A fronte di una mole di dati estremamente articolata per la quantità delle domande e il numero di temi trattati, nell’indagine Cidi sul lavoro docente presentata lo scorso settembre, l’esame delle risposte è, per ovvi motivi, complesso e i piani di lettura spesso si intersecano tra loro.
Come abbiamo già ricordato nel precedente articolo, come prima lettura e prima restituzione - disponibile online- sono stati scelti alcuni temi generali: tempo di lavoro, rapporto tra tecnologia, burocrazia e collegialità, formazione e sviluppo professionale, stress e soddisfazione nel lavoro docente, ed infine l’organizzazione degli istituti, gli aspetti fisici e gli spazi didattici.
Gli approfondimenti, invece, che da questi possono essere sviluppati sono molteplici, dovuti alla possibilità di incrociare risposte date in aree diverse del questionario; essi permettono di entrare più in profondità nelle dimensioni indagate e offrire maggiori spunti di riflessione.
Innanzitutto, tuttavia, bisogna tenere conto di alcuni dati di riferimento generale.
L’età media degli insegnanti del campione di Torino corrisponde a circa 47,6 anni, un po’ più bassa rispetto all’universo di riferimento per Torino e Provincia che corrisponde (dati ministero 2023) a 50,1 anni.
Mentre l’età media del campione di Palermo corrisponde a circa 51,4 anni, dunque non si discosta molto dall’universo di riferimento Palermo e provincia che è di 52,7 anni.
Nel campione di Torino c’è una maggiore presenza maschile rispetto a Palermo: a
Torino 85,5% donne e 14,5 uomini; a Palermo 89 % donne e 11% uomini.
A Torino la fascia d’età anagrafica più numerosa corrisponde a quella che va dai 50 a 59 anni che corrisponde al 35% del campione, seguita da quella che va dai 40 ai 49 anni con una percentuale del 27,9%. Insieme il 62,9% del campione. A Palermo primeggiano le stesse fasce d’età anagrafica e nello stesso ordine con percentuali rispettive del 41,4% e del 31,5%. Insieme il 72,9%.
Infine a Torino il 79, 4% è su posto comune, il 18,9% è su posto di sostegno e l’1,6% è su posto di potenziamento.
Mentre a Palermo l’80,2% è su posto comune, il 19,4% è sul sostegno e lo 0,2 % sul potenziamento. Infine (Tab. 1) le percentuali di docenti per ordine di scuola:

I dati delle due colonne non sono perfettamente allineati. In modo particolare spicca la differenza percentuale tra i docenti della secondaria di I grado delle due città campione. C’è perciò da segnalare che i dati di Torino sono più in linea con l’universo di riferimento del Ministero per quel territorio.
Una delle domande, tra le tante che si possono porre ai dati, può essere la seguente: esiste una qualche relazione tra lo stress e l’ansia dichiarate dai docenti e l’organizzazione dello spazio didattico-educativo?
Questo contributo cercherà di indagare le dimensioni di quella che potremmo definire “assuefazione” al modello organizzativo del sistema-scuola per come ci è stato consegnato. Sostenuto dal dispositivo “disciplina/materia di studio” si è passati, in quasi un secolo di storia, da una cultura e società contadina, ad una cultura e società industriale, e ora ad una cultura e società digitale. Ma la sostanza organizzativa, l’unità di riferimento per l’insegnamento- apprendimento è rimasta l’aula, la classe e quel sempre più claustrofobico spazio-tempo che è l’ora di lezione sulla “materia di studio”.
Quello che ci preme esplorare è quanto questo venga avvertito.
Quali sono, per cominciare, le dimensioni del malessere degli insegnanti nel rapporto diretto con gli allievi nel lavoro in classe?
Nel questionario, per indagare i fattori di stress, è stata predisposta una tabella con una serie di voci di possibili cause. Le risposte dei docenti si sono aggregate percentualmente su alcune voci piuttosto che su altre.
Sono stati gli insegnanti stessi perciò a segnalare uniformemente che una delle cause principali dello stress e dell’ansia dei docenti- a Palermo la prima, a Torino la seconda, dopo la voce: “eccessivo carico di lavoro di tipo amministrativo/burocratico” - è risultata: “ la presenza di allievi difficili o con particolari necessità”.
Ed è risultata tale sia che:
Ad esempio, in merito al numero di anni di insegnamento si osserva che il problema viene segnalato da percentuali di docenti al di sopra del 50% per quasi tutte le fasce di anzianità lavorativa. Tranne alcune, solo di poco al di sotto (Tab. 2)

