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18/09/2018

A vent'anni dallo "Statuto delle studentesse e degli studenti"

di Jacopo Rosatelli

Vent'anni fa, per l'esattezza il 13 agosto del 1998, entrava in vigore lo "Statuto delle studentesse e degli studenti della scuola secondaria" (Dpr 249/98). L'anno scolastico che si apre offre l'occasione per “celebrare” la ricorrenza, ragionando sulla validità e sulla effettiva “presenza” di quel testo oggi, quando molto da allora è cambiato, negli istituti e nel «mondo là fuori». E può risultare ancora più interessante farlo dopo esserci lasciati alle spalle un anno in cui a dominare la discussione pubblica sulla scuola è stato il tema delle violenze ai danni degli insegnanti, richiamato anche dal Presidente Sergio Mattarella nel suo discorso alla cerimonia di inaugurazione dell'anno scolastico tenutasi a Portoferraio. Violenze che, per alcuni commentatori delle cose di scuola, rappresentano la forma estrema di una perdità di autorità della figura docente imputabile, in buona sostanza, alla democratizzazione figlia (o nipote) del Sessantotto.

Il contesto in cui nacque lo Statuto, figlio di una storica rivendicazione delle organizzazioni studentesche, era la stagione riformista berlingueriana, con le sue luci (come questa norma) e le sue ombre. Lo Statuto s'inquadrava in un disegno più generale di riconoscimento della soggettività degli alunni, sia nel processo di apprendimento, sia nella partecipazione politica e sociale alla vita delle scuole superiori: mentre per via parlamentare si tentava di modificare la legge sugli Organi collegiali (cosa che, come si sa, non riuscì), il governo introduceva norme che disciplinavano l'apertura pomeridiana degli istituti per le attività di ragazze e ragazzi, creava le consulte provinciali e la giornata dell'arte studentesca. Lo Statuto fu la novità che fece più discutere, perchè spaventò la parte più conservatrice del corpo docente e non convinse del tutto i settori più politicizzati del mondo studentesco, che chiedevano una legge che parlasse solo di diritti, essendo i doveri impliciti e già ben noti a tutti.

Sarebbe interessante, vent'anni dopo, un'indagine che verifichi se e in che misura insegnanti e  allievi della secondaria di secondo grado conoscono tale norma. E quale sia il loro parere su quel che il testo afferma, e sulla distanza fra ciò e la realtà che vivono tutti i giorni. Lo Statuto prefigura (art.1, commi 2 e 3) una scuola come «comunità di dialogo (…) informata ai valori democratici», fondata sulla «qualità delle relazioni insegnante-studente», che punta a valorizzare «il senso di responsabilità» e «l'autonomia individuale» dei giovani in formazione, mirando al loro inserimento nella «vita attiva», che, come insegna Hannah Arendt, comprende non solo il lavoro, ma anche l'attività politica, l'essere appieno cittadini. Pochi cenni da cui si coglie già molto bene la differenza rispetto a una scuola gerarchica e passivizzante, orientata, per citare un recente articolo di questa rivista, «all'addestramento, adattivo e spesso acritico, alla realtà esistente» [1].

Ma non si tratta, come chi non lo conosce potrebbe supporre, di un testo meramente dichiarativo, a scarso tasso di normatività e avulso dalla concreta vita nelle aule. Si prenda la questione dell'apprendimento significativo. Lo Statuto indica (art. 2, comma 4) ai docenti (e ai dirigenti) che è loro compito attivare con gli studenti «un dialogo costruttivo sulle scelte di loro competenza in tema di programmazione e definizione degli obiettivi didattici, di organizzazione della scuola, di criteri di valutazione»: se le ragazze e i ragazzi sentono che il percorso che stanno facendo lo hanno «deciso insieme» al loro insegnante, comprendendo il perchè di contenuti, tempi, strumenti e verifiche, allora è più probabile che vadano incontro alle necessarie difficoltà e fatiche dell'apprendere con la voglia di affrontarle e superarle, non di eluderle. Una «co-decisione», sia chiaro, in cui non c'è alcun falso e sgangherato democraticismo che elimina le differenze di ruolo fra adulto-esperto e giovane: la competenza delle scelte è chiaramente in capo ai docenti, che hanno tuttavia l'obbligo di rendere partecipi alunni e alunne senza nascondersi dietro un comodo «tanto non possono capire».

