Gli “Stati generali per l’educazione linguistica e letteraria” svoltisi a Roma, presso La Sapienza, il 30 e 31 ottobre, per iniziativa di oltre 15 associazioni, sono stati una vera boccata di ossigeno per chi tiene ai destini della scuola e della formazione dei docenti in questo Paese. Il confronto “intertestuale” realizzatosi tra i diversi tavoli (italiano, italiano come lingua 2, formazione, trasversalità, lingue ) intrecciandosi e coniugandosi con gli interventi degli esperti di lingua e letteratura, da Franco Lorenzoni a Roberto Antonelli e Massimo Vedovelli, da Paolo D’Achille a Lucia Olini, ha messo in luce il bisogno di rigenerare all’interno delle scuole un dibattito trasversale e interdipartimentale su alcune questioni fondative nell’insegnamento della lingua e delle lingue.
Nel suo recentissimo “La luce e l’onda” (Einaudi, 2025), Massimo Recalcati distingue tra una scuola-dispositivo e una scuola-radura, attribuendo alla prima la riduzione del sapere a ripetizione, a regola, a disumanizzazione in contrapposizione netta alla vita vera, e alla seconda invece l’incontro con il limite, con l’impossibile, con quel che ancora non è (come scriveva Danilo Dolci, sognando gli altri come ora non sono).
Ebbene, agli Stati generali c’era voglia di scuola-radura, scuola che si interroga, che non ha solo risposte da dare o da pretendere dagli allievi, ma è viva perché riflette su se stessa e sulle domande del presente e del futuro
Alcuni elementi emersi con chiarezza sono stati ribaditi nei diversi momenti delle due giornate; è mio parere che essi saranno portati con sé da ciascun docente che ha partecipato alle giornate, all’interno del proprio agire quotidiano e dei propri contesti, sia scolastici che universitari. Mi piace ricordarne qualcuno, senza pretesa di esaustività:
Sul piano metodologico sono state offerti moltissimi spunti, impossibili da riassumere, ma si possono consultare i documenti redatti dai diversi tavoli e messi a disposizione in rete – documenti che verranno poi ripresi e arricchiti proprio a partire dal dibattito di queste giornate, che vanno considerate dunque come passaggio-chiave di un processo, come transizione e non conclusione del percorso intrapreso diversi mesi fa.
Mi piace compiere un ultimo passaggio sull’educazione letteraria che – è stato ben detto- non può limitarsi a guardare alla tradizione letteraria nazionale e non può sfuggire a un rapporto di continuità dialettica con la cultura di massa: anzi, proprio alla luce di questo, essa è educazione al senso della storia e della complessità (nel senso duplice di saper storicizzare ciò che si legge e saper riconoscere l’attualità dei prodotti culturali del passato).
Va detto che mentre per la storia letteraria, dagli anni ‘80 in poi, la crisi di metodo è stata affrontata, e anche grazie ad un’ editoria illuminata si è arrivati ad una pluralità di metodi e approcci ( con prevalenza di sue direzioni, una di tipo storicistico- -antropologico-sociologico, l’altra di tipo linguistico-strutturalistico-semiotico), il che consente oggi di guardare con fiducia anche ad ulteriori innovazioni, per l’educazione linguistico-letteraria, in particolare per l’approccio alla lingua letteraria del passato la sfida metodologica è ancora in atto e si è nei pressi di un difficile guado: ad esempio, come formare un “buon lettore” che sia in grado di comprendere la complessità del periodare del Boccaccio, senza che questi ne venga respinto e portato ad allontanarsi dall’immenso significato etico-politico e storico-culturale della sua opera?
Bisogna essere ottimisti, a mio parere: educare alla letteratura è anche e soprttutto scoperta ermeneutica, cioè incontro tra le grandi opere e la comunità dei lettori costituita dai nostri alunni. In un triangolo virtuoso (centralità dei testi-centralità del lettore- insieme di operazioni che docente e alunni compiono insieme sui testi) si è poi inserito da tempo un quarto vertice, il dialogo intertestuale con altri linguaggi artistici, le arti visive, la musica, il cinema, che avvicinano i giovani e non li allontanano (come qualcuno teme) dalla letteratura. E’ necessario anzi, in un’epoca che tende a subordinare tutto a logiche di tipo economico e produttivo ed a semplificare tutto, manipolando la realtà proprio tramite le narrazioni, dare nuove responsabilità alla letteratura. Nell’era della cosiddetta post-verità, in cui contano più le rappresentazioni che i fatti, abbiamo sempre più necessità di affinare le capacità di analisi, di filtro selettivo, di decifrazione di comunicazioni complesse: nell’odierno contesto ecco una nuova centralità per l’ educazione letteraria, che è preposta alla costruzione (o decostruzione) di fictiones in grado di narrare e rimodellare il reale attraverso un ricco armamentario retorico.
Si realizzerebbe così la possibilità di coesistenza fra competenze e saperi. Un nodo, questo della sinergia e dei passaggi tra saperi e competenze, che va smosso, specie nei percorsi della secondaria superiore, e intorno a cui, per citare Ivano Dionigi e il suo Magister, si possono realizzare le tre nuove i, ben diverse da quelle di berlusconiana memoria: la i dell’interrogare (i testi) , dell’intelligere, (entrarvi dentro), dell’invenire, favorendo la scoperta e il confronto con la realtà. E promuovendo quella che ostinatamente continuiamo e vogliamo continuare a chiamare scholè….
Questo nome, questa parola, nella lingua corrente, non è stato ancora cambiato, continuiamo a dirci “scuola”. Cerchiamo allora di non dimenticare cosa esso originariamente significa: libero incontro, tempo dell’otium dedicato alla riflessione, alla conversazione, al dialogo filosofico o scientifico. Una cosa bella, non solo un dispositivo istituzionale a cui sfuggire o assoggettarsi.