E’ interessare notare le differenze nelle due città. Torino con un picco di segnalazioni nella parte centrale; Palermo con un decremento della condizione man mano che si procede nell’anzianità di servizio.

In merito agli ordini di scuola (Tab. 3), si osservano le medesime percentuali. Infatti, non considerando la scuola dell’infanzia per le caratteristiche organizzative diverse, i dati segnalano la medesima condizione di sofferenza. Con una maggiore fatica nel I ciclo d’istruzione ed in particolare nella secondaria di I grado. Nella secondaria di II grado, il problema viene segnalato da 1 insegnante ogni 3 a Palermo, e poco al di sotto di 1 insegnante ogni 2 a Torino; comunque sono percentuali importanti.
Altrettanto interessante è analizzare il problema a partire dal contesto socio-culturale di riferimento.
A Torino (Graf. 1) , nelle scuole che accolgono allievi appartenenti a un contesto socio culturale alto/medio alto, gli insegnanti che segnalano di provare una condizione di ansia e stress corrispondono a quasi 1 insegnante ogni 2 (45,5%) . La percentuale di disagio cresce progressivamente nelle altre situazioni, fino a quasi 2 insegnanti su 3 (61,9%) nel contesto più problematico. Con una differenza di 16,4 punti percentuali tra i due contesti estremi.

A Palermo (Graf. 1) si parte da una condizione negativa per il 30% dei docenti del contesto alto/medio alto: circa 1 insegnante su 3 (30,6%). Tuttavia, il disagio cresce con una differenza di 14 punti percentuali per ogni contesto successivo e con una differenza di 36 punti percentuali tra l’ansia e lo stress espressa dai docenti del primo contesto socio-culturale e quelli dell’ultimo (66,7%). Probabile sintomo, rispetto a Torino, di una più forte selezione sociale tra i contesti cittadini.
Analizzare il problema dal punto di vista del contesto sembra orientare la riflessione e spinge a interrogare i dati su qualcosa di più generale. Infatti, sembra esserci sì, una correlazione forte tra povertà sociale ed educativa degli allievi e problematicità a scuola, ma essa è sostenuta anche da qualcosa di più complesso, se anche nei contesti socioculturali meno disagiati, se non privilegiati, ugualmente il problema si manifesta. Ciò significa che investe la scuola nel suo insieme.
Abbiamo, perciò, orientato la nostra analisi dei dati su un’altra domanda: quanto gli insegnanti sono consapevoli dei limiti che il modello didattico organizzativo impone e come analizzarli a partire dalle loro risposte?
Per cercare di rispondere abbiamo analizzato i dati in merito a tre aspetti che riguardano l’organizzazione della scuola:
Risposte che potrebbero significare: quanto la scuola è in grado di modificare la sua organizzazione strutturale per rispondere più efficacemente alle necessità educativo-formative che ha di fronte?
Per indagare i gradi di soddisfazione/insoddisfazione è stata utilizzata una scala da 1 a 5 , al fine di ottenere il gradiente della risposta. In fase di elaborazione, tuttavia, il valore intermedio 3 è stato considerato neutro. Espressione, cioè, di chi conferisce un certo peso al problema, ma al tempo stesso lo nega: non sa. Si è scelto, perciò, di mettere a confronto, per definire il trend delle risposte, solo i valori più marcatamente definiti.
Alla domanda: “qual è il grado di soddisfazione per la capacità della scuola di affrontare situazioni di devianza giovanile o disagio”, le risposte dell’intero campione (media di quelle di Torino e Palermo) sono riportate nella Tabella N° 4.

