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fuori dai dentiscuola e cittadinanza

07/02/2025

Competenze culturali di cittadinanza a scuola: certi discorsi dei politici contemporanei.

di M. Gloria Calì

Quando un insegnante crede nel valore educativo del sapere scolastico, non può prescindere dall’informazione sui fatti di cronaca, nazionale ed internazionale. Non tutta e non sempre la cronaca va portata nelle classi, naturalmente, ma il dovere professionale essenziale sta anzitutto nell’avere uno sguardo ampio sulla realtà nella quale si svolge l’azione educativa, affinché questa non sia una trasmissione di informazioni, ma un processo di costruzione delle competenze culturali di cittadinanza.
L’attività didattica, in questa prospettiva, attraverso saperi e strumenti, costruisce quel percorso che dovrebbe portare alunne e alunni a “saper stare al mondo”; l’espressione sintetizza ciò che c’è scritto nelle vigenti “Indicazioni Nazionali per il primo ciclo”:

"[L’alunno] utilizza gli strumenti di conoscenza per comprendere se stesso e gli altri, per riconoscere ed apprezzare le diverse identità, le tradizioni culturali e religiose, in un’ottica di dialogo e di rispetto reciproco. Interpreta i sistemi simbolici e culturali della società, orienta le proprie scelte in modo consapevole, rispetta le regole condivise, collabora con gli altri per la costruzione del bene comune esprimendo le proprie personali opinioni e sensibilità. Si impegna per portare a compimento il lavoro iniziato da solo o insieme ad altri.
Dimostra una padronanza della lingua italiana tale da consentirgli di comprendere enunciati e testi di una certa complessità, di esprimere le proprie idee, di adottare un registro linguistico appropriato alle diverse situazioni."

Il contatto costante e consapevole con l’attualità è connesso, inoltre, con il fatto che l’insegnante appartiene ad un’istituzione pubblica; non si lavora, quindi, per un ente privato di cultura, ma per la Costituzione, da cui discende l’esistenza e la finalità essenziale della scuola pubblica.
Chi insegna, quindi, è parte di un sistema istituzionale col quale, con irredimibile ingenuità, chi scrive, e molti altri e molte altre, ci aspettiamo di condividere la stessa attenzione alla persona, alla relazione, alla democrazia. Al valore pedagogico delle azioni pubbliche.
Il c.d. “caso Almasri” è uno di quelli in cui i movimenti delle istituzioni  “fanno cultura”, cioè alimentano modi di pensare e di agire.

Per seguire la vicenda con un’operazione  “filologica”, vanno ascoltati i discorsi dei ministri Nordio e Piantedosi, che sono intervenuti in Parlamento [1] il 5 Febbraio. Come facciamo nelle classi, quando ascoltiamo o leggiamo i discorsi dei personaggi storici in momenti cruciali della vita delle comunità. Da Martin Luther King a Nelson Mandela , passando per Giacomo Matteotti  e gli interventi in Assemblea Costituente dei Padri e della Madri della Repubblica, i discorsi politici, opportunamente scelti per le classi a cui sono destinati, diventano materia essenziale per un articolato orizzonte di competenze culturali: la comprensione e la produzione di un testo complesso, con tratti espositivi e argomentativi talvolta difficili da distinguere; l’analisi di fonti storiche testuali primarie per la ricostruzione dei fatti e della loro interpretazione.

I discorsi dei ministri di oggi, in Parlamento, sono anch’essi un ottimo esempio… al contrario.
Pur non avendo competenze in materia di diritto, ma solo (limitatamente, per altro) di comunicazione in lingua italiana, facciamo qui alcune considerazioni sulla struttura argomentativa degli interventi, sulle scelte lessicali e stilistiche, sul valore informativo dei due messaggi. Ricordiamo, infatti, che i due ministri sono stati chiamati in Parlamento per informare direttamente chi siede lì sullo svolgimento e sulla motivazione di una sequenza di fatti: arresto-scarcerazione-rimpatrio di Almasri. La personalità di quest’uomo, elemento di spicco del sistema inumano di detenzione in Libia, conferisce a questa vicenda un potenziale educativo: i diritti umani, per chi li riconosce tali, sul nostro territorio e in tutto il mondo, sono principio e fine di ogni iniziativa giuridica, politica, culturale, civile.


