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Antonio Gramsci affermava che ogni volta che affiora in un modo o nell’altro la questione della lingua, significa che si sta ponendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più adeguati tra i gruppi dirigenti e la massa popolare nazionale. Una crisi linguistica è dunque il riflesso di una crisi più ampia di carattere sociopolitico e impone una riorganizzazione dell’egemonia culturale per la quale non si può prescindere da una prospettiva educativa. Come possiamo declinare e coniugare questa affermazione nella nostra realtà sociale attuale? Questa affermazione è valida tutt’oggi per giustificare e ribadire ulteriormente l’importanza dell’ educazione linguistica, in un momento come questo in cui assistiamo da una parte all’ennesima riforma dei programmi scolastici orientati ad una didattica trasmissiva tradizionale e dall’altra alla vivace e vitale risposta del più attento mondo della scuola, delle associazioni professionali e disciplinari. La scuola è infatti il luogo della critica, del confronto, è luogo di libertà.
In questo orizzonte, esponenti di varie associazioni e società scientifiche, con l’università, con un lavoro di preparazione focalizzato su più temi, (formazione della professionalità docenti, italiano L1 e L2,trasversalità della lingua) si sono costituiti in “Stati Generali della educazione linguistica e letteraria per la scuola”. Il 30 e 31 ottobre alla Sapienza, Roma, erano presenti ben 30 associazioni professionali letterarie e linguistiche.
Dal lavoro congiunto e da questo momento congressuale è stato elaborato un documento di sintesi preliminare, presentato in Senato il 20 novembre. Il testo che ribadisce la fondamentale valenza della educazione linguistica e letteraria nella scuola.
Nell’ambito dell’ampio dibattito che sta emergendo in questi giorni, riteniamo opportuno riprendere la riflessione sull’ attualità della lezione che emerge dalla esperienza e dalla ricerca sociolinguistica di Parisi e di De Mauro, illuminanti nel proporre un insegnamento della lingua finalmente ancorata alle situazioni comunicative reali, riconoscendo al parlante, a prescindere dal livello di competenze possedute, una competenza linguistica originaria, indispensabile premessa per un processo educativo. Questo era infatti l’obiettivo più ampio emerso dalla ricerca delle 10 tesi del GISCEL, in quanto la lingua, il suo uso e la sua struttura sono influenzati dalle condizioni socioculturali in cui si sviluppa.
I grandi linguisti, pionieri dell’educazione attiva, sono stati messi all’angolo perché considerati responsabili dell’insuccesso educativo dei giovani italiani che, dalla somministrazione delle prove internazionali, come ad esempio Ocse PISA, non risultano in grado di comprendere semplici testi o di scrivere in modo connesso e coerente.
Da tempo si parla di analfabetismo di ritorno, ma dove ricercarne le cause? Sicuramente lo scenario linguistico è profondamente cambiato. La comunicazione attraverso i media digitali social ha modificato modalità di espressione e di apprendimento, dei processi cognitivi, dei tempi, della velocità di attenzione e di risposta adeguata. Da un altro canto non meno importante è il cambiamento della popolazione scolastica, che si è arricchita della presenza di alunni con storia migratoria, alcuni dei quali senza alcuna esperienza scolastica. Si tratta solo di alcune delle questioni reali che l’ insegnante in classe deve affrontare ogni giorno.
Con questo scenario la professionalità dell’insegnante si deve arricchire di ulteriori competenze relazionali, metodologiche e didattiche. Sentiamo in questa sede il dovere di riaffermare la centralità della lingua come strumento di inclusione ed emancipazione culturale e sociale, e di dedicare la giornata di studi alla educazione linguistica e, aggiungiamo, democratica, per riaffermarne il suo valore cruciale. Irrinunciabile è infatti il compito costituzionale della scuola di formare cittadini, la cui padronanza della lingua è determinante per acquisire capacità critica, consapevolezza e responsabilità all’interno di un contesto sociale, culturale e politico così complesso e critico come quello attuale, dominato dal monoteismo tecnologico imperante, e dal futuro incerto per le nuove generazioni.
