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08/01/2019

Postlegomeni attorno alla prima prova degli esami di Stato - Parte seconda

di Mario Ambel

Premessa

Poiché di valutazioni serie, documentate e attendibili ne abbiamo già prodotte non poche (vedi  a lato), ho deciso di raccogliere qui alcune osservazioni di sintesi attorno alle sedicenti novità introdotte per la prima prova degli Esami di Stato con tono più assertivo che dialogante, ma in almeno relativa souplesse.
Di qui la scelta del quasi neologismo del titolo: i postlegomeni sono (o potrebbero essere)  principi definitori, che anziché venire prima e a preparazione di una trattazione più ampia, vengono dopo, quasi a chiosa. O a delusa resa a fronte di una elaborazione che purtroppo non ha prodotto gli effetti sperati: suggerire alla scuola di adottare nei confronti di quelle norme il sacrosanto diritto alla disobbedienza civile.
Insomma, la prenderò quasi sul ridere (comunque amaro), anche come forma di protesta per la totale indifferenza con cui vengono non tenute in conto le posizioni argomentate e serie di chi la scuola la fa in modo riflessivo e sulla scuola agisce e riflette davvero, come priorità professionale e non solo occasionalmente. O per mandato regio.

Il testo sarà un po' lungo, ma è inevitabile: tanti sono gli aspetti coinvolti. Per questo lo pubblicheremo in due parti in rapida successione.

Tra l'altro è caduto in queste settimane il primo anniversario della morte di Tullio De Mauro: queste normative sui "nuovi" Esami di Stato non mi sembrano il modo migliore per ricordarne e proseguirne l'insegnamento e l'azione culturale e politica.

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Parte seconda: condizioni e conseguenze

La tempistica delegittimante
Gli esempi distorsivi
Le griglie valutative
Una pericolosa e un po’ ipocrita tendenza
Lo stato confusionale fra attività di apprendimento, verifica, prova
Un’occasione persa
L’ interessata operosità dell’editoria scolastica
Il pulpito inattendibile
L’ubbidienza autolesionista
La continuità politico-amministrativa
Cause e  mandanti
La grande assente
E adesso? Una questione molto seria

Postilla

 

La tempistica delegittimante
Sia per la scuola secondaria di I grado che di II grado, la tempistica di introduzione delle nuove norme si è risolta più o meno in un anno solare, anzi scolastico. Le “novità”, annunciate tra la primavera e l’estate, sono state definite e introdotte tra l’autunno e l’inverno per entrare in vigore nel maggio successivo. Insomma, un anno scolastico scarso per adeguarsi a normative neppure troppo semplici da decodificare.
Questa tempistica è inaccettabile, anche perché governata da istanze politiche in senso deteriore (incassare gli effetti di una norma in tempi brevi) anziché educative e didattiche (dare il tempo di assimilare un cambiamento e affrontarlo in modo adeguato). In tema poi di politica scolastica e soprattutto di cambiamenti che coinvolgono prove conclusive e conseguente valutazione degli allievi la cosa è ancor più grave.
Oltre tutto si tratta di una tempistica delegittimante: se davvero sono sufficienti pochi mesi per prepararsi a realizzare una prova conclusiva per l'Esame di Stato, non si capisce per quale motivo si vada così a lungo a scuola e senza neppure imparare a scrivere testi assai più semplici. Almeno a detta di molti!

Gli esempi distorsivi
Sia per il I grado che per il II grado, il lavoro della Commissione ministeriale è stato corredato da esempi di come la norma possa essere interpretata e applicata. A parte la natura a tratti incredibile delle esemplificazioni (ne potremmo parlare nel dettaglio, ma la loro inopportunità e inaccettabilità sostanziale ce ne dispensano), ciò che colpisce è l’aspetto paradossale e in parte lesivo di questa procedura.
L’aspetto paradossale è che questa sorta di istruzioni per l’uso ha due tipologie di destinatari assai diversi: nel caso della scuola secondaria di I grado spetta infatti ai docenti di italiano elaborare le prove, nell’altro al lavoro dei consulenti ministeriali: in entrambi i casi la Commissione ha temuto che la lettura, l’interpretazione e l’applicazione della norma (e delle relative note esplicative) potessero essere distorcenti rispetto all’intenzione adamantina della fonte. Preoccupata da ciò, la Commissione ha prodotto esempi di fatto distorsivi, nel senso di un evento traumatico che produce lesioni più o meno gravi agli arti coinvolti. E appare quindi doppiamente lesivo: offensivo della dignità di coloro che dovranno applicare la norma e dannoso per la natura effettiva delle prove che verranno approntate.

