabellotta, un medico autorevole in campo nella difesa del servizio sanitario nazionale con dovizia di dati che sarebbe opportuno conoscere, concentrando l’attenzione sulla scuola. Tutti conosciamo, in proposito, le differenze territoriali, l’importanza di interventi strutturali e culturali. Tutti sappiamo che con la pandemia le differenze fra i territori si sono accentuate, creando ulteriori problemi. Faccio riferimento, tra gli altri, al rapporto SVIMEZ. E’ scritto chiaramente che un bambino di Nola, calabrese, lucano o siciliano ha un anno in meno di scuola fin dalla primaria (200 ore in meno) se posto a confronto con un bambino della stessa età delle regioni del nord. Sotto attacco a Sud è il tempo scuola (mancano il tempo pieno, i servizi mensa, le palestre, le opportunità, i nidi attivi; sono troppi i senza scuola ….i dispersi e  i NEET ) e nelle regioni del Nord non sono ben messi. Penso alle periferie delle grandi città e alle aree montane interne anche lì consistenti.  L’Agenda Sud, le misure di scuola estiva, le proposte di riforma degli istituti tecnici e professionali creano danno al Sud come al Nord e non incidono positivamente sui problemi educativi che richiederebbero ben altri interventi. La situazione peggiorerebbe con la regionalizzazione del sistema di istruzione perché non verrebbero garantiti gli stessi LEP. I rapporti periodici rischiano di essere un rituale senza senso. Sapere che solo 55 bambini su 100 in Sicilia, Puglia, Campania, Calabria, Sardegna hanno la mensa, solo 40 su cento hanno il tempo pieno non appaga… non è un bene riflettere sull’assenza di nidi in Calabria e a sud contro il 40%  in Emilia  Romagna senza intervenire, non sono un bene il dimensionamento e le reggenze che privano le scuole della figura del dirigente, né le megascuole. E’ in atto una disgregazione dell’istituzione - scuola. Per non parlare degli insegnanti, quelli in attesa di una stabilità, ma che rischiano, anche questa volta, di non arrivare al ruolo, e quelli garantiti.  La regionalizzazione comporterebbe scelte culturali differenziate nei programmi scolastici, nel reclutamento degli insegnanti e nel contratto.  

Il nostro amico e maestro, Tullio De Mauro, diceva sempre che parlare di scuola significava parlare di come una società se ne occupa, far capire che l’istruzione è di tutti vuol dire che è anche di chi non ha figli a scuola.

Un principio va tenuto presente e vale per tutti i diritti; i diritti non sono privilegi o gentili concessioni del principe di turno. Per questo motivo non possiamo che scegliere di essere sempre dalla parte giusta, dalla parte di chi ha meno.

 

Note

[1] G. Viesti, "La secessione dei ricchi", Laterza, Bari, 2023.

 

 

 

Scrive...

Caterina Gammaldi A lungo docente di scuola media; già componente del CSPI

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