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09/07/2023

Quando si smarrisce la fiducia

di Annamaria Palmieri

A volte ritornano. Le riforme tese a contenere, punire, moralizzare, proibire, e il plauso dell’opinione pubblica, nonché degli addetti ai lavori o dei cosiddetti stakeholders o dei genitori. Valditara non è il primo Ministro, né sarà l’ultimo, che propone, credendoci fermamente, soluzioni semplici a problemi complessi. Con la Gelmini la retorica del voto numerico sin dalle elementari si accompagnò all’elogio del grembiulino, se qualcuno lo ricorda. Ah, quanto piacque quel ritorno alle vecchie maniere di una scuola sedimentata nell’immaginario e che non c’è più, ma così rimpianta! Ci trovammo poi a scoprire che dietro quegli aggiustamenti nostalgici si nascondeva la più grande campagna di tagli alla scuola pubblica dal dopoguerra ad oggi.
Allora come ora, le narrazioni semplificate ebbero buon gioco: la storia che la scuola si sia smarrita per colpa del permissivismo post-sessantottino, ad esempio, tema di facile presa anche perché amato anche da illustri editorialisti, quelli che ad una scuola non destinata solo agli optimates non si sono mai rassegnati. Né a destra né in una certa sinistra.

Ma andiamo con ordine. Non ritorno sui casi di cronaca che hanno dato il via alla nuova crociata sul voto in condotta, ma sarà bene riassumere quali esiti si stanno profilando: il Ministro del Merito Valditara promette un irrigidimento della normativa scolastica che prevederà il ripristino del voto in condotta alla scuola secondaria di I grado, che farà media (sì, la media scolastica, l’ assurdo logico e antiscientifico su cui si regge ancora il nostro sistema di valutazione); inoltre un utilizzo espansivo del 5 in condotta nei casi in cui siano violati i paletti comportamentali posti dal Regolamento di Istituto, e infine l’ipotesi di accompagnare la sospensione con attività civiche e di solidarietà che integrino la misura sanzionatoria, passando dalla punizione alla rieducazione dei colpevoli.

Ora, se si eccettua il ritorno al passato sulla scuola media, tutti i provvedimenti, elencati con dovizia di particolari dagli organi di stampa, non rappresentano di per sé una novità: le fonti normative sulle sanzioni disciplinari (D.P.R. 294/98 integrato dal successivo D.P.R. 235/07 e dalla circolare 3602 del 2008 figlia della lotta al bullismo) nonché i codici comportamentali, introdotti nei già esistenti Regolamenti delle Istituzioni scolastiche autonome, tendenzialmente vanno tutti e da molto tempo in quella direzione. E viene allora da chiedersi: cosa scatena tutta questa enfasi e tanta veemenza nel voler rifondare, anzi ritoccare, norme già esistenti? Forse il dubbio, anzi la certezza, che questo pregevole armamentario repressivo e sanzionatorio non serva a nulla. Lo scriveva qualche giorno fa, come sempre in modo efficace, Michele Serra nella sua “Amaca”: il proibizionismo è un’ideologia[1].

Ma non ha mai sconfitto il male, non ha sconfitto le droghe, non ha sconfitto le mafie. E, aggiungo io, non sconfiggerà il bullismo verso i professori. Però piace. Semplifica. Tranquillizza. E viene nutrito con argomenti, anzi asserzioni - sebbene, in campo educativo, non vi sia peggior atteggiamento di quello assertivo - di facile presa: provo ad elencarne alcune, consentendomi qualche obiezione.

Primo argomento: restituiamo credibilità alla scuola e ai docenti con lo strumento della punizione con il voto in condotta; il gesto offensivo non resti impunito, come impuniti sono i giovani di fronte a famiglie sempre più deboli ed evanescenti.

Prima (timida) obiezione: ma siamo così sicuri che “condotta” e “comportamento” coincidano? Come ha scritto in un lucido saggio Mauro Palma, "Potremmo dire – e su questo è bene tornare a riflettere- che la prima è indicativa di un concetto monadico di persona e quindi della lettura dei suoi diritti e dei suoi doveri soltanto nella proiezione soggettiva che essi assumono, mentre il secondo li legge come fattori di appartenenza ad un contesto sociale". [2]
In questo senso, relegare il giudizio sul comportamento al “voto in condotta” è un modo per sfuggire alla necessità di misurarsi con i comportamenti di un giovane che apprende all’interno di una comunità educante, della quale fanno parte i pari e gli adulti, tutti, dai genitori ai docenti.