Le griglie valutative
Le griglie proposte dal ministero per uniformare i criteri di correzione e valutazione richiederebbero  un discorso a parte, data la delicatezza e la complessità del valutare la scrittura, soprattutto se del tutto o in parte successiva a momenti e procedure di comprensione, analisi e interpretazione di testi. Il farlo presupporrebbe una visione coerente e condivisa di che cosa significhi leggere e scrivere e soprattutto di come si possa esercitare gli allievi a farlo.
Ciò che stiamo dicendo sugli interventi relativi alla natura delle prove ci sconsiglia vivamente di occuparci di come valutarle: sono troppo divergenti le posizioni sul che cosa valga la pena insegnare e apprendere per discutere un eventuale (e di secondaria importanza) accordo o disaccordo su come valutarle. Sappiamo invece che da tempo il Ministero è maldestramente più attento a come valutare che non a che cosa e come insegnare, ma non intendiamo assecondare questa visione distorta delle finalità e delle priorità del sistema scolastico, di cui tutta questa vicenda è l'ennesima riprova.
Comunque non c'è da preoccuparsi: l'editoria di settore colmerà certamente la lacuna, anche se purtroppo non potrà esercitarsi in uno dei prodotti che più ne qualificano la dignità culturale: i volumi di soluzioni delle verifiche! 

Una pericolosa e un po’ ipocrita tendenza
Ciò che preoccupa inoltre è che nel documento della Commissione e negli esempi aleggia una volontà (sia per la Tipologa A che per la B) di scissione e frammentazione fra comprensione e commento o scrittura delle proprie argomentazioni di cui si capisce solo in parte la ratio.
Si ha come la sensazione che si voglia (o si creda) di semplificare una prova di per sé giustamente impegnativa, concedendo la possibilità agli allievi meno strumentati di rispondere a qualche domanda di comprensione prima di lasciarsi andare a commenti presi anche dalla propria esperienza personale. Insomma rispondi alle domande su Svevo  e poi disserta del tabagismo. Oppure rispondi alle domande su una argomentazione scientifica e sociolologica sui problemi dello smaltimento dei rifiuti sul pianeta e poi parla del tuo rapporto con i cassonetti. Non sarebbe certo questo il modo di consentire a tutti di accedere in modo coerente e adeguato alla prima prova dell’Esame di Stato conclusivo.

Lo stato confusionale fra attività di apprendimento, verifica, prova
Inoltre assistiamo a una ulteriore contraddizione dovuta alla eccessiva frammentarietà del modo di impostare le prove e le relative consegne. Nelle indicazioni di svolgimento, negli esempi della Commissione, così come nella manualistica più o meno improvvisata si verifica un pericoloso fraintendimento: si trattano (o si spacciano) come prove conclusive domande e procedure che appaiono a tutti gli effetti procedure di apprendimento. Se coerenti ed efficaci si potrebbe discutere, ma di certo quel modo di impostare la “prova” è assai più pertinente come attività di apprendimento o di verifica che come prova conclusiva.
È il fraintendimento opposto e complementare a quello indotto dalle prove Invalsi: là la natura parcellizzata della “verifica” (le prove Invalsi non sono infatti assimilabili a "prove" finali) si è riversata, snaturandola, sull’attività didattica di apprendimento, che non esiste più ed è ridotta ormai a un continuo addestramento alla logica e alla natura di quella verifica. Qui quelle che potrebbero essere discrete modalità di apprendimento (per questo necessariamente parcellizzate, anche se lo sono troppo e in questo pericolosamente simili alle prove Invalsi) vengono spacciate da prova finale.
È l’ennesima conferma dello stato di totale obnubilamento cui si è ridotto un ministero ossessionato da decenni di ansia valutativa, che ha qualcosa di culturalmente patologico e che ha fatto perdere ogni attenzione al momento e alle dinamiche reali dell’apprendimento, fino alla paradossale confusione (o inversione) fra attività di apprendimento, verifica parziale e prova finale, in un sorta di delirium valutans, in cui non si impara più nulla, si verifica poco e si valuta tutto.