Gli interventi dei due ministri sembrano molto simili nell’impianto: una parte iniziale, prevalente anche in termini di tempi, è stata dedicata alla puntuale elencazione di atti e fatti che hanno chiarito tutto ciò che i due ministri hanno compiuto nell’esercizio delle reciproche prerogative, con una precisione estrema, che si spinge fino ad elencare persino la progressione oraria dei passaggi. Questo elenco così preciso è fornito con dovizia di lessico specialistico, da prefetto (quella lingua da verbale che ricorda vagamente il commissariato di Vigàta) e da magistrato di raffinata cultura giuridica (la mente corre subito al più famoso degli avvocati letterari, l’Azzeccagarbugli che parla proprio per non farsi capire).
Da parte di chi ascolta e ha una competenza linguistica bassa o media, questo livello di dettaglio potrebbe sortire un doppio effetto: ammirazione perché “quello lì sa tutto”, con il contraccolpo del sentimento di inferiorità; noia, diffidenza o stizza perché “parla difficile e non si capisce niente”.
Sapendo che il discorso è trasmesso in diretta, l’obiettivo del messaggio è duplice: comunicare sia all’assemblea parlamentare sia alla cittadinanza; questo secondo target avrebbe dovuto determinare la chiarezza dell’enunciato, non l’astrusità.

Il ministro dell’interno conclude il suo intervento richiamando un “topos” retorico ricorrente nella comunicazione governativa come gli epiteti di Zeus nell’Odissea: la difesa della sicurezza nazionale. Chi entra in questo programma di protezione, dovrebbe sapere, anzitutto, quale pericolo lo minaccia, cioè la ragione di questa “difesa”, per poi valutare se questo termine sia appropriato. Personalmente, da decenni vedo arrivare in Italia persone piegate nell’animo e piagate nel corpo dopo aver incontrato in NordAfrica persone come Almasri. L’unico confine che queste persone non dovrebbero mai varcare è quello tra la dignità e l’umiliazione, tra la vita e la morte, attraversando il Mediterraneo.

La seconda parte del discorso del ministro Nordio, invece, ha una potenza di fuoco non indifferente. Prima aveva rivendicato con chiarezza la sua decisione “politica”, perché lui non è un “passacarte”; nota bene: la “carta” che gli era stata passata proveniva dalla Corte Penale Internazionale, non dal consiglio direttivo del dopolavoro ferroviario.
La sua decisione “politica” è stata dettata, dice, da un’incongruenza in queste “carte” sui tempi in cui il soggetto aveva commesso i reati che gli vengono attribuiti: è indispensabile stabilire se il soggetto ha commesso abusi, torture per questo o quest’altro numero di anni; nel frattempo, lo mandiamo a continuare il suo lavoro.
Con un climax ascendente evidente, il ministro si avvia alla conclusione aggredendo tutta la contestazione che si è sollevata dopo la scarcerazione di Almasri: l’opposizione politica, tacciata di “aggressività”, anzitutto. Anche qua si ritrova uno stilema comunicativo e comportamentale della maggioranza al governo: qualsiasi contestazione non è confutata perchè si è forti di una linea di azione onesta e coerente con i fini istituzionali, ma si stigmatizza in quanto modalità inopportuna, di disturbo rispetto alla libertà assoluta che dovrebbe essere garantita a chi comanda.
In classe, insegniamo che la democrazia è frutto di negoziazione costante tra istanze, che, tutte, vanno ascoltate e composte in un quadro di relazioni ed equilibri d’insieme.
Ma dove il discorso del ministro tocca il suo apice retorico, sinistramente direi, è nell’attacco ai magistrati, suoi ex colleghi. Parte dalla citazione di “un magistrato”, omettendo il nome per rendere ancora più chiaro il riferimento al procuratore capo di Napoli, accenna quindi alle proteste unanimi contro la separazione delle carriere, e usa infine espressioni come “non si può perdonare” e “riforma finale”. Qui il messaggio è chiarissimo: niente “giuridichese”, niente “latinorum”: ho ragione io perché comando io, e voi pagherete questa insubordinazione.

In quella stessa aula romana, una volta un parlamentare ha concluso un suo tumultuoso discorso dicendo: “Noi difendiamo la libera sovranità del popolo italiano al quale mandiamo il più alto saluto e crediamo di rivendicarne la dignità”. Lui, che usava la parola “nazione”, senza farne strumento di brutalità, si chiamava Giacomo Matteotti, ed è stato ammazzato poco dopo quel discorso.
La dignità del popolo italiano e di ogni persona, oggi, a 100 anni dal tempo di Matteotti, è ancora in discussione e l’aula, scolastica o parlamentare, è il luogo dove consolidarla e accrescerla.

 

Note 

[1] Gli interventi possono essere seguiti ai seguenti link: https://youtu.be/UMqs7Bx3-LI?si=sevFWaKcjgL2VlKK e https://youtu.be/E-Yi4xqJTL0?si=z3gsH37D72u_y0Ou

 

Scrive...

M. Gloria Calì Insegnante di lettere alla media da oltre 20 anni, si occupa di curricolo, discipline, trasversalità, con particolare attenzione alle questioni della didattica del paesaggio. Direttrice di "insegnare".

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