“Vaste programme”, commenterebbero in Francia. Me ne rendo conto e cercherò di non avventurarmi su terreni che non mi appartengono. Ancora una volta provo a riflettere su quello che abbiamo fatto a scuola nell’anno scolastico che è appena finito e a collegare quel lavoro con il modo in cui io ho sempre inteso il mio mestiere. Per me fare scuola ha sempre rappresentato un atto politico: il mio modo di fare politica; il mio modo di stare al mondo e di agire su di esso. L’esperienza di quest' anno mi sembra particolarmente aderente a questo sentire.
Partiamo da un assioma (uno di quei principi che non hanno bisogno di dimostrazione e dai quali prende l’avvio il ragionamento che porta alla formulazione di una teoria): il mondo è malato. Come molte altre malattie, anche questa non provoca la morte immediata, ma compromette progressivamente e irreversibilmente (qualora non si intervenga con una cura) la vita del corpo che ha attaccato. Spesso la malattia si insedia in quel corpo e diventa cronica. Talvolta aggredisce individui in diverse parti del mondo e allora è pandemica. Ed è proprio questo il caso di cui parlo: si tratta di una malattia mondiale, globale, capillare, che mina la vita sociale e quella individuale delle nostre relazioni e della nostra visione del mondo. Si tratta della crisi dei sistemi democratici, di quell’insieme di regole e di valori che hanno governato la nostra parte di mondo a partire dalla seconda guerra mondiale in poi e che oggi vengono attaccati, contraddetti, derisi. Da che mondo è mondo, tutti i regimi totalitari hanno usato il linguaggio come strumento di trasformazione della realtà e come misura del loro potere. Quando “la guerra è pace e la pace è guerra” (citando Orwell), quando i significati degli opposti si trasformano nel linguaggio politico e poi nel senso comune non c’è più bisogno di un controllo violento: le menti si controllano da sole.
In molte religioni Dio si identifica con la Parola, con il Verbo. Nella Genesi Dio nomina le cose e le cose esistono come Lui le ha pensate. La Parola è uno strumento per creare mondi, non solo per descriverli e spiegarli. Mai, nella storia dell’umanità si è parlato e scritto così tanto. Ma forse mai si è pensato così poco a ciò che si vuole dire. Fino a pochi decenni or sono parlare non era un obbligo, né tanto meno un’abitudine. Lo si faceva per necessità, talvolta per lusso. Esisteva “l’arte della conversazione”, praticata nei salotti dell’alta società mentre le persone comuni parlavano quando avevano qualcosa di necessario da dire. In questa rarefazione le parole erano più facilmente collegate al pensiero, semplice, primitivo magari, ma pensiero. Essere un uomo di poche parole era sinonimo di serietà e affidabilità, contrapposto a parolaio o chiacchierone. Adesso il silenzio ci imbarazza; stare zitti ci mette a disagio. Diffidiamo delle persone più riservate come se il loro silenzio nascondesse segreti “indicibili”. Oggi si parla tanto ma tutti nello stesso modo: si assiste al paradosso che solo chi è molto anziano o chi è affetto da un disturbo può permettersi di dire cose “diverse”, al di fuori del senso comune, come nel caso di Greta Thumberg. Ma se da un lato questa difformità dal discorso comune, amplifica la portata del messaggio, dall’altra, la presenza del disturbo, giustifica la difformità, indebolisce il messaggio e lo rende innocuo. Parliamo a chi ci capisce, a quelli che stanno dalla nostra parte e per loro non c’è bisogno di sforzarsi: bastano gli slogan e le parole d’ordine perché è come parlare un’altra lingua, una sub lingua, una lingua cifrata Il fenomeno è ben illustrato in un film della fine degli anni ’90 (“Prima la musica, poi le parole”) in cui un bambino viene ritrovato mentre vaga da solo nella campagna Toscana. Sa parlare e parla ma nessuno lo capisce perché il padre (uno psicopatico che voleva tenerlo isolato dal mondo) gli ha insegnato l’italiano “al contrario”: “abaco” vuol dire “zuzzurellone” e così via. Le parole sono le stesse ma sono stati sostituiti i significati per cui si capiscono solo loro due, padre e figlio, mentre è impossibile comunicare con l’esterno. Come nel film, in cui la musica è la chiave che chiarirà il mistero del linguaggio del bambino, si pensi ad un’orchestra in cui, un po’ alla volta, settori diversi cominciano a leggere lo stesso spartito in modo differente: prima gli ottoni, poi i timpani, poi i fiati. Ne viene fuori una disarmonia a tratti inascoltabile: la sensazione che spesso alcuni di noi provano al collegio docenti sentendo parlare i colleghi di valutazione, inclusione. Stesse parole, ma significati diversi.
