Ad una lettura complessiva, il documento crea imbarazzo per il modo in cui è scritto e per la visione di scuola che lo sostiene.
Durante la lettura dell’introduzione, per la parte relativa ad “Italiano, Lingua”, si fatica a cogliere il senso delle idee, frequentemente espresse in maniera frammentaria, con ridondanze e dimenticanze, inserite talvolta nelle "conoscenze" che tali sempre non sono (p. 40). Tuttavia, un punto è chiaro, grazie alla tenacia degli scriventi che lo hanno insistentemente ribadito: si tratta dell’idea di ricostruire una scuola educante “seria e credibile” con il ritorno a “sani e antichi” modelli culturali capaci di formare la persona attraverso la trasmissione dei saperi disciplinari che, secondo gli autori del documento, sono stati impoveriti dal tentativo di democratizzare il sapere. Usiamo il termine “tentativo”, poiché la democratizzazione della scuola non si è realizzata se non dal punto di vista dell’accoglienza, dell’apertura a classi sociali che altrimenti sarebbero state emarginate. I documenti ufficiali (programmi, Indicazioni…), sovente osteggiati e ingiustamente vituperati, sono rimasti inascoltati e in gran parte inapplicati.
Venendo alle Indicazioni in questione, nell’introduzione all’Italiano (Lingua), si riscontra un tipo di lingua «alta» da studiare nelle sue forme codificate e nella specificità della lingua scritta «nelle forme riconosciute come legittime dalla comunità colta» (p. 35). Una lingua che, spazzando via le caratteristiche delle dimensioni di variazione (diacronica, diatopica, diastratica, diafasica, diamesica), pone al centro, non la varietà degli usi ma un uso codificato (standard, letterario…) regolato dalla grammatica, a garanzia dell’adeguatezza qualitativa e formale. Con questa presa di posizione, si prendono le distanze dal pluralismo e dalla relazione comunicativa in quanto «fenomeni spontanei e varietà d’uso impoverendo drasticamente le potenzialità della lingua, le sue molteplici forme di comunicazione e la stessa evoluzione. Il che rischia di negare le differenze linguistiche e sociali, generando pregiudizi e discriminazioni [1], mentre le Indicazioni 25 sembrano dire: (“Devi dire sempre e solo così. Il resto è errore”)
Riguardo al percorso che porta all’alfabetizzazione funzionale, la quale include quella strumentale, l’attenzione non è rivolta alla competenza linguistica e comunicativa come dovrebbe essere, ma a quella metalinguistica e alla grammatica “intesa come un insieme di regole strutturali di cui avvalersi, che permettono di adattare la lingua alle diverse situazioni comunicative scritte e orali” (p.35).
In aggiunta alla grammatica, che frena usi divergenti e allontanamenti dalla regola, vi si perora la causa del “riassunto” e l’assunzione di “procedure organizzative” (mappe, scalette…) e comportamenti sociali (partecipare a una conversazione in maniera “educata”, ascoltando “rispettosamente” le opinioni dell’interlocutore), trascurando altri aspetti più propriamente linguistici (l’oralità primaria e secondaria, la riflessione linguistica non necessariamente grammaticale, la pratica di una varietà di letture e scritture, la letterarietà…).
Tuttavia, per il riassunto, sarebbero servite alcune precisazioni onde evitare interventi esclusivamente addestrativi: il riassunto è un’abilità integrata, non semplice, su cui occorre lavorare mediante attività di manipolazione testuale e d’intenso sviluppo delle capacità di comprensione testuale e della scrittura in breve. Se tali azioni non vengono introdotte, difficilmente si conducono gli alunni a riassumere. Per l’altro elemento, nello specifico la necessità di assumere determinati “comportamenti sociali” durante il parlato o l’ascolto sarebbe stato sufficiente suggerire un lavoro articolato sull’orale che avrebbe evitato il ricorso a termini non linguistici (“educato”, “rispettoso”…). Bastava raccomandare di prendere in esame le modalità cooperative [2] che regolamentano la comunicazione.
Entrando nel merito degli obiettivi specifici di apprendimento (Lingua), si distinguono particolarmente quelli dedicati alla grammatica o all’ampliamento del lessico, che propongono in entrambi i livelli scolari (primaria e secondaria di I grado) una grande quantità di argomenti, frequentemente inadeguati alle strutture cognitive degli allievi. Un esempio è il seguente obiettivo: “Conoscere e adoperare correttamente i tempi e i modi verbali, a cominciare dall’indicativo per indicare il presente, il futuro e le gradazioni del passato” (p. 39) (alunni delle classi 1°,2°, 3° della primaria). Nell’insieme si prevede un corposo insegnamento grammaticale, senza porsi alcun problema. Sorprende poi la collocazione dell’analisi logica negli obiettivi specifici di apprendimento (pp.37-8)
Per motivi di spazio, tralasciamo altri obiettivi specifici di apprendimento, in particolare quelli relativi alle abilità, tuttavia non sempre ben bilanciati e messi a fuoco. Accenniamo invece ad alcune voci elencate che destano perplessità. Esse riguardano:
Riprendendo il discorso sulla grammatica, che sicuramente preme a molti di noi, il fatto che vi si lavori in maniera equilibrata non è un “problema”. La grammatica, e ancor più la riflessione sulla lingua, quando ben impostata, assolve a compiti nobili che vanno dalla capacità di attivare processi mentali a quella di indurre atteggiamenti interrogativi e metacognitivi in conformità al modello metalinguistico prescelto; rappresenta, dal punto di vista dell’insegnamento, uno dei nuclei fondamentali.
