Un bambino molto dotato nel disegno partecipa a un concorso. Gli viene chiesto di raffigurare un gorilla: lui lo colora di giallo. La sua creatività non viene premiata, ma respinta: i gorilla, gli dicono, non sono gialli. Questo ricordo d’infanzia, che Simohamed Kaabour racconta in Sono italiano, lo giuro (People), diventa una chiave di lettura del libro, in cui l’autore intreccia la propria storia personale con una riflessione profonda sull’Italia di oggi.
Il gorilla giallo non è soltanto un episodio personale, ma la metafora di una società che fatica a immaginare ciò che non rientra nei suoi parametri. Una società che respinge la diversità perché non riconosce ciò che non ha previsto. Lo stesso schema si ripete anni dopo, quando quel bambino, ormai adolescente a Genova, si vede negata un’esperienza di studio all’estero per studenti meritevoli: i compagni e le compagne partono, lui invece viene fermato ai controlli perché il suo passaporto è “verde” e non “rosso”.
Ed è proprio da qui che nasce il cuore del libro. Sono italiano, lo giuro non è solo un memoir: è un atto poetico e politico insieme, un gesto di immaginazione collettiva. “Perché senza immaginazione non c’è futuro”. La narrazione di Simohamed Kaabour non si limita a denunciare barriere e ingiustizie, ma apre possibilità, mostrando un’Italia plurale che già esiste e che deve solo imparare a guardarsi allo specchio.
La lingua è uno dei terreni in cui questo processo si compie con maggiore evidenza. Per l’autore, l’italiano non è stato semplicemente un codice da apprendere, ma una pelle nuova, capace di trasformare carattere e visione del mondo. Dall’arabo diretto e franco a un italiano “mezzo gentile”, che addolcisce i rapporti e ridisegna persino il rapporto con il tempo. Non è un’esperienza privata: è l’immagine di ciò che accade quando una società accoglie nuove lingue e nuovi sguardi. Diventa più ricca, più complessa, più capace di futuro.
L’ironia attraversa il libro non come semplice alleggerimento del racconto, ma come strumento consapevole con cui l’autore scardina stereotipi e ribalta prospettive. Memorabile l’esperienza Erasmus a Nizza: Simohamed Kaabour, che in Italia era stato visto sempre e solo come “il marocchino”, diventa improvvisamente “l’italiano” agli occhi dei francesi. A incarnare questa italianità sono proprio gli stereotipi più comuni, il sugo preparato per gli amici, le discussioni sulla pasta, persino il tifo calcistico. Con leggerezza e humour, l’autore li assume e li restituisce come parte della sua identità, mostrando quanto siano fragili e mutevoli i confini che pretendono di definire chi siamo.
Il giuramento di cittadinanza è la scena che dà il titolo al libro e ne racchiude la portata politica e simbolica. In un ufficio spoglio, accolto da un impiegato con addosso una maglia tempestata di peli di gatto, Kaabour pronuncia parole che non creano un legame nuovo, ma lo rendono finalmente pubblico. Lo descrive come dire “mamma” per la prima volta: l’inizio di un dialogo autentico. La cittadinanza, in questa prospettiva, non è mera burocrazia, ma un atto di nascita collettivo.
In un Paese che ancora discute di riforma della cittadinanza, mentre migliaia di giovani cresciuti in Italia attendono di essere riconosciuti, Sono italiano, lo giuro ci ricorda che negare significa spegnere sogni e impoverire tutti e tutte, mentre riconoscere significa liberare futuro. È lo sguardo di un autore che racconta di sé, ma insieme parla per una generazione. Kaabour la chiama “progenie eccentrica”: nuove generazioni cresciute tra radici e orizzonti, capaci di rigenerare l’Italia nella loro pluralità.
Questo libro ci interroga e ci mette di fronte a una scelta: vogliamo un Paese che respinge o un Paese che fiorisce? Vogliamo continuare a chiuderci nella paura o aprire orizzonti? Forse la risposta sta proprio in un gesto semplice e radicale: avere il coraggio di colorare un gorilla di giallo.