Le percentuali sono orientate verso l’assenza di feed back positivo per qualunque tipo di contesto e ciò fa supporre l’incapacità della scuola a rispondere a fenomeni di disagio degli allievi. Ovviamente questa incapacità viene più avvertita dove le contraddizioni sono più forti.
Ma è entrando più nel merito dell’organizzazione del modello didattico e delle sue inadeguatezze che si possono più facilmente proporre degli spunti di riflessione. Alla domanda, infatti, su come viene avvertita la disponibilità degli spazi laboratoriali emerge in modo abbastanza netto l’insoddisfazione dei docenti per la mancanza di tali spazi. E questo, per qualunque contesto socioculturale in cui è situata la scuola e sia a Torino, sia a Palermo, come si può facilmente osservare dai due grafici sotto riportati.


A Torino, mediamente e per qualunque contesto, la metà dei docenti è insoddisfatta degli spazi laboratoriali esistenti. Mentre, sempre mediamente, solo 1 di loro su 5 sostiene un alto grado di soddisfazione per lo stato attuale delle cose.
A Palermo, mediamente e per qualunque contesto, l’insoddisfazione è ancora più elevata. Si esprimono in tal modo quasi 2 insegnanti ogni 3 Mentre, sempre mediamente solo 1 di loro ogni 6 non lo è.
Gli stessi insegnanti, sempre in relazione al contesto socio-culturale di appartenenza del loro istituto, sono stati successivamente chiamati a esprimersi su quanto negativamente incida sulla qualità della scuola “l’insufficiente presenza di attività di recupero per studenti con risultati inadeguati” e in parallelo “ attività di sviluppo per studenti con risultati molto buoni” La scala di valutazione proposta comprendeva anche in questo caso i valori da 1 a 5. Con una rappresentazione, in questo caso, anche del valore intermedio.
I primi due grafici (Graf. 4 - Graf. 5) rappresentano la media dei valori per i diversi contesti (per non appesantire troppo il report) e sono entrambi relativi a Torino (il cui campione statistico è molto vicino all’universo dei docenti presenti sul territorio). Gli ultimi due (Graf.6 - Graf. 7) sono relativi a Palermo - anch’essi indicativi della media dei valori tra i diversi contesti.




Ciò che colpisce in tutti e quattro i casi è innanzitutto la tripartizione quasi equivalente delle aree - anche se nel grafico N° 6 e 7 relativi a Palermo tale equivalenza è meno marcata-. E’ come se gli insegnanti, al loro interno, pur vivendo le medesime situazioni esprimessero tre modi diversi di intendere il problema.
Il secondo dato che colpisce è il fatto che questa tripartizione tenda a ritenere - a Torino con qualche punto percentuale in più - tendenzialmente più grave l’assenza di attività da proporre a studenti con buoni risultati. Cioè per quelli più disponibili e più autonomi. Anche se il senso comune porterebbe a dire che questi ultimi sono quelli per i quali proporre attività in semi autonomia dovrebbe essere più semplice. A Palermo l’incidenza è seria in entrambi i casi. Non solo, tende a prevalere seppure di poco il problema del recupero. Ciò non toglie le perplessità rispetto ad una percentuale così alta per le carenti attività di potenziamento.
Un’ultima osservazione. I dati che abbiamo confrontato si riferiscono ai valori medi tra i diversi contesti socio-culturali. Ma qual è lo scarto percentuale tra i contesti estremi: il medio-alto/alto e quello con ceti sociali esposti a rischio di povertà e marginalità?
La tabella sotto riportata ( Tab 5) ne approfondisce l’analisi (grafici 4-7) mettendo a confronto tutte le voci dei contesti in esame, sia per l’insufficiente presenza di attività recupero che di potenziamento e per i campioni delle due città:

