Il rapporto complesso tra norma e scienza è un carattere tipico della nostra scuola. I dispositivi di legge che disciplinano l’insegnamento e l’apprendimento attingono dalla scienza pedagogica e, con le tipiche mediazioni della politica, offrono agli insegnanti indicazioni per il loro lavoro. Come questo attingere avvenga, è spesso oggetto di riflessione quando non di polemica, perché non raramente la politica cerca purtroppo di mediare al ribasso tra le acquisizioni delle scienze dell’apprendimento ed il senso comune. Emblematica a questo proposito è stata la reintroduzione del voto in decimi nel primo ciclo, che fu il frutto dell’accoglimento di istanze provenienti dalla cosiddetta opinione pubblica, che avrebbe visto nella valutazione descrittiva troppi elementi di soggettività ed ambiguità. Il voto in decimi avrebbe invece restituito alla valutazione quei caratteri di oggettività ingenuamente invocati dal senso comune.
In realtà occorre dire che la dialettica tra norma e scienza trova un suo “terzo”, che ne regola la dinamica, nel sapere professionale degli insegnanti, che è fatto di tante cose e che nel tempo ha acquisito una certa capacità di mediazione tra le direttive ministeriali, le proprie competenze scientifiche e l’esperienza a contatto con bambini e ragazzi. Il sapere professionale degli insegnanti davvero è un campo affascinante di ricerca, perché si presenta come un territorio variegato, abitato da intuizioni feconde, ma anche di misconcezioni, accomodamenti e false mitologie.
Un pregio dei dispositivi normativi è quello di rivelare lo stato della cultura professionale dei docenti, che dagli adempimenti è costretta a rivisitare se stessa. Per fare un esempio tra i più recenti, negli ultimi tempi si è fatta più insistente l’istanza della “trasversalità”, un tema caro ai legislatori europei e italiani da almeno un quarto di secolo, sul quale la ricerca pedagogica si è spesa parecchio, a giudicare dall’enorme spessore della bibliografia dedicata all’argomento. Quest’anno, in sede di colloquio riformato degli esami conclusivi del secondo ciclo, il tema ha trovato una sorta di stato di necessità, che si è poi tradotto in altre parole pragmatiche la più importante delle quali è apparsa “collegare”. Il trasversale si è tradotto nell’idea di collegamento, ed è qui che occorre fermarsi per cercare di capire non soltanto cosa sta dietro l’azione del collegare, ma quali azioni di insegnamento e di apprendimento essa richieda.
Collegare potrebbe essere definita una competenza. Dato un oggetto conoscitivo sono in grado di legarlo - in fondo è la logica del link - ad un altro. Questa sarebbe la vulgata che maggiormente si è resa visibile durante gli esami, fino al mito più grottesco che è circolato tra le commissioni: non dobbiamo fare domande. Ora, era difficile immaginare un colloquio senza domande. La normativa, infatti, era ben lungi da una simile boutade. Ma perché il mito ha attecchito? Forse proprio perché l’interpretazione del presunto spirito della norma ha portato molti insegnanti a pensare che il collegare non dovesse essere favorito dalle domande, ma “osservato” come competenza spontanea dell’allievo. Come dire, l’allievo trova lo spunto nella busta, prova a comprenderlo nel silenzio generale, e da questa comprensione si sposta a raggiera tra i saperi disciplinari compiendo, appunto, l’azione di collegamento.