La complessità riguarda tutte le fasi della crescita evolutiva. Per questo motivo il pomeriggio è stato dedicato ad ascoltare voci ed esperienze di docenti che insegnano lingua nella scuola a partire da zero/sei fino al biennio delle superiori, per esplorare nodi, metodi e strategie didattiche di un curricolo verticale dell’insegnamento dell’educazione linguistica.
La giornata di studio parte comunque “a ritroso”. Il tempo infatti riannoda i fili del passato, della memoria di chi ci ha preceduto, dei “maestri” e delle “maestre”, di quelle figure che sono ancora testimonianza professionale assolutamente attuale ed innovativa . Per questo dedichiamo la prima parte della giornata al lavoro della maestra Gisella Galassi, forlivese di nascita e forlimpopolese di adozione, che molti hanno conosciuto e che abbiamo ricordato tre anni fa in un convegno nel centenario della sua nascita. In quella occasione i relatori esperti si resero conto del valore e dell’attualità del suo lavoro e della necessità di far conoscere il suo metodo, i suoi scritti, purtroppo irreperibili. Con un impegno notevole di Nerina Vretenar sono stati digitalizzati e fruibili oggi nell’open space di MCE e sul sito di INDIRE nello spazio dedicato alle maestre.
Gisella, negli anni del dopoguerra difficili come questi attuali, concepisce la scuola come ambiente privilegiato per la crescita, spazio del gioco, della costruzione di relazioni, di scoperte e dialogo da cui scaturisce la ricerca continua e la consapevolezza dell’apprendimento. Gisella ha quotidianamente interpretato l’agire in classe, il processo di insegnamento apprendimento, attraverso un approccio al sapere e alle conoscenze che coniugasse, attraverso la cooperazione, la condotta in classe dagli alunni con la acquisizione del codice linguistico, sempre agganciato alla esperienza reale e sostenuto dalla forza dell’autonoma padronanza della parola.
Per lei fare scuola voleva dire mettere al centro l’alunno come protagonista del proprio apprendimento, a partire dal proprio vissuto e attraverso la costruzione delle proprie prospettive. Viviamo in un tempo di accentuata discontinuità generazionale che ci porta a confrontarci con categorie concettuali diverse da quelle di cui abbiamo fatto esperienza. Il cambio di scenario culturale, sociale al livello locale e globale non può essere sottovalutato o dato per scontato, perchè ha una conseguenza notevole sull’uso della parola e dei suoi significati.
Nel lavoro di Gisella i diversi ritmi o stili di apprendimento si compensavano in un costante lavoro individuale e di gruppo, parlato e scritto non erano scissi, come ore di lezione, ma diventavano interazione ed espressione del proprio agire verbalizzato e scritto.
Oggi non solo vogliamo collocare storicamente il lavoro di Gisella, ma l’idea del convegno è anche quello di capire quanto quella esperienza abbia ancora una forte valenza didattica innovativa. Nei suoi anni, la ricerca era sul campo, nasceva da un bisogno di dare risposte concrete, il più possibili efficaci ad una domanda di alfabetizzazione, istruzione e socialità educativa. C’era un’idea di formazione, di evoluzione del bambino in adolescente e adulto volto a realizzare quello che già allora era un progetto di cittadinanza attiva, dove individuo e società interagivano per lo sviluppo reciproco (così insegnava Don Milani con l’obiettivo irrinunciabile dell’Articolo 3 della Costituzione). Per chi aveva conosciuto e vissuto il fascismo e la guerra e aveva provato l’inestinguibile desiderio di un libero pensiero in un paese finalmente divenuto libero e democratico, interpretare la funzione docente significava offrire una risposta attiva e non conformista.
Gisella esercitava il diritto al pensiero libero lungi da un modello “normato”. Questo era il messaggio fondante del suo lavoro insieme con la sua collega Francesca Rossi. Insieme inventano il modulo dividendosi nelle due classi l’insegnamento della lingua e quello della matematica. Lavoravano insieme, in un confronto continuo che, andava oltre al tempo delle ore di insegnamento, sulla costruzione di un progetto che portasse ogni alunno verso il senso della responsabilità e della consapevolezza del proprio apprendimento e della democratica cooperazione. La loro esperienza metteva in luce la necessità di affermare che nella scuola di allora e di oggi la figura centrale e ineludibile è l’insegnante che sia un ricercatore insieme ai suoi alunni e in collaborazione attiva e costante con i colleghi, sottraendosi ad una grigia valutazione esterna in relazione alla produttività e ad una ambigua interpretazione del merito.
