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14/11/2021

Il ruolo del mondo naturale nell’istruzione scolastica

di M. Gloria Calì - Angela Caruso

Esiste una relazione intensa e imprescindibile tra la natura e l’uomo.

La società contemporanea ha costruito un immaginario fatto di respiri corti, di ambienti affollati, di spazi trafficati e fortemente urbanizzati; tutti fattori altamente stressanti. Si inizia a parlare, perciò, di “sindrome del distacco dalla natura”. Trascorrere poco tempo a contatto con la natura causa una serie di alterazioni fisiologiche e comportamentali: riduzione dell’uso dei sensi (in particolare dell’olfatto e del tatto), difficoltà attentive, iperattività, stanchezza, motivazione scarsa ecc.

Nell’adulto si genera un’assuefazione, fino a sfociare nella dipendenza alla vita urbana, mentre nell’infanzia e nell'adolescenza le conseguenze di questa vita in un mondo totalmente artificiale sono più pesanti ed evidenti. Non a caso in Giappone si pratica lo Shinrin-yoku - il “Bagno nel Bosco” - ovvero un’immersione totale nella natura, considerata sacra, fonte di ogni benessere. I Samurai si sedevano a meditare davanti ai giardini Zen prima di una battaglia, per controllare la paura e incanalare la forza e il coraggio.

È provato che la relazione con la natura aumenta la produzione di endorfine: osservare un paesaggio, esporsi al sole, vivere gli odori, i colori e le forme della natura dissolve le tensioni e genera una profonda sensazione di benessere.

Per tutte queste ragioni è necessaria una riflessione sul ruolo del mondo naturale nel sistema di istruzione: va indagato cosa può fare la natura per la scuola e cosa può fare la scuola per la natura, ben oltre le giornate commemorative e i progetti a tempo.

Partendo dal presupposto che la scuola è lo specchio della società (e viceversa), la fotografia che ci appare è sfocata, e con personaggi disorientati. Bambini e ragazzi ricevono dalla società un’enorme quantità di nozioni: veloci ma disordinate, superficiali, come le sequenze di un video. Proprio quei tanti video che i ragazzi sono abituati a vedere ripetutamente, per un tempo incontrollato, li inducono a un atteggiamento passivo, accompagnato da un illusorio senso di sicurezza e di esaltazione artificiale.

Tutto questo va in contrapposizione con i tempi lunghissimi dell’evoluzione umana: il nostro cervello non è “formattato” per sostenere cambiamenti così repentini, sicché il risultato è quello del disorientamento e della paura.

La lentezza, il prendersi tempo, è diventato un privilegio, anche nella scuola e nella didattica quotidiana. All’organizzazione scolastica è richiesto di adeguarsi e di raggiungere risultati convulsi.

Come nelle aziende più solidamente strutturate si cercano processi efficienti e risultati immediati; tra gli insegnanti, ci sono coloro che si costruiscono uno stile professionale apparentemente coerente con questa rapidità, risultando poco incisivi in termini di apprendimenti significativi; altri, invece, sentono una pressione forte, soverchiante, e un profondo senso di inadeguatezza. Il tempo per formarsi, ricercare, confrontarsi, riflettere, sperimentare, manca o è deludente, perché le energie sono canalizzate verso un modus operandi troppo lontano da tempi di insegnamento/apprendimento più umani.  

Anche la scuola ha quindi bisogno di un ritorno alla natura, ai suoi tempi, ai suoi spazi, alle dimensioni essenziali che le consentirebbero di tornare al senso del suo mandato: il successo formativo dei ragazzi, vera linfa della comunità scolastica e civica.

Si sta perdendo di vista l’alunno nella sua complessità, la qualità della didattica, la riflessività nella progettazione, la pedagogia della risoluzione, perché richiedono tempi necessariamente distesi.

La perdita di contatto tra la scuola e la natura, intesa anche come naturalità dei tempi di costruzione di sé e della definizione del proprio ruolo nella società, produce due generi di distacco culturale tra apprendenti e insegnanti: la canalizzazione delle sensibilità in azioni e spazi esterni alla scuola, come avviene per i movimenti giovanili di protesta sulle tematiche ambientali, oppure la fuga in universi iper-urbanizzati e dis-umanizzati.

