Come sostiene Luigi Tremoloso, non è di certo ope legis che si diventa “professionisti capaci di costruire un progetto collettivo” (Vedi “La formazione degli insegnanti”, insegnare, febbraio). Per questo buona parte della scuola è rimasta nella sostanza quello che era quindici anni fa, a meno che non si vogliano riconoscere come cambiamenti auspicati i rituali di una nomenclatura imitativa o di una modulistica di maniera, associati alla mitopoiesi delirante dei progettifici.
Solo che nel frattempo in questi quindici anni a modificarsi profondamente sono stati gli studenti: i cambi generazionali evidenziano come nella scuola di massa la crisi sociale e culturale precipiti in tutta la sua irruenza provocando dispersione e abbandono crescenti oltre che insufficienza formativa. Come risponde la scuola? Per massima parte disorientata dalle finzioni del nuovo, procede di fatto all’impronta, sostanzialmente ripiegata in situazioni di solitudine scelta o indotta, alternando sul finale pratiche di valutazione ora selettive ora buoniste, decise sul momento per ragioni che spesso non vanno oltre le tendenze caratteriali dei singoli docenti o le loro più o meno sviluppate qualità empatiche.
Quindici anni fa si è commesso un grave errore sull’onda di un entusiasmo quasi sempre sincero, generato da un dibattito lungo almeno vent’anni, appassionato e rivoluzionario, tutt’oggi convincente nelle sue motivazioni di fondo: il tema era la costruzione di una scuola democratica per tutti i discenti e per tutti i docenti. In quel frangente, immaginare che il pionierismo - per quanto ispirato - sarebbe bastato per realizzare la rivoluzione attesa, si è rivelato una clamorosa ingenuità: la logica del contagio a macchia d’olio non ha funzionato. Alcuni di quel gruppo originario hanno cominciato a rendersene conto già dopo i primi anni di esperienza, nel disagio o nello sgomento provati dinanzi alle scelte ridotte a modulistica di routine, alle condivisioni siglate copia-incolla, dinanzi alla fitta selva di mani alzate nei collegi, ad approvare i lanci pubblicitari di prodotti sconosciuti (intendo evidentemente la caterva dei progetti annuali). Solo che errare è umano, ma perseverare è diabolico: in molti abbiamo continuato a tenere la testa sotto la sabbia, anche scoraggiati dalle politiche revisioniste dei ministeri, talvolta lusingati dal contentino di qualche posizione di prestigio (oggi rilanciata nel maldestro refrain governativo sulla meritocrazia) o di qualche spicciolo in più…
Per questo la formazione si presenta attualmente come la questione di fondo, l’unica strada percorribile per realizzare una riforma scolastica non parolaia: formazione non solo iniziale ma anche in servizio, dunque permanente, ossia di sistema. Infatti porre mano a questo nodo significa necessariamente affrontare tutti gli altri che a esso sono collegati e che risultano al momento altrettanti nervi scoperti di un apparato in grave sofferenza: da una parte la collegialità e dall’altra la ricerca, sia didattica che disciplinare e pluri/interdisciplinare, cui risulta incollato lo spinosissimo problema della valutazione.
Per questa complessità obbligata, per i fallimenti pregressi di un’autonomia improvvisata e autoreferenziale, allo sforzo di formazione effettiva dei docenti sembrerebbe necessario il supporto di altre agenzie: l’aggancio privilegiato con l’università risulta consequenziale sul piano logico. Solo che l’università non ha in Italia una vocazione didattica e questa carenza, appunto, andrebbe colmata per tentare un duplice salto di qualità, ponendo in sintonia virtuosa ricerca e pratica didattica.
L’innovazione andrebbe impostata sulla base di un principio di scambio e di collaborazione permanenti che, previe accurate scelte organizzative, possa vedere coinvolti docenti universitari e docenti scolastici in sinergia, quali promotori e coordinatori di percorsi programmati, sperimentati, monitorati e valutati in chiave formativa, ossia in vista di un potenziamento progressivo. Penso alla costituzione di sezioni autonome dedicate alla didattica, all’interno delle facoltà o in relazione a unità territoriali, riferite alle singole discipline o ad aree disciplinari, in caso di necessità aperte anche a collaborazioni di consulenti esterni, purché accuratamente normate. In percorsi di questo tipo ogni passaggio risulterebbe collegiale, coinvolgendo i docenti dei consigli e gli altri soggetti istituzionalmente scelti, impegnati sul campo nella messa a fuoco, nella pratica e nella valutazione delle ipotesi di lavoro.
È evidente che una formazione così intesa comporterebbe l’adozione di un organico funzionale, l’ampliamento dell’orario di lavoro, la riduzione del numero di alunni affidati ai consigli, l’innalzamento dello stipendio dei docenti e il riconoscimento di piena dignità alla loro professione che evidentemente non potrebbe più essere condivisa con altri mestieri.
Necessariamente una scelta di tal specie richiede una volontà politica di orientamento opposto a quelle cui abbiamo assistito dal duemila a Renzi, oltre che, naturalmente, di risorse immani. Se fossero solo quest’ultime a mancare (ma non sarebbe poco), si potrebbe decidere di avviare quanto meno segmenti di innovazione progressiva, limitati per necessità, ma coerenti con un determinato quadro riconosciuto e adottato in base a scelte di meditata politica governativa: per esempio si potrebbero focalizzare prioritariamente realtà circoscritte, di particolare sofferenza sociale. In tal modo si progetterebbe un percorso a tappe definite e differenziate, scandite in un lasso di tempo anche ampio, purché organiche all’impianto complessivo. Si ritiene infatti che un approccio realistico a problemi di vasta e complessa portata non comporti l’appiattimento della visione, non neghi necessariamente la ricerca di fondamenti, intesi come linee guida su cui muoversi al presente in una prospettiva storica e aperta al futuro, ossia alla revisione e alla riformulazione necessarie per garantire il risultato atteso. Ciò che non sembra più tollerabile è l’errore frutto di approssimazione e miopia: ben vengano, invece, le eventuali constatazioni critiche basate sulla prova dei fatti, a conclusione di ogni tappa intermedia. Questa mi pare oggi una scelta di metodo irrinunciabile, coerente con lo statu quo eppure in grado di rilanciare il progetto, liberata infine da logiche che gratuitamente tendono a far coincidere realismo e asservimento al dato.
Diversamente, mi asterrei dal fare per il fare: piuttosto che sparare un colpo a caso, tanto per generare rumore o attirare un’attenzione strumentale, senza preoccuparsi dei possibili, incontrollabili danni di risulta, opterei per restare fermi…