Secondo argomento: la scuola è impegno e fatica, non è per tutti. In questo tipo di ragionamento, la buona condotta va di pari passo con l’idea di un ragazzo buono, studioso e diligente, che si atteggi nei confronti della scuola esattamente come noi adulti vorremmo che facesse il nostro “alunno ideale”. Un alunno che viene a scuola per studiare, che ha rispetto per l’autorità del docente, che esegue i compiti che gli sono prescritti, che accetta mansuetamente le regole del gioco in cui la scuola lo colloca, senza possibilità di discuterle. Chi non lo fa, che sia un disgraziato o un borghese viziato, va estromesso, specie se compie gesti violenti; al più, nel migliore dei casi, va rieducato attraverso attività dal valore civico. E solo così si ripristinerà l’autorevolezza del docente e la serietà della scuola.

Seconda (più risoluta) obiezione: in quale punto di questo percorso noi adulti ci interroghiamo, per il giovane, sul suo essere e relazionarsi al mondo come soggetto proprio, portatore di istanze e desideri anche in quella “terra di mezzo” che è la scuola? Ha scritto Gert J.J.Biesta: "L’insegnamento ha un potere emancipatorio in quanto interrompe e potenzialmente ci libera dal nostro essere con noi stessi ed evoca il nostro essere nel mondo in quanto soggetto”. Ancora: "Essere e cercare di rapportarsi al mondo in questo modo significa porsi la domanda fondamentale: se ciò che desideriamo è ciò che dovremmo desiderare, una domanda che ci segue ovunque andiamo, che ci interroga in qualsiasi situazione". [3]

Non v’è dubbio che come educatori, anzi come adulti in genere, dovremmo aiutare i più giovani a non eccedere nell’ambizione di volere essere nel mondo così come esso si presenta a loro (violento, volgare, insensato, virtuale), ma anche a non scoraggiarsi troppo quando quello stesso mondo presenterà loro il conto, le prime frustrazioni, le prime sconfitte, il peso della inadeguatezza. A scuola, a differenza che all’università, le liturgie quotidiane dell’insegnamento si scontrano spesso con un dato inconfutabile: agli studenti non è mai stato chiesto se vogliano essere lì, anzi proprio lì, e prima o poi essi se ne rendono anche conto: questo rende il lavoro dell’insegnante-educatore speciale, e nel contempo difficile e rischioso. Perché si lavora su un margine, in una continua tensione tra quel che c’è e quel che non c’è (ancora), si possiede un potere che non sempre si trasforma in autorità. Gran parte del lavoro di un buon insegnante consiste nel creare, attraverso il proprio sapere, tempi, spazi e forme che permettano agli studenti di analizzare, esaminare, selezionare, capire e conseguentemente trasformare i propri desideri. Che la domanda suscitata dal nostro sapere diventi una domanda viva nella vita dello studente è quel che ci renderà autorevoli, se ciò non accade restiamo detentori di un potere senza autorità alcuna.
E allora l’alunno mansueto e accondiscendente forse può consolarci, quello aggressivo e bullo può spaventarci, ma non è reprimendolo che riconquisteremo il prestigio, nostro e del sapere scolastico.

Infine, ultimo ragionamento, quello più amato, quello che guarda alla scuola come luogo di “rassicurazione collettiva”: di fronte a famiglie assenti e distratte, a genitori immaturi e incapaci di educare, la scuola deve tornare ad essere rigorosa e ferma. Solo con il rigore e la meritocrazia restituiremo alla scuola la sua dignità perduta, pregiudicata da quei cattivi maestri che come Don Milani, ne hanno fatto un luogo di mera accoglienza ma non di istruzione e formazione.

Terza (e più polemica) obiezione: signori, per piacere, decidiamoci. La scuola deve istruire o educare? È laboratorio di cittadinanza o luogo di tradizione e trasmissione del sapere? Sono decenni che in questa assurda contrapposizione ci si è smarriti e non poco. Fino ad arrivare a concepire un percorso, quello dell’educazione civica, che diventa una materia con voto, alla vecchia maniera, ma allo stesso tempo il contenitore delle educazioni (di qui la sua trasversalità), ovvero di tutte le nostre buone intenzioni educative verso il cittadino del futuro. E così con l’educazione civica si affrontano i temi dell’agenda 2030, ma anche il diritto costituzionale, ma anche la lotta contro il fumo e le droghe, ma anche l’educazione stradale, ma anche…perché no, il ricordo di Auschwitz; e, ovviamente , la “cittadinanza digitale”. Ma vuoi vedere che gli obiettivi dell’educazione civica finiscono per coincidere anche con la buona condotta, anziché con il progetto educativo della scuola? 