Con tutta evidenza è avvenuto che soltanto una parte molto ridotta di allievi era in grado di esibire questa competenza, e certamente non sempre a fronte di una maggiore “bravura”, ma molto più spesso a fronte di un contenuto, presente nella busta, che forse meglio si prestava, per le conoscenze di cui era in possesso il ragazzo, al movimento tra le discipline. Oppure a fronte di una certa intraprendenza del candidato avallata dall’accondiscendenza di commissioni sonnolente (“l’importante è che parli….”). Non c’è chi non veda l’alea di questa situazione, a dispetto dell’equità retoricamente sbandierata da chi ha ideato il dispositivo. Proprio l’equità risultava essere bandita da tutta l’operazione, se si pensa quanto possano avere influito circostanze fortunose nella scelta delle buste. Al collegare faceva seguito molte volte il “passiamo a…”, col quale le commissioni liberavano il candidato dalla penosa navigazione in arcipelaghi privi di passerelle o di ponti.
Come che sia, è entrata potentemente in gioco per tutto il colloquio questa mitica capacità di collegamento, con tutto il suo corredo di misconcezioni ed equivoci di cui si nutre il sapere professionale dei docenti quando si ritrova a dover far qualcosa di inedito. Sì, perché la trasversalità resta sostanzialmente qualcosa di inedito nelle nostre scuole superiori, e non certamente perché gli insegnanti non ne riconoscano il valore. Il fatto è che per realizzare un bel piatto occorre anche conoscere a fondo non solo gli ingredienti, ma le loro modalità di reazione nel momento in cui chi cucina ne trasforma lo statuto singolo in qualcosa di più complesso che non è la loro somma, bensì un prodotto del tutto nuovo. Che mi piace qui considerare, fuor di metafora, simile a quello che succede ai saperi disciplinari (ingredienti) quando si trasformano in competenze culturali (piatto).
Come fa un piatto ad essere ben cucinato se il cuoco non ha cognizione seria da un lato delle caratteristiche degli ingredienti, dall’altro delle procedure più opportune perché essi producano quel risultato? Questa cognizione appare alquanto somigliante a quella dell’allievo, ma quella dell’allievo (apprendista cuoco) non può che svilupparsi esponendosi all’analoga competenza dell’insegnante, che quotidianamente in classe individua ingredienti “cucinabili”, anzi si impegna per renderli tali, affinché l’alunno sia capace di preparare il proprio piatto utilizzando ingredienti provenienti anche da altri campi del sapere. La creazione di mappe concettuali interne anche ad una singola disciplina è un buon allenamento in tal senso.
Quest’azione che produce un risultato complesso a partire da elementi semplici (che però come si vede necessitano anche loro di un trattamento) non può essere ridotta al banale “collegare”, perché è un’azione che deve costituire stile di insegnamento permanente e non può quindi presentarsi magicamente in un mattino afoso di luglio. Il colloquio di esame poteva rivelare la cultura professionale degli insegnanti e sollecitare i più sensibili a riflettere sulle ordinarie prassi di insegnamento, ma di per sé non poteva lasciar sperare più di quel che era lecito sperare: ovvero in un affannoso, talora pietoso, collegare pezzi di sapere-nozione più o meno galleggianti separatamente nella mente degli allievi. Ovviamente gli insegnanti più intelligenti, cioè la stragrande maggioranza, si sono ben guardati dal praticare il mito insensato del “non fare domande” e hanno tentato di compiere insieme all’allievo il faticoso cammino del collegare, fino ai limiti dell’incollegabile. E in questo si è lavorato, tra commissari interni ed esterni, come “colleghi”, nel cui etimo, appunto, sta proprio il collegare.
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Queste vicende recenti tutto sommato hanno avuto l’effetto di indurre qualche riflessione sul rapporto tra disciplinarità e trasversalità, che a mio modo di vedere é un rapporto circolare, in cui non c’è di fatto un primum logico, ma un intersecarsi reciprocamente a patto che sia il Trasversale che il Disciplinare non tradiscano se stessi. Cerco di spiegarmi.