Cosa vuol dire biologico, artigianale, “a chilometro 0”? E iconico, location, experience? Quante volte assistiamo ad interviste in cui alla domanda segue una risposta pertinente? Nel migliore dei casi chi risponde inizia la risposta dicendo che deve fare una premessa che sposta totalmente l’argomento rispetto a ciò che era stato chiesto; più spesso non si ha neanche questo residuo di pudore e si risponde semplicemente con il discorso che si voleva fare, indipendentemente da ciò che ci era stato domandato. I politici, i nostri ma anche quelli altrui “sbagliano” dati, confondono temi, eludono questioni attraverso una “strategia della confusione” all’interno della quale si può dire tutto e il contrario di tutto. E questo non produce, come ci si potrebbe aspettare, indignazione, protesta, rifiuto. Perché ormai il veleno del non senso, del vale “chi” dice, più di “cosa” sta dicendo, ci è stato propinato a piccole dosi quotidiane e continue. Alla strategia della confusione si è sommata la strategia dell’assuefazione in una sinergia di rinforzo reciproco che ha “educato” (abituato) le menti all’inganno e all’ambiguità. Perfino quando questi sono evidenti e palesi vengono accettati come dati di fatto, come caratteristiche strutturali del nostro modo di comunicare. L’esposizione prolungata e continua a questi fattori di rischio crea e diffonde la malattia, come lo smog e l’inquinamento favoriscono il diffondersi delle malattie respiratorie. Si fa fatica a confrontarsi con la realtà; si crede a tutto ma anche si diffida di tutto in un guazzabuglio cosmico di realtà, utopia, propaganda e menzogna assolutamente funzionale ad un governo di un territorio senza la giusta attenzione da parte dell’informazione, degli organismi sovranazionali, dell’opinione pubblica.
Una volta fatta la diagnosi e individuati i fattori di rischio, non resta che prescrivere una cura. Attenzione però: cura non vuol dire guarigione. La cura è l’iter spesso lungo, talvolta doloroso, attraverso il quale si può (e qui il verbo indica una possibilità statistica) migliorare la propria condizione di difficoltà e, solo nella migliore delle risultanze, sconfiggere la malattia. Dobbiamo cercare di restituire spessore al nostro parlare: ri-collegare il pensiero alle parole che pronunciamo. Don Milani aveva individuato nel pensare e parlare “bene” la condizione essenziale per essere cittadini liberi e autorevoli, per essere portatori di pace invece che fomentatori, magari inconsapevoli, di conflitto. Per sviluppare una capacità critica rispetto a ciò che ascoltiamo non basta educare all’ascolto: se le parole costruiscono mondi, parlare diventa un atto di grande responsabilità. A forza di ascoltare e pronunciare parole “inquinate”, perdiamo la nostra capacità di riconoscerle e quindi, di rifiutarle. All’esposizione continua ad un flusso indistinto di parole si deve contrapporre un processo altrettanto continuo di analisi delle parole, di ricerca delle parole più “giuste”, più adatte a dire ciò che vogliamo dire, ad esprimere ciò che sentiamo. Nella ricerca dei termini corretti, scartiamo quelli inadeguati. Alla strategia della confusione si contrappone l’educazione alla consapevolezza nella ricerca e nell’uso dei significati. Ma per dare qualità e significato alle parole, bisogna che il significato sia condiviso: ci vuole un vocabolario. È come giocare con le costruzioni: ognuno può giocare con gli altri solo se tutti siamo d’accordo su cosa vogliamo costruire. La costruzione del vocabolario è il risultato di un’operazione di negoziazione continua, è una co-costruzione. Così il lavoro sul vocabolario diventa propedeutico a quello sulla Costituzione. Parole come “democrazia”, “lavoro”, “ripudia”, sono parole difficili e ne possiamo comprendere il senso solo attraverso un “allenamento” che è cominciato prima, solo con l’apprendimento di un metodo che fa della riflessione sulle parole il più potente strumento di analisi e di critica del mondo.
In questo anno scolastico abbiamo pensato di costruire il vocabolario della nostra sezione. A Settembre i bambini hanno trovato un pannello (Il paese delle parole) composto da 10 casette, una per ciascun mese di scuola.
Abbiamo detto ai bambini che ogni mese avremmo cercato le parole che iniziavano con l’iniziale del mese in corso. Alla fine del momento dell’appello mattutino chiedevamo se avevano individuato delle parole nuove e le aggiungevamo a quelle trovate nei giorni precedenti, per metterle nella casetta del mese in corso.
Ciascuna parola veniva “confezionata” su un cartoncino (dello stesso colore del mese e della casetta) attraverso un’immagine che ne illustrasse il significato (quando era possibile) e sotto veniva scritta la parola in stampatello. Durante tutto il mese i bambini avevano libero accesso ai cartoncini e potevano usarli come volevano.
A partire dal mese di Gennaio, tutte le parole sono state raccolte in un raccoglitore ad anelli con le pagine trasparenti suddivise in tante tasche, ciascuna delle quali ospita un cartoncino: il nostro vocabolario.