In questa frattura mai ricomposta, e decisamente nociva, tra istruzione ed educazione, continuiamo a muoverci con ambiguità. È accaduto che nella scuola negli ultimi decenni siano precipitate tutte le contraddizioni di una società che non era e non è capace di farsi carico responsabilmente dei mali che l’affliggono. E al docente che istruisce e ammaestra e - sotto il segno del padre- cerca di esercitare autorità, quello che mette voti e giudica le prestazioni, si accompagna e mescola il docente educatore, co-costruttivo, che si muove sotto il codice materno, che cerca di farsi regolatore delle emozioni e del caos che c’è fuori, aiutando e sorreggendo l’allievo ad elaborarle dentro il contesto scolastico. Se è evidente che entrambi i codici servono, nella crescita, e che la scuola necessiti sia di riconoscere i bisogni dell’alunno e guidarlo nei suoi dubbi e incertezze sia di spingerlo all’impegno negli studi incentivandolo e premiandone i successi, è indubbio però che nella relazione tra docenti e allievi possono sorgere non pochi problemi quando i due modelli si divaricano, si succedono o si giustappongono senza intrecciarsi armoniosamente; ci troviamo così in una scuola sempre più confusa e ambivalente, che non solo non rassicura e non guida, ma anzi a sua volta produce confusione. E scissioni e conflitti si amplificano quando ne restano coinvolte, come spesso accade, anche le famiglie.

In conclusione, non è mia intenzione asserire nulla, proponendo soluzioni, ma mi sembra doveroso seminare dubbi in coloro che, sia da addetti ai lavori sia da osservatori esterni o interessati, con ingenuità si siano fatti affascinare, ancora una volta, dall’illusione delle facili risposte. La cronaca ci insegna che l’introduzione nel codice penale dell’omicidio stradale non ha ridotto le stragi di giovani sulle strade. Allo stesso modo l’introduzione di vecchie o nuove pene nei regolamenti scolastici non risolverà le difficoltà di relazione all’interno della comunità scolastica. Anzi, rischia di diventare parte del problema, producendo un danno collaterale: si rischia di consolidarsi nell’esistente, mentre il disorientamento dei ragazzi e delle ragazze ci sfugge, perché siamo noi stessi disorientati.

Dovremmo riscoprire l’insegnamento, per dirla con Biesta, ammettendo questo limite, questa “ignoranza”. Se le voci più tuonanti a favore dell’insegnamento e del ruolo dell’insegnante si levano dai versanti più conservatori, vogliosi di ristabilire quell’ordine e quel controllo di cui difetterebbero la società e l’educazione contemporanea, l’alternativa non sta nella sconfitta dell’insegnante e nella fine della scuola, ma nella ricerca. E forse, bisogna guardare con maggiore attenzione al tema della “fiducia” nelle relazioni educative e nelle relazioni in generale. Come insegnanti sappiamo che non potremo mai essere completamente sicuri di come l’allievo agirà o reagirà a ciò che gli diamo o proponiamo, e sappiamo anche che ogni giorno compiamo nei suoi riguardi atti di fiducia che nascondono sempre un rischio, che è anche il riconoscimento della sua libertà. Fidandoci di lui gli lasciamo libertà e dischiudiamo quello spazio di incontro di cui il ragazzo ha bisogno, ma che è vitale anche per noi.

Allo stesso modo, spesso, noi insegnanti orientiamo le nostre azioni verso qualcosa che ancora non c’è, una soggettività dello studente che ancora non vediamo. E talora chiudiamo gli occhi di fronte a ciò che vediamo, ad esempio, alle sue mancanze: ma non è privandolo della nostra fiducia che otterremmo di più.
In tutti i discorsi sulla condotta degli ultimi tempi una cosa emerge con chiarezza: sono discorsi di adulti che si rivolgono ad altri adulti. Perché non capiscono, perché non si fidano più delle giovani generazioni. Eppure, come osservava Bernard Stiegler, è proprio l’educazione che fa le generazioni: esse non nascono come fatto anagrafico, ma si costruiscono nella trasmissione di ciò che si è conosciuto, si è imparato, di ciò a cui si è dato valore. Un passaggio di testimone, che altro non è che un atto di fiducia.

Note

[1] su "La Repubblica", 2 luglio 2023. 

[2] Mauro Palma, “Condotta, La dimensione sociale del comportamento” in Una scuola per la cittadinanza, a cura di Mario Ambel, ed. PM, 2020, pp.155-159

[3] il saggio di Biesta è recensito su insegnare: https://www.insegnareonline.com/rivista/oltre-lavagna/gert-biesta-riscoprire-insegnamento-2017-raffaello-cortina-milano-2022

 

Scrive...

Annamaria Palmieri Laureata in Lettere, collabora con la cattedra di letteratura italiana dell'Università Orientale di Napoli, già Presidente del Cidi Napoli e successivamente per due legislature Assessore all'Istruzione del Comune di Napoli; attualmente dirige un istituto professionale a Torino.

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