La scuola dovrebbe perciò presto riappropriarsi dei tempi e degli spazi di natura per determinare in sé quelle condizioni favorevoli agli apprendimenti e alla coscienza di sé; ciò, ovviamente, non può avvenire se le scuole si tecnologizzano come sale giochi, e nemmeno se si irrigidiscono come erogatori asettici di contenuti insignificanti. Occorre una scuola-laboratorio che aiuti allievi e allieve a riposizionarsi in equilibrio dinamico rispetto alla propria umanità,  una didattica animata che parta dagli spazi di riflessione e ricerca comune dei docenti, per arrivare ad un tempo di apprendimento disteso e attivo quanto serve. 

Per lungo tempo la cultura occidentale ha esercitato un resistente dualismo mente-corpo; oggi sappiamo che l’apprendimento è radicato nel corpo, nel movimento, nell’agire, nel “imparare facendo”. La seconda delle 10 tesi dell’educazione linguistica democratica, quasi 50 anni fa, affermava opportunamente: “dati i molti legami con la vita individuale e sociale, è ovvio (ma forse non inutile) affermare che lo sviluppo delle capacità linguistiche affonda le sue radici nello sviluppo di tutt’intero l’essere umano, dall’età infantile all’età adulta, e cioè nelle possibilità di crescita psicomotoria e di socializzazione, nell’equilibrio dei rapporti affettivi, nell’accendersi e maturarsi di interessi intellettuali e di partecipazione alla vita di una cultura e comunità. E, prima ancora che da tutto ciò, lo sviluppo delle capacità linguistiche dipende da un buono sviluppo organico e, per dirla più chiaramente, da una buona alimentazione”.

La presenza della natura nel pensiero progettuale scolastico ricostituisce questa integrità della persona, restituendo agli apprendenti (ma anche ai docenti…) il senso del percorso oltre che del risultato, il corretto rapporto tra fine e mezzo, il tempo disteso e il senso di sé come parte attiva e responsabile di un sistema complesso e per certi aspetti fragile. 

Questo non vuol dire accompagnare i bambini nella natura (che senz’altro è sempre un’ottima idea), fare il progetto (magari extracurricolare). Lavorare nella natura, o “con” la natura, significa realizzare un tratto di curricolo, poiché la natura non ha una sua autonoma forza culturale: è a scuola che si apprendono gli strumenti per l’analisi, la descrizione, il pensiero, la lettura e l’espressione delle risonanze individuali rispetto ad essa. Ribaltando il punto di vista, qualunque percorso di conoscenza della natura che non sia realizzato attraverso l’educazione all’osservazione e all’ascolto, attraverso un contributo personale di riflessione, di condivisione e, perché no, anche di emozione, si riduce alla riproduzione di una cartolina, nel migliore dei casi, o alla banalizzazione degli slogan di tensione etica, nel peggiore dei casi.

La costruzione di una “competenza ecologica”, in sintesi, passa attraverso un processo di crescita culturale ampio e continuo, dentro la scuola, che ha nel curricolo delle discipline il suo strumento necessario e sufficiente per realizzare questo profilo.

Nonostante la grande attenzione rumorosa e istituzionalizzata che si riserva alle tematiche di salvaguardia della natura, riguadagnare un terreno di ricerca didattica curricolare su di essa consentirebbe di tracciare percorsi significativi per gli allievi e le allieve, di tutte le età; al di là del battage mediatico, il vero problema della sopravvivenza del genere umano può essere affrontato adeguatamente solo se si costruisce, a scuola, una competenza culturale che consenta a coloro che diventeranno presto cittadini e cittadine di prendersi cura del pianeta con l’intenzionalità e la responsabilità che nascono dall’avere acquisito efficienti strumenti culturali.


Bibliografia

 

Bruno R.T., “Educare al pensiero ecologico,” TopiPittori, 2020
Calì M.G., “Il paesaggio attraverso le discipline”, "insegnare", marzo 2021
Caruso, A. “Geografia e cittadinanza”, “insegnare”, novembre 2020, 
Giorda C., Puttilli M. (a cura di), “Educare al territorio, educare il territorio. Geografia per la formazione”, Roma, Carocci, 2011.
Malatesta S., “Geografia dei bambini. Luoghi, pratiche, rappresentazioni,” Milano, Guerini Scientifica, 2015.
MIUR, "Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione", Roma 2012.
MontessoriI M., “La scoperta del bambino”, Milano, Garzanti, 1950.


Immagine a lato del titolo© insegnare, 21

Scrive...

Angela Caruso Docente nella scuola secondaria di primo grado e dottore di ricerca in "Studi Umanistici" presso l'Università degli Studi "G. d'Annunzio". Membro direttivo del CIDI di Pescara. Redattrice di Insegnare.

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