Home - la rivista - oltre la lavagna - Una scuola come diritto e non come “gentile concessione” dello Stato ai cittadini

iniziative e incontrioltre la lavagna

05/10/2023

Una scuola come diritto e non come “gentile concessione” dello Stato ai cittadini

di Lorella Villa
La grande manifestazione nazionale indetta dalla CGIL per il 7 Ottobre 2023 si intitola "La via maestra" e intende seguire le piste della Costituzione come percorso comune per tutt* coloro che si riconoscono in una rinnovata, decisa, stagione di battaglie per i diritti a fondamento dello stato democratico. 
L'iniziativa, a cui hanno aderito alcuni CIDI territoriali sulle tematiche connesse con la scuola pubblica, è stata preceduta da iniziative di preparazione e riflessione condivisa, per ritrovare le ragioni e le prospettive di un riposizionamento netto sui valori costituzionali. 

Negli ultimi decenni la scuola è stata oggetto di politiche di decurtazione dei fondi che conosciamo e delle quali ora constatiamo le devastanti conseguenze.

Meno percepibile forse è la portata tragica del processo riformatore che ne ha sfarinato e sgranato il tessuto pubblico che la scuola costruisce o dovrebbe costruire; il suo fine Politico, infatti, è stato progressivamente annacquato, riducendola, quando va bene, ad un servizio quasi elargito, concesso dallo Stato ai cittadini e alle cittadine.

Le riforme degli ultimi 20 anni hanno snaturato il fine che la Costituzione affida alla scuola pubblica: quello di essere il primo strumento in grado di rimuovere gli ostacoli alla piena realizzazione di sé, di essere presidio di uguaglianza e democrazia, lasciando che si affermasse, invece, un modello di scuola  “pubblica” perché di proprietà dello Stato, al servizio delle politiche degli Esecutivi, e non “pubblica” perché di ciascun componente della società democratica - come dovrebbe essere. Abbiamo avuto così prima la Legge sull’autonomia scolastica che, profondamente fraintesa, ha ingolfato le istituzioni scolastiche a livello burocratico fino a saturarle e soprattutto ha manifestato da subito, specie nei centri urbani più grandi e nella scuola secondaria di secondo grado, una pericolosissima deriva di autoreferenzialità che ha messo gli istituti in competizione tra loro, in una lotta all’ultimo iscritto, pena la perdita dell’autonomia. Una deriva ancora più pericolosa ora che si stanno attuando altri dimensionamenti che cancelleranno centinaia di scuole, specie nei paesi delle aree interne. 

Abbiamo avuto poi la Legge sulla Buona scuola che ha immesso nel sistema una logica sempre più sfrenata nel senso della prestazione e della sua misurazione. Le logiche del mercato e del capitalismo infatti vogliono che quello che non si può misurare non abbia valore. Non c’è governo in questi anni che non abbia ritoccato il sistema di valutazione di uno degli ordini scolastici, o non abbia riformato l’Esame di Stato della secondaria di Secondo grado. L’INVALSI con il suo annuale strascico di polemiche ha assunto l’importanza dei Sacri Penati, egemonizzando buona parte del discorso pubblico sulla scuola: si narra che la scuola italiana non funziona perché le prove Invalsi dicono che non va bene, non perché registra tassi di abbandono e dispersione altissimi, approfondendo progressivamente le condizioni dispari di partenza delle persone in apprendimento.

Altro aspetto pernicioso introdotto dalla Legge sulla Buona Scuola è il connubio sempre più stretto tra scuola e mondo del lavoro. Anzi no: mondo dell’impresa. Con quella legge è stata introdotta l’alternanza scuola lavoro, oggi PCTO. Ma anche in questo caso tutta l’enfasi è sulla prestazione. I nostri ragazzi e le nostre ragazze vanno per qualche giorno in un’azienda a imparare i rudimenti del mestiere, o almeno così si proclama, ma sappiamo benissimo che in molti casi così non è. Tornano in classe e io chiedo loro: “vi hanno fatto vedere il contratto del comparto?” “No, prof.” “Qualcuno vi ha detto che esistono le organizzazioni sindacali, le rappresentanze dei lavoratori e delle lavoratrici?”

 Mi guardano con uno sguardo significativamente pieno di punti interrogativi. Qualche tempo fa un ragazzo di 18 anni mi ha chiesto se la Camera del Lavoro fosse l’ufficio di collocamento…. Ecco eppure si ha la pretesa di dire che i nostri ragazzi e le nostre ragazze possono così conoscere in anticipo il mondo del lavoro. Conoscono solo il mondo dell’impresa, della prestazione in realtà e iniziano a incamerare molto presto l’idea che il lavoro non sia un diritto ma una cosa che ottieni gareggiando contro qualcun altro, accettando le regole che ti impongono senza poter discutere e protestare. Questo non è certo formare cittadini e cittadine dotati di senso critico; è allevare polli in batteria pronti a sacrificarsi per il bene del mercato, grati del salario che viene loro “concesso”.
Perché non chiediamo che gli studenti svolgano obbligatoriamente almeno un terzo del monte ore di PCTO presso le sedi dei sindacati, le camere del lavoro a studiare i contratti collettivi, la legislazione in materia di sicurezza, i loro diritti di futuri lavoratori e lavoratrici. E non solo i loro doveri…?