Un’occasione persa
Va detto, altresì, che per la prima volta nella storia della scuola del dopoguerra, il Ministero aveva affidato alla stessa Commissione il compito di intervenire sulle prove d’esame di due ordini di scuola diversi e successivi. Si trattava di una opportunità per delineare presupposti e pratiche del “curricolo verticale” che non andava disattesa. Ma per farlo, era necessario che la Commissione lavorasse in stretto accordo con i lavori di chi ha redatto le Indicazioni (o fossero addirittura gli stessi membri) e che avesse competenze solide e non posticce su entrambi gli ordini di scuola (e magari anche sulle primarie, per le inevitabili ricadute che normare le prove conclusive determina su tutto il sistema), ma così non è stato.
Non solo, ma la Commissione, a conferma che l’ottica dell’intervento era restrittivamente condizionata dal mandato di pensare alla “prova” e non alla progressione degli apprendimenti curricolari, si è preoccupata più di intervenire e modificare (di fatto peggiorandola)  la normativa d’esame precedente, che di definire un continuum coerente e progressivo fra  i momenti conclusivi dei due ordini di scuola. A meno che per coerenza progressiva non si intenda quell’aria di propedeuticità generica che aleggia sui cambiamenti del primo ciclo rispetto al secondo. Aggravata dalla perdita di varietà testuali, che ora si canalizzano verso le due forme di argomentazione previste per il secondo ciclo.
Quanto il difetto stia nella “comanda” del Ministero o nella esecuzione della Commissione non solo non è dato sapere, ma è del tutto ininfluente: resta il danno, per entrambi gli ordini di scuola, con buona pace della progressività e coerenza del curricolo, cosa che per altro è sempre stata assai poco a cuore alle dinamiche di nomina e di lavoro delle varie commissioni ministeriali.

L’ interessata operosità dell’editoria scolastica
Da sempre l’editoria scolastica guarda con favore ai cambiamenti normativi perché, indipendentemente dalla natura delle novità introdotte, consentono di produrre nuovi testi o strumenti e quindi di muovere il mercato.  Anche in questo caso, l’editoria scolastica si è precipitata a produrre libelli più o meno attendibili a supporto delle improvvisazioni didattiche di adeguamento alla normativa. Poco importa, qui e ora, che le proposte contenute in quegli strumenti siano più o meno coerenti, credibili o efficaci. Ciò che conta è che produrre tra ottobre e dicembre strumenti operativi che consentano di apprendere ed esercitare scritture complesse da realizzare a giugno è di fatto squalificante. Per chi li scrive, per chi li pubblica, per chi li vende e per chi li adotta. Qualcuno obietterà che è un disperato tentativo di aiutare gli allievi. Forse è certamente disperato. E anche un po' patetico.

Il pulpito inattendibile
La provenienza teoretica (si fa per dire) del lavoro della Commissione può essere definita, senza tema di offendere,  “accademica”, nel senso che la natura e la direzione delle argomentazioni addotte rimanda a un ambito di elaborazione certamente più universitario che scolastico, anche se in sintonia con una parte della scuola. Ciò amareggia ancor più perché di fatto l’università, sede della preparazione iniziale dei docenti, è a tutti gli effetti un luogo dove, nella maggior parte dei casi, il come insegnare a leggere e scrivere è dottrina (e prassi) tenuta in bassissima considerazione e del tutto disattesa, se è vero (com’è indubitabilmente vero) che i neoassunti ne giungono a scuola pressoché sprovvisti o convinti che corrisponda a ciò che è stato loro mostrato da studenti liceali o genericamente superiori.
Si perpetua così un praticantato del tutto affidato alla buona volontà e alla ingegnosità degli insegnanti e non a contesti di analisi, studio e proposta di efficaci metodologie didattiche. Senza contare che sono sempre nutrite e battagliere le schiere di coloro che sono convinti che per insegnare una "materia" sia ampiamente sufficiente conoscerla!

L’ubbidienza autolesionista
Per questi motivi da parte dei docenti adattarsi, più o meno obtorto collo, a queste innovazioni normative è una grave inadempienza professionale. Ciò che appare come un inevitabile adeguamento al diktat normativo si traduce infatti in una sostanziale e grave disattenzione per i propri doveri nei confronti degli allievi e dei loro diritti, in particolare quello di essere messi realmente nelle condizioni di apprendere una strategia adeguata ad affrontare gli esami cui saranno chiamati a breve.
In realtà questa acquiescenza rivela (o nasconde) un rischio assai più grave, ovvero che queste presunte novità in fondo siano gradite a molti docenti di italiano, anzi di (belle) “lettere”. Quanti sono e se rappresentano o meno la maggioranza ce lo dirà qualche immancabile sondaggio, ma in ogni caso sappiamo bene che una consistente quota di docenti di lettere non si è mai separata dalla pratica del “tema”, sotto più o meno s/mentite spoglie. E in tal senso essi ritengono che in fondo i loro allievi siano di fatto non solo preparati, ma certamente favoriti, da una norma che – mutatis mutandis – chiede di realizzare un testo argomentativo, di commento nella tipologia A, responsivo nella tipologia B, più tradizionale o parzialmente di commento esplicativo nella tipologia C.