Altra questione essenziale riguarda la dimensione “di frontiera” del lavoro di Gisella che era animata dalla convinzione di dover colmare un debito che la società aveva nei confronti di quei bambini; solo fornendo loro istruzione potevano riscattarsi. I suoi alunni vivevano un’età in cui le competenze del tessuto di provenienza (esperienza della guerra, dialetto…), i bisogni esistenziali e la necessità di acquisire strumenti di lettura e di interpretazione della realtà erano la spinta verso di quel processo di insegnamento apprendimento che aveva il fulcro nella conversazione; qui, la parola liberamente espressa veniva ascoltata, e si inseriva in un processo di senso che orientava l’insegnamento in maniera mirata e concreta. La realtà diventava una banco di prova dove verificare la problematicità del sapere e la necessità di una ricerca costante. Il linguaggio doveva essere aderente ad esperienze di vita concreta per entrare nella sfera di interesse profondo dei bambini, passaggio indispensabile per essere ammessi a pieno titolo nel mondo degli adulti. Da questo tessuto si riconosceva la trama e l’ordito della sua ricerca sulla lingua parlata, sulla pregnanza della parola: per quanto era analitica l’indagine e la progettualità, tanto sintetico era il risultato che si doveva concretizzare nell’efficacia e nell’autenticità della comunicazione. Gisella scrive” Il fatto educativo può essere preparato e programmato ma non lo si può organizzare finché non lo si vive e i ragazzi non portino il loro contributo
I seminari dell’MCE e del CIDI furono occasione di confronto culturale, in particolare la sua riflessione sulla lingua si nutrì delle ricerche linguistiche di Raffaele Simone, Tullio de Mauro, Roman Jacobson, Laurence Lentin, Domenico Parisi e la sociolinguistica, le Dieci tesi del GISCEL. Rivolse precisa attenzione alla lingua parlata non formale, di cui recuperò anche la dimensione della memoria orale, che confluì nella ricerca storica che ha dato vita a i testi preziosi di Controstorie e di Quei giorni al mio paese.
Gisella Galassi e Francesca Rossi si sono dedicate con la concretezza dell’esperienza e dei fatti, alla formazione di maestre della scuola forlivese. Si sono incontrate due vocazioni: quella della lingua di Gisella e quella della matematica di Francesca e insieme si sono inventate già a metà degli anni 60 il superamento del maestro unico, la pluralità della docenza, aggiungendo la gratuità di un tempo scuola che andava oltre il curricolo. La loro esperienza si inserisce, differenziandosi fortemente, in un quadro istituzionale che era quello dei programmi del ‘55 fondati ancora sull’apprendimento strumentale: leggere, scrivere e far di conto.
Hanno messo a punto un modello che è andato a regime, almeno nelle prospettive legislativi dei programmi dell’'85, quando venne disegnata per la prima volta un’idea di ambiente di apprendimento che richiedeva tempi distesi e si poneva come finalità la formazione dell’uomo e del cittadino e la prima alfabetizzazione culturale. Maria Luisa Altieri Biagi, Francesco Speranza, Dario Antiseri misero a sistema l’epistemologia delle discipline, dando spessore di disciplina alle materie. Quei programmi erano stati elaborati dalla migliore ricerca pedagogica, attenta alle esperienze didattiche a cui attingevano a piene mani. Nella lettera di accompagnamento della Commissione e come Atto di indirizzo si sottolineava la necessità di percorrere la strada della pluralità dei docenti e del tempo disteso, della pluralità delle discipline, del metodo, sia della disciplina, sia dell’armonizzare questo sistema allo stile di apprendimento dell’alunno.