Tuttavia, diversamente dall’orientamento di queste Indicazioni nazionali, essa non ricopre una funzione prioritaria. Non sono le regole grammaticali che insegnano direttamente le abilità del parlare, ascoltare, leggere e scrivere; le migliorano e le sorvegliano, ma non le sviluppano. Per dotare gli alunni di tanta lingua serve altro.
Inoltre, ogni docente sa bene che alunni sprovvisti di lingua non riescono a ragionare sui funzionamenti linguistici, né tanto meno comprendono e interpretano i testi letterari, il cui linguaggio si scarta dalla norma. Attrezzare linguisticamente l’alunno è decisivo, anche per ”fare grammatica”. E questo lo si fa con la pratica di una lingua articolata e stratificata, portatrice delle componenti identitarie delle comunità e di più mondi, in cui la maggioranza di studenti possa riconoscersi, disponendosi positivamente al miglioramento delle proprie potenzialità linguistiche e all’esercizio di capacità linguistiche da acquisire. Qualità, queste, già evidenziate copiosamente dai framework europei, dai documenti italiani e da molti studiosi.
Mentre, in queste Indicazioni, ignorando che la lingua non è un rigido blocco compatto, un risultato compiuto oppure “una struttura astratta del segno al di fuori del quadro di vita semiologica, comunitaria ed esperienziale in cui le parole sono immerse”[3] si sostiene il contrario. Si sposa una concezione di lingua monolitica, dirigendo l’attenzione su principi e norme da applicare, in quanto essenziali all’uso corretto del tipo di lingua individuato. Il “come si deve dire”, secondo regole rigide sovraordinate, prevale sul “come si dice per comunicare” (“puoi dire così, e anche così e anche questo che pare errore o stranezza può dirsi e si dice; e questo è il risultato che ottieni nel dire così o così”) [4].
Una simile scelta mortifica il repertorio linguistico dei parlanti e richiede all’alunno capacità che ancora non possiede inducendolo, a prescindere dalla sua personale comprensione e situazione, a uniformarsi a una lingua data. L’esito finale è l’attivazione dell’apprendimento in pochi alunni con l’esclusione di tutti gli altri.
Comunque, unitamente a ciò, preoccupa la riconferma di una grammatica che, rispecchiando una teoria linguistica e un modello metalinguistico afferente a una lingua esemplare, impone delle norme per l’uso di una lingua elettiva. Altrettanto preoccupano i diffusi richiami alla bontà delle regole, in nome del dovere sociale, che quivi si trasformano in un principio guida, distorcendo così la portata conoscitiva della stessa grammatica: "l’insieme di regole strutturali (l’ortografia, la scrittura in corsivo, la chiarezza, l’esercizio del riassumere, l’apprendimento di poesie a memoria…) permettono di adattare la lingua alle diverse situazioni comunicative scritte e orali […] la chiarezza, conquistata anche attraverso la presa di coscienza delle regole che governano la comunicazione scritta e orale, deve essere presentata come una forma di rispetto per gli altri: dunque anche come un dovere sociale, oltre che come un vantaggio per chi comunica in maniera appropriata" (p.35).
Questi stralci meriterebbero un approfondimento, ma ciò che scrive R. Simone [5]spiega bene cosa dovrebbe essere in ogni caso una grammatica presa sul serio:
non detta norme, ma osserva e cerca di spiegare. Non impone nulla a nessuno: al contrario, osserva come sono fatte le frasi della lingua, come potrebbero essere fatte e come non possono essere fatte e, partendo da queste osservazioni, cerca di estrarre regolarità e principi generali, che gettino luce sulla natura delle lingue e, indirettamente, sul modo di funzionare della mente.
Concludendo, il documento tende a ristabilire l’educazione linguistica tradizionale (forse è meglio dire: “l’insegnamento dell’italiano tradizionale”; la “tradizione” dell’educazione linguistica è quella che piacerebbe a noi!) e a riaffermare, con l’ausilio di una lingua normata, comune a tutti gli italiani, l’ordine e il principio di autorità di un tempo lontano. Non meraviglia quindi che ci si spinga oltre, accarezzando l’idea di trasferire ai comportamenti individuali “l’abitudine al rispetto delle regole”.
Ci fermiamo qui, anche se vi sarebbero tante altre osservazioni da fare (assenza della progressività, tendenza all’enciclopedismo…) e punti da riformulare. Indubbiamente la scuola non aveva bisogno di questa crociata (passatista? tradizionalista? reazionaria?). Molto più utile sarebbe stato orientare tutte queste energie verso la progettazione di una rigorosa formazione in servizio dei docenti. Una formazione improntata alla ricerca e alla sperimentazione di ciò che s’insegna in classe, e non di altro, così da porre ognuno nella condizione di aggiungere tanta lingua a tutti e di attribuire la giusta funzione culturale alla grammatica, restituendole autenticamente la dignità perduta.
[1]X tesi, Principi dell’educazione linguistica democratica, in Educazione linguistica democratica. A trent’anni dalle Dieci tesi, Giscel (a c.di), Milano, Angeli 2007, p.39.
[2]Ad es. le massime conversazionali in Logica e conversazione, P. Grice, Bologna, Il Mulino 1993.
[3]A. Bondi, Il linguaggio come «fenomeno». L'esperienza linguistica fra Saussure e la fenomenologia. p.42. RIFL, n.3, 2010, in Saussure filosofo del linguaggio a c. di E. Fadda. CNRS/UMR 7597- Université Paris-III Sorbonne Nouvelle/Paris VII-Diderot tonibondi@libero.it p.40
[4]X Tesi, Principi dell’educazione linguistica democratica in Educazione linguistica democratica. A trent’anni dalle Dieci tesi, Giscel (a c.di ), Milano, Angeli 2007, p.39
[5]R. Simone, La grammatica presa sul serio, Bari-Roma, Laterza, 2022, p. 21.