E indicazioni, brevi ma preziose e concrete, sono fornite (ibidem) anche riguardo alla valutazione, oltre alla già evidenziata necessità di discuterne i criteri insieme ai destinatari della stessa. Deve essere non solo «trasparente e tempestiva», ma deve condurre lo studente ad «attivare un processo di autovalutazione che lo conduca ad individuare i propri punti di forza e di debolezza e a migliorare il proprio rendimento». Si noti: «punti di forza e di debolezza». Una prescrizione che va presa sul serio, nel senso che il docente deve saper trovare sempre negli alunni – e fare in modo che la ragazza e il ragazzo trovi in se stessa/o – dei punti di forza, anche quando il risultato della verifica risulta insufficiente. È una sfida non facile, ma, come tutti dovremmo sapere, il primo problema di molti studenti è la mancanza di autostima e di fiducia nei propri mezzi, è la resa di fronte a qualcosa che (di nuovo) «io tanto non posso capire».

Quando il riferimento al «dialogo» non è vissuto come mera enunciazione retorica, ma è compreso nel suo carattere impegnativo e, potremmo dire, fondativo della comunità scolastica, si riesce a mettere in relazione il discutere con il deliberare, le parole con le procedure, le voci con le regole. In sintesi: si dà corpo alla scuola democratica, nel senso più impegnativo dell'espressione, cioè quello di una scuola che educa alla democrazia nel governarsi democraticamente. Ben più e ben prima della (fondamentale) conoscenza della Costituzione e dei sistemi politici, deve essere la pratica quotidiana, sin dalle più «piccole» situazioni conflittuali in classe (fra studenti e fra docente e studenti), a far apprendere a ragazze e ragazzi che cosa è la democrazia, a fare di loro cittadini consapevoli. Una pratica democratica che ben poco ha a che fare con la mera legge del numero, in base alla quale la maggioranza (o chi è da essa delegato) può decidere quello che vuole, bensì che chiama in causa soprattutto «forme e limiti» del decidere democratico. La piena attuazione dello Statuto nelle parti in cui (art. 2 commi 4, 5, 9, 10) regola, in senso lato, la partecipazione di studentesse e studenti alla vita della scuola è, a tale scopo, necessaria e assai formativa. Così come è di grande importanza che l'intero capitolo connesso alla disciplina (artt. 4, 5 e 5bis) sia sempre tradotto in pratica in modo tale che i percorsi sanzionatori dei comportamenti scorretti siano occasioni di apprendimento di ciò che è lo ius puniendi in una democrazia costituzionale dei diritti, e non in una tirannide.

Se è vero che, come ha detto il presidente Mattarella alla cerimonia di inaugurazione dell'anno scolastico, «qualcosa si è inceppato», pur senza voler assecondare rappresentazioni allarmistiche e fuorvianti di un far-west che per fortuna non esiste, la risposta democratica e non-autoritaria alla «crisi della scuola» nel rapporto con gli adolescenti potrebbe partire dalle norme contenute nello Statuto. Senza illusioni, anzi: nella piena consapevolezza che gli strumenti di partecipazione ereditati dalla stagione dei decreti delegati sono arrugginiti, per usare un eufemismo. Ciononostante, a vent'anni dalla sua approvazione, ci sembra proprio questo il momento migliore, sfidando sia chi è prigioniero della disillusione sia chi sogna il «ritorno all'ordine», per «tornare allo Statuto».   

 

Note

1. M. Ambel, Ricominciare dal (senso di) vuoto, in "insegnare", 27.08.2018.

 

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A lato del titolo e qui in calce: la pagina de "La Stampa" del 30.05.1998 che annuncia l'approvazione dello "Statuto"

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Scrive...

Jacopo Rosatelli Insegnante di scuola secondaria di II°, collaboratore de "Il manifesto" e "L'Indice dei libri del mese".

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