L’ultimo trend in ordine di tempo: la spinta sempre più forte verso ciò che viene definito “orientamento”. Dall’anno scolastico in corso i Collegi dei docenti dovranno individuare argomenti e attività per almeno 30 ore annuali da dedicare all’orientamento. Si inizierà a “formare” ragazze e ragazzi in senso funzionale al loro inserimento nel mondo del lavoro già dalla secondaria di primo grado, l’ex scuola media. A 11 anni si comincia a formare non il futuro cittadino e la futura cittadina come dovrebbe essere, ma ci si preoccupa di iniziare a formare subito il futuro lavoratore/lavoratrice, in un’ottica tra l’altro fortemente individualistica e poco basata su una dimensione sociale, di gruppo.

La punta di diamante di questa visione ancillare della scuola all’impresa è rappresentata dalla riforma dei tecnici e dei professionali, la “filiera formativa tecnologico-professionale” (da notare il termine “filiera”), della quale il Ministro Valditara ha annunciato la sperimentazione in un migliaio di istituti già da quest’anno. Prevede il taglio di un anno di studi, esperienze “on the job” fin dai 15 anni, alternanza scuola-lavoro potenziata fino a 400 ore l’anno, ricorso ordinario all’apprendistato di primo livello, insegnanti provenienti dal mondo delle imprese e degli studi professionali, sistema di certificazione delle competenze affidato, neanche a dirlo all’Invalsi”. Un nuovo canale formativo abbreviato che dovrebbe confluire nei nascenti ITS Academy. I giovani studenti, quelli che non hanno la possibilità di proseguire gli studi universitari, i fragili etichettati dall’Invalsi, non devono perdere tempo sui banchi: è bene che inizino il prima possibile ad avere una forma mentis adatta al lavoro. Gli studi tecnico-professionali devono garantire la corrispondenza tra domanda e offerta: ne ha parlato anche il Ministro Tajani al Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini, l'Agosto scorso, dicendo testualmente  “non dobbiamo tutti studiare filosofia e economia; chi può lavorare deve andare a lavorare”. Indovinate chi sono quelli che possono e quindi devono andare a lavorare? Quelli che l’economista Daniele Checci al Festival dell’economia di Trentoalla presenza del Ministro Valditara, ha definito “gli sfigati”: quelli che studiano al tecnico e al professionale. Gentile non ha mai sloggiato dalla scuola italiana ma questo è il ritorno in grande spolvero del suo fido scudiero: l’avviamento al lavoro!

E neanche troppo velatamente si sta cercando di far passare un congruo segmento dell’istruzione pubblica dalle mani del pubblico alle mani del privato, e forse si profila anche un nuovo ordine salariale, incastonato nella contrattazione individuale tra lavoratore e datore di lavoro: a cos’altro dovrebbero servire altrimenti la certificazione delle competenze e il portfolio personale dello studente? Come scriveva Franco Fortini[1] quando diceva che la scuola media superiore per tutti, al più alto livello di qualità didattica è una prospettiva insopportabile per l’ordine tardocapitalistico. 
Ci hanno messo qualche anno ma stanno riuscendo a scardinare l’impianto della scuola democratica immaginata dalla Costituzione, figlia delle riforme degli Anni Settanta.

Senza contare le conseguenze che il DDL 615 sull’autonomia differenziata comporterebbe al sistema d’istruzione nazionale, se venisse attuato: sarebbe davvero la fine della scuola pubblica come “organo vitale e cuore pulsante della Repubblica democratica”, come la definiva Piero Calamandrei in un suo intervento pubblico dell’11 Febbraio 1950. Si avrebbero al posto del cuore, venti esangui “capillari” regionali, distinti e divisi tra loro.

Infine un’altra minaccia che mi sento di sottolineare e che la “cultura” di quest’ultimo Governo mi pare stia lentamente ma inesorabilmente iniettando nelle vene stremate della scuola italiana: la difesa del nostro patrimonio culturale in senso identitario e diciamo “nazionale” per non dire nazionalista. L’operazione “Liceo del made in Italy” va proprio in questo senso. Nel senso di affermare un’idea di cultura affetta da retroscopia priva di una visione della cultura italiana come qualcosa di ancora vivido e vitale da promuovere, una visione angusta e soffocante di un patrimonio italiano come vessillo identitario che si può mettere in vendita. E sotto traccia, riaffiora carsicamente, il nostro “razzismo culturale”: gli italiani sono migliori degli altri perché siamo la Patria di Leonardo, Michelangelo, Raffaello e prima ancora dell’Impero Romano… Un vieto italocentrismo che sa di suprematismo.
Ma veramente si può ancora intendere la cultura in questo modo retrogrado? Per un mondo piccino e provinciale? Cosa se ne dovrebbero fare i nostri figli e le nostre figlie di una cultura solo identitariamente italiana, nazionale?
Non sarebbe meglio iniziare a concepire un’istruzione e un’educazione per i cittadini e le cittadine del pianeta di domani, che veda la cultura nazionale come parte di una cultura umana estremamente differenziata, che promuova la convivenza tra diversità, una cultura che educhi il popolo ad essere insieme nazionale, plurale, cosmopolita, democratico, ecologista e pacifista?

Torniamo a rivendicare una scuola pubblica come DIRITTO sancito dalla Costituzione, una scuola che promuova una cultura comune per la democrazia. Basta con la SCUOLA intesa come servizio concesso dallo Stato in cambio dell’accettazione delle logiche del profitto, della prestazione, del merito come corsa competitiva ad avere di più perché si è prodotto di più.

 

Note

[1] Su un caso disciplinare, «Azimut», 26, novembre-dicembre 1986, o anche Franco Fortini, Su un caso disciplinare, in Tre testi su educazione e società, “L’ospite ingrato”, Macerata, VIII, 1 (2005)

Scrive...

Lorella Villa insegna italiano e storia negli Istituti tecnici e professionali. È dal 2022 presidente del CIDI di Cagliari.

sugli stessi argomenti

» tutti