Dietro quel lavoro vi era la migliore ricerca scientifica che si misurava con i problemi reali della pedagogia linguistica, c’era la conoscenza sistematica delle abilità che si voleva far crescere nei ragazzi e quella degli strumenti più opportuni, con ciò che comporta – in termini di avventura intellettuale, di rapporti interpersonali – il fatto che ci sono dei bambini che apprendono in modo consapevole. L’esperienza di Gisella e di Francesca si è mossa facendo da apripista ai documenti che nel ventennio successivo fino ad oggi rappresentano la struttura culturale per una scuola che garantisce cittadinanza, che non emargina ma tiene tutti dentro i processi educativi, e che nella ricerca di senso della comunicazione apre scenari, pone domande e rifugge da ogni certezza.
La sua attualità è ancora viva, come la sua indignazione nei confronti di una scuola ancorata semplicemente al principio dell’alfabetizzazione mnemonica e passiva. La sua novità ancora è valida oggi, in un tempo in cui si disegna un impianto di riforma della scuola che rischia di rinunciare ai suoi dettami costituzionali, perché la scuola oltre a promuovere cultura è anche uno spazio di giustizia sociale che previene dispersione e fallimenti precoci. Se ci limitiamo ad attenerci alle regole, al programma, ai contenuti appresi in maniera mnemonica e non compresi, la scuola perde la sua missione di vita e si riduce ad un addestramento vuoto e inutile. L’educazione linguistica è un modo di pensare l’insegnamento/apprendimento fondato sul padroneggiare un patrimonio semantico, logico, sintattico, come la trama e l’ordito su cui tessere una comunicazione autentica, critica, personale, rispondente agli scopi ed efficace negli esiti e in grado di crescere su se stesso.
Perché abbiamo presentato un’esperienza che ha ormai quarant’anni di vita? Perché questa stella continua a illuminare la professionalità attraverso il tempo con tutta la forza della sua passione e della volontà di innovare, dare vita e far germogliare curiosità per la ricerca, per il sapere, per un’autonoma conquista di competenze che aiuteranno ogni alunno di qualunque intelligenza sia dotato, a conquistare un’autonoma gestione della propria vita e della conoscenza.
Il nucleo fondante dell’esperienza di Gisella è il metodo, ovvero la capacità sia dell’insegnare, sia degli alunni di sperimentare e di scoprire insieme strategie di approccio al sapere, modalità efficaci di comunicazione, conquista della parola, individuazione dei canali e dei registri comunicativi funzionali al confronto, al dialogo, all’ argomentazione, alla espressione del proprio vissuto, alla testimonianza di un lavoro di gruppo. Questa è educazione linguistica. Educare, abituare al parlato, allo scritto, all’ascolto, alla ricerca di fonti attendibili. Un metodo, dunque, che richiede attenzione all’altro, a se stesso e al contesto, responsabilità del lavoro individuale e collettivo, l’uso e una fruizione matura ed efficace degli strumenti tecnologici più avanzati che non vanno demonizzati ma utilizzati con consapevolezza.
L’educazione linguistica è un processo che dura per tutto il cursus scolare e per tutta la vita, personale, nel riconoscimento delle differenze, attraverso una costante attenzione verso la ricerca, il confronto e il dialogo. Soltanto così si costruisce un cittadino partecipe, “egregio”, cioè, letteralmente “fuori dal gregge” cioè fuori delle spinte all’omologazione e alla distrazione di massa. Oggi la scuola ha un compito nuovo rispetto al tempo di Gisella, ma altrettanto complesso rispetto a quello che lei ha fronteggiato dopo la guerra: formare cittadini digitali consapevoli, come in passato ha educato cittadini agricoltori, poi cittadini industriali. Il problema è anche di abbattere la barriera tra scuola e il mondo, tra i ragazzi e la vita. Costruiamo e difendiamo una scuola come spazio di libertà e sviluppo. Da sempre le scuole sono state luoghi di ricerca, centri di opposizione e contestazione, dall’altro di innovazione e di cambiamento.
Umberto Eco diceva: In aula noi, docenti e studenti, siamo secondi solo a Dio! Forse dobbiamo ricominciare a crederci.
Paola Silimbani, presidente CIDI Forlì