La continuità politico-amministrativa
Queste norme, nate con il precedente e sedicente “governo del fare” e confermate dall’attuale e sedicente  “governo del cambiamento”, sono un raro esempio di continuità politico-amministrativa in un settore, la politica scolastica, che è di fatto caratterizzato da anni da un persistente binomio ossimorico: ogni governo finge un gran dispiego di norme più o meno innovative (politiche nel senso di demagogiche), che di fatto andranno a confermare una sostanziale continuità di scelte (politiche nel senso di strategiche). È dalla emanazione della legge sull’autonomia (e dal contestuale fallimento del cosiddetto “riordino dei cicli”) che la politica scolastica italiana si caratterizza, nell’applicazione di quella legge e negli altri provvedimenti, per l’adozione di una linea liberal-conservatrice per altro già ampiamente presente (e attiva) nella fasi che ne segnarono la preparazione, la stesura e l’approvazione.
In questo caso, più che una esaltazione delle pulsioni meritocratiche, siamo di fronte a scelte sostanzialmente elitarie e a lungo andare selettive, anche se poi si cerca di correre ai ripari banalizzando gli assunti e credendo di semplificare le prove. Ma soprattutto, queste norme  negano  l'evoluzione della didattica linguistica (e ne invertono la direzione di marcia) nella convinzione che la soluzione alle contraddizioni della scuola e dei suoi esiti stiano sostanzialmente nel ritorno a pratiche desuete, seppure ammantato - dov'è possibile - di modernismo digitale.

Cause e  mandanti
Perché dunque cambiare la prima prova dei due esami e perché farlo in questa direzione? La Commissione coordinata dal prof. Serianni, voluta dal Ministro Fedeli e operativa con il Ministro Bussetti, sembra voler confermare che hanno sempre avuto ragione Paola Mastrocola, Galli Della Loggia, il “Gruppo di Firenze” e anche altri , maître à penser, corsivisti e commentatori di varie  allocazioni ideali e istituzionali: il degrado della scuola (e in particolare delle competenze linguistche) è colpa di Tullio De Mauro (e Don Milani). 
A più di 40 anni dalle “Dieci Tesi per l'educazione linguistica democratica” e a 20 anni dalla riforma della prima prova dell’Esame di Stato, dopo decenni impiegati da una parte della scuola per lavorare seriamente nell’ottica della “scrittura documentata” e delle diverse modalità di comprensione e riscrittura, si ritorna al commento, al testo argomentativo e al “ ‘vero e proprio’ tema", senza dimenticare ovviamente riassunti e parafrasi.
Un ritorno al vecchio (non all’antico) di cui è responsabile anche quella parte di scuola superiore che non ha mai gradito (e applicato) i cambiamenti introdotti nella prima prova nel 1999/2000 e che ora si ritrova con indicazioni contraddittorie e vaniloquenti.

La grande assente
Da tutto questo tintinnar di norme e di esempi e di griglie resta esclusa (anche perché inesistente o latitante) quella che dovrebbe essere la protagonista prima di tali vicende: la ricerca didattica, ovvero quel luogo (una sorta di "isola che non c’è" del pensiero pedagogico o eldorado della didattica) dove si dovrebbero elaborare proposte su come insegnare sulla base di osservazioni, analisi, ipotesi e sperimentazioni attorno a dinamiche culturali e didattiche, attendibili e sottoposte a verifica. Ma la ricerca didattica non esiste, oppure è dispersa in contesti, figure, accadimenti che non fanno né opinione né legislazione: "un popol disperso che nome non ha", eternamente suffragato e sostituito da questo o quel contesto, che ha e rivela altri fini e altri interessi che non siano quello di definire e validare buone teorie e pratiche di insegnamento/apprendimento. In attesa che un docente scriva un bel romanzo o vinca una gara canora perché i media possano intervistarlo per sapere che cosa e come si deve insegnare.