Sul Trasversale, occorre distinguere ciò che è trasversale di fronte all’alunno, cioè culturale, da ciò che è trasversale come capacità dell’alunno di compiere alcune operazioni della mente. Questa distinzione può servire a collocare un altro mantra di questa stagione ministerial-didattica: la tematica. Non c’è scuola che non stia lavorando sulle tematiche. La tematica del "Potere", per fare un esempio, ricadrebbe nel primo tipo di trasversalità, e richiederebbe che l’alunno, attraverso i saperi disciplinari, abbia avuto modo di riflettervi su, ma anche questo “riflettervi su” chiamerebbe in causa il secondo tipo di trasversalità, di cui potrebbe far parte, ad esempio, la capacità di argomentare, tanto cara ai nostri legislatori. Argomentare vuol dire addurre argomenti e sostegni alle proprie riflessioni, ed è una competenza certamente trasversale perché attivabile in ogni campo disciplinare. Quindi occorre sempre cercare di capire quale delle due trasversalità si cerca di vedere nell’allievo e quale didattica occorre attivare affinché entrambi i tipi di trasversalità entrino in scena a costituire quella che, nei documenti normativi, circola come cittadinanza.
In realtà la vera questione non solo irrisolta ma neppure affrontata, capace di generare costrutti culturali seducenti come le “tematiche”, è quella della dimensione formativa delle discipline di insegnamento, della loro identità epistemologica, degli eventuali confini di quest’identità. Il che significa che occorrerebbe cercare di capire, in una disciplina di insegnamento, prima di annacquarla nella comoda casa senza porte della “tematica”, qual è la sua capacità di lettura del reale, cioè quali sono i suoi dispositivi metodologici, e quali sono i suoi contenuti caratterizzanti, o le sue abilità procedurali. Come si costruisce una casa senza stanze?
La disciplina, cioè, è chiamata ad un lavoro di analisi epistemologica, non tanto per vederne la capacità di produrre i famigerati collegamenti, quanto per saggiarne la potenzialità come campo di esperienza o di riflessione, di argomentazione, di conversazione o ancora di cooperazione. Prendiamo la letteratura. Nell’insegnarla le attenzioni possono essere molteplici. I contenuti sono quelli noti: correnti, autori, opere, ricezioni. Le abilità su quei contenuti sono anch’esse ben note, parafrasare, sequenzializzare, contestualizzare per dirne solo alcune. Quando poi come lettori ci spingiamo sui territori dell’interpretazione o dell’attualizzazione, è evidente che entriamo in uno spazio - sempre disciplinare ma dai confini più sfumati - più sofisticato, che intreccia elementi personali dell’allievo ed elementi di contenuto.
Insomma, si verifica qui un intreccio virtuoso tra la cultura del testo, la cultura del docente e la cultura dell’allievo, che rende la letteratura - come tutte le altre discipline - un dispositivo disponibile per argomentare, ipotizzare, inferire, contestare, contraddire, insomma per tutte quelle azioni che fatalmente non permettono più di distinguere il Trasversale dal Disciplinare ma soltanto a patto che entrambi, come si diceva, non abbiano tradito se stessi. E da tutto questo si potrebbe vedere, come si accennava prima, che non c’è una dipendenza lineare del Trasversale dal Disciplinare o viceversa. Il Trasversale appare l’approdo naturale di un Disciplinare che ha saputo destrutturarsi e sfumare i propri confini.
Alla luce di queste (necessariamente) fugaci note, se ne ricava che le disposizioni normative orientate alla trasversalità, che la cultura professionale dei docenti interpreta con l’allestimento delle tematiche oppure con l’azione del “collegare”, ben fanno a porla a fondamento della preparazione degli studenti in uscita, ma ben dovrebbero fare tutti coloro che ne sono in grado a produrre il massimo sforzo culturale e pedagogico affinché questa trasversalità predicata non si trasformi in una banale paccottiglia di collegamenti superficiali in cui prevale l’intraprendenza dell’allievo furbetto magari sulla profondità di un allievo che in quel preciso momento non riesce (magari perché paradossalmente è più bravo) a produrre insulsaggini culturali.
Alla faccia dell’equità.