Anch’esso è rimasto a disposizione dei bambini che potevano sfogliarlo, ma anche estrarre i singoli cartoncini e poi riporli come volevano. La ricerca delle parole ha appassionato così tanto i bambini che hanno coinvolto anche i loro genitori: così nelle pagine dedicata alle parole che iniziano con O (come Ottobre), abbiamo la parola OSSOBUCO, perché il babbo di una bambina fa il macellaio. La comprensione delle parole è diventata il risultato di informazioni intenzionalmente ricercate e di esperienze personalmente vissute. Alla fine di Giugno il nostro vocabolario conta 238 parole.
L’attività si è conclusa con la costruzione (da parte dei bambini di 5 anni) del vocabolario di gruppo che contiene le parole che iniziano con le iniziali dei 7 nomi dei bambini che lasceranno la nostra scuola per entrare, a Settembre, alla scuola primaria.
Ci è sembrato un bel modo per salutarli e per creare una specie di capsula del tempo: magari, fra qualche anno, ritroveranno quel quaderno dimenticato in un cassetto e farà loro piacere sfogliare quelle pagine che contengono le loro parole ma anche i loro modi di pensare le cose del mondo. Sì perché questo ulteriore vocabolario non si limita a raccogliere le parole, come quello della sezione. I bambini “grandi” hanno anche cercato la loro definizione delle parole che sceglievano per il loro quaderno (3 per ciascuna delle iniziali dei compagni, più 3 per la lettera L di Lavanda, il colore della nostra sezione, per un totale di 24 parole).
C’è chi ha scelto parole molto semplici,
di uso quotidiano:
chi ha cercato parole “difficili” e rare;
chi ha creato un legame tra le parole scelte e le attività che li avevano coinvolti di più in questo anno.
Soprattutto sono emersi modi di ragionare, capacità di istituire collegamenti semantici inaspettati, definizioni diverse ma convergenti e complementari. Così un DADO è un gioco, una cosa per farti sapere quanti numeri ci sono, si usa lanciandolo; la NONNA è una signora che ha dei nipoti; una DAMIGIANA è una specie di secchio per il vino; DINOSAURO è un animale grande che somiglia ad un drago ma è esistito davvero.
E poi è successo quello che ogni insegnate spera che succeda, ovvero che il lavoro che sta facendo si manifesti (sotto forma di competenze) in altre attività, in contesti diversi da quello in cui è stato svolto. Sempre in questo anno scolastico abbiamo lavorato alla costruzione di una storia ambientata nel bosco. L’attività si è svolta in fasi successive nelle quali si alternavano l’ascolto di rumori, la rappresentazione grafica e le verbalizzazioni individuali e la condivisione di queste ultime per pervenire ad un testo collettivo. La nostra storia racconta di uno stormo di passeri che vive pacificamente in un bosco insieme a tanti altri animali.
Ma al sopraggiungere della notte, escono dalle loro tane animali meno amichevoli e tra questi, il più temibile per loro è il gufo reale. Questo personaggio è stato descritto dai bambini nei minimi particolari, ma ciò che li ha colpiti di più sono stati gli occhi, capaci di vedere anche la buio.
“Anche lo stormo dei passeri stava dormendo: gli uccellini erano tutti nei loro nidi. Solo uno era rimasto sveglio perché non riusciva ad addormentarsi e vide due occhi grandi, gialli, 'sbirluccicanti', dorati. Erano due occhi incantevoli e l’uccellino rimase fermo come una statua. Gli piacevano tanto. Non li aveva mai visti perché la notte dormiva; era la prima volta che stava sveglio.”
Gli occhi del gufo erano grandi, gialli, “sbirluccicanti”, dorati. Ma erano anche incantevoli. “Che bella parola che ha trovato E. (5 anni)! Ma voi sapete cosa vuol dire incantevoli?”, abbiamo chiesto al gruppo riunito in conversazione. La maggior parte dei bambini ha risposto “belli”. Un bambino ha aggiunto “che incantano”. “E cosa vuol dire che incantano?”. I bambini erano perplessi finche R., una bambina di 4 anni, ha detto che forse voleva dire che facevano rimanere fermi come una statua, che se li guardavi, poi non potevi più smettere di guardarli. Abbiamo controllato sul vocabolario, strumento che noi teniamo sempre in sezione e a cui facciamo ricorso ogni qualvolta dobbiamo scoprire o controllare il significato di parole sconosciute o sulle quali non siamo d’accordo e abbiamo scoperto che R. aveva ragione: "incantevole" vuol dire bello, ma è un bello pericoloso. Grazie a R. abbiamo smascherato il pericolo che si nasconde dietro la bellezza, l’ambiguità insita in ogni incantamento. Cosa c’entra un gufo con la democrazia? Io credo che c’entri molto. Quante promesse incantevoli durante le campagne elettorali; quante proposte incantevoli, dietro cui si nascondono interessi diversi da quelli propagandati? Il gufo (non solo i suoi occhi) è incantevole, bellissimo e pericoloso al tempo stesso. E lo abbiamo capito attraverso un’impresa collettiva di ricerca e riflessione sulle parole che dal vocabolario era partita e al vocabolario è ritornata.