E adesso? Una questione molto seria.
Ora tocca ai docenti affrontare e dirimere una questione assai seria: ubbidire alla norma e preparare i propri allievi a divenir del testo argomentativo e del commento alla letteratura e ai vizi umani navigatori esperti oppure contravvenire alla norma e insegnare a leggere e scrivere forme testuali anche diverse, purché significative e interessanti da saper comprendere e in parte scrivere nel confronto democratico di un paese civile?
Non è questione di poco conto, come si vede. Anche perché coinvolge e rende problematica anche la continuità fra ordini di scuola.
I gruppi di ricerca-azione, per esempio, da me coordinati in luoghi diversi del paese, da nord a sud, si sono sempre occupati di come suscitare, attivare e consolidare competenze di lettura e riscrittura (di commento, documentata, imitativa …) dalla scuola primaria al triennio delle superiori (tutte e non solo il liceo) di tipologie diverse di testi. Lo facevano cercando di delineare un curricolo verticale che fortemente si avvaleva del confronto fra ordini di scuola diversi! Che fare, ora?  Continuare su questo fertile e produttivo terreno di ricerca e sperimentazione o convertirsi al nuovo corso per addestrare schiere di commentatori di testi letterari, confutatori di elzeviri e saggi, o produttori essi stessi di argomentazioni decisive quanto farlocche sui nodi irrisolti della convivenza globale?
Il tutto tenendo conto della cesura fra le facezie della scuola di base (che potrà ancora dilettarsi di fole narrative) e la raggiunta ancorché presunta maturità della scuola secondaria di II grado (che sarà chiamata invece a misurarsi con i temi che assillano l’animo e i consessi umani). Ma anche della sostanziale svolta elitaria e classista delle scelte adottate, che indubbiamente privilegiano un’idea di scuola superiore circoscritta al solo (buon e ormai inesistente) liceo di una volta!
Non sarà facile decidere, anche perché una prima occasione s’è già perduta.
Se infatti i docenti di “lettere” della scuola secondaria di I grado e soprattutto II grado, avessero inteso difendere la dignità e la serietà del proprio impegno professionale e il lavoro dei loro allievi, avrebbero potuto (e forse potrebbero ancora) rimandare al mittente le vetuste novità introdotte, chiederne l’abrogazione e continuare a lavorare seriamente per insegnare a leggere e scrivere ai ragazzi e ai cittadini di oggi per domani.

Postilla
Mi scuso con i lettori normali per aver usato, qui e là nel testo, alcune facezie lessicali o stilistiche, del tutto inutili quando non indisponenti. L’ho fatto nel vano e disperato tentativo di apparire colto (e a tratti persino saccente), al cospetto di quanti ritengo ispiratori diretti o indiretti di tali norme. Operazione di per sé ancor più vana e disperata poiché certamente non leggeranno questo papello. Pazienza.  Absit iniuria (o invidia) verbis.

Ci occuperemo a breve anche degli esempi e delle griglie, dove il nostro totale dissenso per l'intera operazione trova amare ed eclatanti conferme.

 

Il doppio speciale sulla prima prova degli Esami di Stato

Abbiamo dedicato alle nuove normative sui due Esami di Stato una intensa serie di contributi che provengono dal lavoro in classe, dalla riflessione professionale e dalla ricerca didattica sia di insegnanti di scuola che di docenti universitari.
Li ricordiamo sommariamente, rimandando ai singoli contributi.

Sui "cambiamenti" per la secondaria di I grado

Sommario dello speciale "Non solo prove d'esame..." con contributi di  M. Ambel,  R. Angelelli, D. Casaccia ,   C. Dogliani,  M. Rossetti,  Voci dalla scuola (C. Fortugno, A. Baldissara, L. Coniglione , W.R. Fulgenzi , L. Iannucci).
Accanto al sommario anche un nutrito elenco di contributi su temi connessi alla didattica della scrittura.

Sui "cambiamenti" per la secondaria di II grado

Sommario dello speciale "Non solo di prove di Esame di Stato" con contributi di M.L. AmorosoM. Della CasaCristina Lavinio, Alberto Sobrero, Analisi e commenti (A.R. Guerriero, F. Ronchi, L. Grossi)

 

Scrive...

Mario Ambel Per anni docente di italiano nella "scuola media"; esperto di educazione linguistica e progettazione curricolare, già direttore di "insegnare".