Nell’ultima colonna sono riportati i valori medi dei quattro contesti. Come si può notare lo scostamento dalla media per ciascuna voce dei due contesti ha una oscillazione sempre compresa tra pochi punti percentuali. Il fatto che contesti così diversi si esprimano con valori statisticamente così prossimi non può che significare che quello della mancata flessibilità del contesto educativo è un problema strutturale delle scuole dei due campioni di riferimento. E si suppone di tutte le scuole di questo Paese.
Un'indagine statistica è il tentativo di avere un qualche fermo immagine della realtà, generalmente sfocato e impreciso, ma utile per far emergere spunti per riflettere e ragionare insieme, per capirla meglio. Perciò, quello che proporremo in conclusione non sarà un ragionamento compiuto, quanto piuttosto un elenco di temi.
Vorremmo dirlo con chiarezza: pensiamo che non sia facile insegnare in una scuola che risente del disagio giovanile e lo subisce. Come ugualmente pensiamo che i bambini e i ragazzi non vadano a scuola per creare disagio ai docenti. Tuttavia, se si lavora in un ambiente che già da parte degli insegnanti si ritiene, in maggioranza, inadatto o inadeguato alla qualità del proprio lavoro - assenza di laboratori o di ambienti predisposti e limitata possibilità di dare risposte adeguate alle problematiche portate dagli allievi - , è chiaro che l’effetto sarà di convivere con gli stessi in uno spazio pensato più come costrittivo che inclusivo. E che l’inclusione venga meno. E questo dovrebbe essere un primo spunto per riflettere.
La riflessione, tuttavia, dovrebbe continuare da un punto di vista che potrebbe essere definito introspettivo con alcune premesse di consapevolezza:
Occorre considerare un po’ criticamente la dimensione storica del modello spazio -temporale comunicativo e perlopiù monodirezionale a disposizione per l’attività di istruzione, educazione e formazione.
Nonostante i cambiamenti socio-culturali avvenuti nel tempo, con l’esplosione progressiva della comunicazione, delle fonti, delle forme, delle finalità e modalità di coinvolgimento, ma anche di isolamento, la scuola rimane fissa affidata ad un unico attore, stressato anche dal lavoro burocratico e che deve gestire uno spazio-tempo rigido..
La ricetta che da più parti si sbandiera è quella del potere salvifico della tecnologia vista come strumento che dovrebbe permettere a chiunque di essere guidato a riconoscere e sviluppare i propri interessi e le proprie potenzialità. Niente di più ingannevole. C’è bisogno di realtà, di interesse alle cose concrete, di tempo e di lavoro passato a scoprire a interrogarsi in comune e di confronto sulle idee, sulle scoperte, sulle conoscenze.
Ma non bisogna nemmeno demonizzarla, la tecnologia. La cultura digitale è un frutto umano e porta mescolato tutto ciò che l’umano è: bene e male insieme. Se tuttavia c’è qualcosa che ha fatto emergere - seppure nella sua componente più malefica - è che le persone, di qualunque età, amano sentirsi coinvolte, considerate, che la loro opinione ha valore. A questo sono pronte a dedicare tutto il tempo che possono. Potrebbe essere una bussola anche per la scuola?
Infine, la dimensione politica insita nella professione.
Chi può immaginare, progettare e sperimentare una scuola adatta ai tempi? Il ministero? La pletora di burocrati che gli sta dietro? Le emanazioni territoriali di questi?
Solo gli insegnanti con il supporto di altri professionisti attenti, pedagogisti, architetti, psicologi dell’età evolutiva ecc., possono cominciare ad immaginare e sperimentare, per se stessi e i propri allievi, e provare a costruire e a pretendere una scuola nuova.
Diranno che non ci sono risorse, è sicuro. Ma il 5% del PIL per le armi l’hanno subito deliberato. Le risorse sono state subito immaginate, non è così? Quindi è una questione di scelta ed è una scelta politica. Perché questa è la consapevolezza più grande che gli insegnanti dovrebbero possedere: che il loro non è un lavoro neutro, lavorano per le nuove generazioni e per il loro futuro. Quel mondo che non c’è ancora, che per essere meno terribile ha bisogno di scelte fatte ora. Gli insegnanti hanno la responsabilità prima di tutto politica di pretendere il rispetto per chi vivrà in quel futuro. Uno per uno. E quindi anche per se stessi.
*l'immagine a fianco è creata con un chatbot generatore di immagini con IA.