Il recente questionario promosso dai CIDI di Torino, Palermo e Napoli [1] ci consegna una fotografia ampia e nitida del lavoro degli insegnanti italiani. Si tratta di un lavoro di ricerca prezioso, non solo per la qualità e la quantità dei dati, ma anche per la capacità di dare voce al mondo della scuola, ai suoi vissuti e alle sue fatiche e di restituire con chiarezza la complessità di una professione oggi attraversata da molte tensioni e allo stesso tempo la vivacità di una comunità che si interroga sul proprio senso.
Fra i tanti spunti che emergono, uno appare particolarmente interessante: la distinzione, spesso sfumata, tra performatività e professionalità. Mentre la performatività riguarda l’insieme di azioni e procedure che rendono visibile l’operato dell’insegnante (registrazioni, comunicazioni digitali, riunioni, modulistica, adempimenti), la professionalità si colloca nella dimensione più riflessiva, culturale e pedagogica del lavoro, che spesso non è immediatamente visibile, ma dà senso al fare quotidiano.
I dati dell’indagine mostrano come dal punto di vista del campione la sfera più delicata sia quella operativa. Le fonti di stress più segnalate riguardano infatti la burocrazia e la frammentazione delle comunicazioni, mentre gli aspetti legati alla relazione educativa e alla didattica sono percepiti come i più gratificanti. Se ad esempio si considera il tempo di lavoro extra-scolastico, dai dati relativi alla secondaria di secondo grado emerge un quadro abbastanza chiaro: oltre un terzo dei docenti dichiara di lavorare più di sedici ore al mese fuori aula, mentre quasi la metà del campione risponde di lavorare da casa tra le sette e le quindici ore mensili. Si tratta di tempi di lavoro irregolari, intrecciati alla vita quotidiana, difficili da definire e quantificare con precisione. Il lavoro fuori aula comprende attività molto diverse: dalla progettazione delle lezioni alla correzione dei compiti, dalla compilazione del registro elettronico alle riunioni online, dalla gestione delle comunicazioni con colleghi, genitori, segreteria e dirigente alla stesura di relazioni, dalla gestione di progetti e piattaforme all’organizzazione di uscite e iniziative extracurriculari. Un insieme di gesti, contatti, micro-azioni che spesso si confonde con la vita privata, e che raramente lascia spazio alla riflessione pedagogica. Quale parte di questo lavoro appartiene alla sfera della mera performatività e quale alla vera e propria professionalità? Molte attività sembrano appartenere alla prima, solo una parte, legata alla progettazione didattica, alla valutazione, allo studio e alla ricerca, rimanda alla professionalità intesa come riflessione e responsabilità pedagogica e culturale.
Forse la fatica che è espressa dagli insegnanti nasce da un vuoto di senso più che da un eccesso di compiti, e il vuoto di senso è generato dalla sovrapposizione di ciò che si fa per tenere in moto la macchina e ciò che si fa per crescere come professionisti. Se la professionalità non è valorizzata l’insegnante si percepisce come mero esecutore di procedure: la performatività prende il posto della professionalità.
Un elemento cruciale, in questo scenario, è il ruolo delle tecnologie. Se la condizione umana dei nostri tempi può essere definita onlife, per citare l’omonimo manifesto del 2014, l’introduzione massiccia di piattaforme e strumenti digitali ha ridefinito il tempo e lo spazio semiotico del lavoro docente, spesso confinato “in cloud”. Si è pensato che l’informatizzazione potesse migliorare la qualità del lavoro, ma la ricerca mostra un quadro più complesso: corsi di formazione poco efficaci, mancanza di tempo per acquisire competenze tecniche, sistemi che raramente dialogano tra loro. Ne deriva un sovraccarico di operazioni ripetitive e frustranti, che sottraggono energie alla parte più viva del mestiere. Il registro elettronico è un esempio emblematico: nato per semplificare e rendere trasparente il lavoro scolastico, si è trasformato in fonte di tensione e iper-controllo, spesso percepita come burocrazia digitale. La promessa di efficienza ha finito per generare una nuova forma di visibilità del lavoro, ma non necessariamente un suo riconoscimento più profondo. Questa digitalizzazione forzata si intreccia con un altro nodo: la frammentazione del lavoro e delle responsabilità.
Nelle scuole si osserva una differenza crescente tra chi si assume compiti di progettazione e organizzazione – spesso gravosi e scarsamente riconosciuti – e chi si limita al lavoro d’aula. La prima categoria vive un sovraccarico di incombenze vissute come adempimenti burocratici, più che come momenti di crescita professionale. Eppure, partecipare alle attività organizzative d’istituto offre un punto di vista privilegiato per comprendere i meccanismi sociali e culturali che regolano la vita scolastica pertanto andrebbe valorizzato come parte integrante della professionalità docente, non solo come un peso accessorio.
Questo quadro si colloca sullo sfondo di una condizione di instabilità sistemica. Le continue riforme scolastiche, spesso avviate senza essere portate a compimento, hanno prodotto disorientamento e sfiducia. Progetti nati con intenzioni innovative — come quello del “docente tutor” — sono stati ridimensionati o abbandonati, lasciando dietro di sé burocrazia e delusione. Questa discontinuità mina la motivazione e la fiducia dei docenti nelle istituzioni, e rende difficile costruire una cultura professionale condivisa. Il riconoscimento sociale della professione non è solo una questione economica, seppure importante. Esso dipende dal modo in cui il sistema valorizza la partecipazione degli insegnanti alla vita della scuola, alla progettazione e alla riflessione educativa. Rendere visibile e riconoscibile la parte silenziosa, riflessiva e meno performativa del lavoro docente significa restituire valore alla scuola come luogo di pensiero condiviso, non solo di prestazione.
La sfida che ci attende come comunità professionale è proprio questa: ritrovare, dentro la quotidianità dei gesti e delle scadenze, la consapevolezza che insegnare non è soltanto un mestiere da eseguire, ma una forma di responsabilità civile, un modo di pensare e trasformare il mondo.
*l'immagine a fianco è stata generata con un chatbot di IA.
[1] I risultati della ricerca si trovano sul sito nazionale del CIDI ; alcuni commenti sono stati pubblicati, a cura di L. Tremoloso, su questa rivista: "L'insegnante nella scuola italiana di oggi: un'indagine conoscitiva" (I parte e II parte)".