“Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo”[1]. Il celebre incipit tolstojano sembrerebbe il modello seguito dagli estensori per gli incipit delle sezioni che introducono l’italiano e la storia nelle Nuove Indicazioni Nazionali. La logica della contrapposizione, infatti, è efficacissima nella sua immediata, vibrante scudisciata. Non si può dire lo stesso per gli inizi alquanto mesti e banali delle altre discipline, benché siano di certo più onesti intellettualmente. Altro segno, se ce n’era bisogno, che sono le discipline di italiano e storia a forgiare la scuola dell’intrepido "buon senso" di Valditara.
Così se nell’esordio del "Perché si studia la Storia" il contrasto, come sappiamo, è tra la civiltà europea e il resto del mondo, in "Perché si studia l’Italiano" - aggiunto nella versione definitiva forse per la riuscitissima, va detto, risonanza mediatica del primo - i poli opposti sono rappresentati in positivo dalle regole e dalla struttura gerarchica che sorreggono la lingua; e in negativo dalle varietà d’uso, dalla creatività e dallo spontaneismo. [2]
Tuttavia la logica della contrapposizione a tutti i costi rischia di annebbiare lo sguardo lucido e credibile che i fautori del documento insieme al ministro pretenderebbero di possedere. E di certo, non solo non potrà aiutare gli e le insegnanti a orientarsi con maggiore sicurezza e determinazione nella difficile impresa di sviluppare un curricolo di grammatica, all’interno della più ampia e complessa educazione linguistica (che nel documento sembrerebbe rimanere ai margini); ma nemmeno guida la commissione stessa a raggiungere gli scopi che si è data insieme al ministro, e che dovrebbero essere ricavabili dagli obiettivi specifici di apprendimento.
Il rischio, insomma, è che l’incipit resti solo un proclama altisonante di corta gittata. Una scudisciata sì, ma eterea, e destinata all’insignificanza.
Intanto, c’è da chiedersi cosa c’è dietro la cieca polarizzazione. Da un lato, la necessità di rimediare al presunto, sempre sbandierato e mai dimostrato, abbandono della grammatica nella pratica didattica; dall’altro un attacco rivendicativo contro le Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica del Giscel. Tuttavia, la grammatica scolastica, intesa qui come grammatica tradizionale normativa, non ha mai davvero subìto contraccolpi nella prassi didattica, se non occasionalmente e a macchia di leopardo, nonostante il costante e appassionato dibattito che ha visto coinvolti diversi linguisti e associazioni di insegnanti nei decenni passati, forse culminato con l’importante Lettera sul ‘ritorno alla grammatica’ di Sabatini del 2004.
Ma un conto è il dibattito pedagogico, i modelli grammaticali proposti, le teorie di educazione linguistica avanzate; un conto è ciò che effettivamente penetra all’interno dei percorsi curricolari, della attività didattiche, dei libri di testo adottati, e soprattutto della cultura degli insegnanti. Che è una cultura pressoché impermeabile: basterebbe studiarsi una ricerca sul campo [3] per confermare infatti quanto la classe docente, fin dallo scossone della scuola media unica del 1962, “cambi per conservare” [4]. Per quel che riguarda le Dieci tesi invece, è stato ricordato più volte, invano, che non sono contro la grammatica, ma contro la separazione tra la grammatica e l’educazione linguistica, separazione che le Nuove Indicazioni vogliono in fondo ripristinare; sono, inoltre, assai critiche verso l’insegnamento della grammatica tradizionale fondato “su teorie del funzionamento d’una lingua che sono antiquate e, più ancora che antiquate, largamente corrotte ed equivocate (…) costretti a imparare paradigmi e regole grammaticali, oggi come oggi gli alunni delle nostre scuole imparano cose teoricamente sgangherate e fattualmente non adeguate o senz’altro false” [5].
Ebbene, ammettiamolo, anche solo scorrendo l’indice dei libri di grammatica in adozione anche recenti (tranne l’eccezione, comunque temperata, del testo curato da Sabatini [6]), questo tipo di insegnamento è stato perpetuato fino ai giorni nostri con disarmante costanza; e se qualche accomodamento c’è stato, nei casi migliori si è sovrapposto all’impianto tradizionale, nei peggiori vi si è mescolato in soluzioni confuse se non contraddittorie. Ed è quest’ultima strada che, anche nell’ultima versione, gli estensori del documento si sono ostinati a battere, come si ricava dagli obiettivi specifici di apprendimento dedicati alla sintassi della secondaria di primo grado. Invece di sviluppare con maggiore chiarezza e ponderazione il riferimento ai modelli grammaticali contenuto nell’ormai fu "Box per i suggerimenti metodologico-didattici per i docenti", hanno pensato bene di darvi un colpo di spugna, come fanno gli studenti quando cancellano un periodo involuto segnalato, perché non sanno come scioglierlo. Eppure bastava portare a maturazione ciò che le Indicazioni del 2012 avevano già timidamente avviato rispetto agli obiettivi della riflessione linguistica che qui si intende analizzare. E invece no, poiché tutto lo sforzo della commissione è teso a non darla vinta alla "scuola progressista" che, a quanto pare, le passate Indicazioni incarnano. Così è stata perseguita una forzata, e improduttiva, separazione tra l’analisi della struttura semantica della frase, che sarebbe appannaggio esclusivo della tradizionale analisi logica, con la sua ripescata tiritera dei complementi diretti e indiretti e di soggetto e predicato mal definiti; e l’analisi della struttura logico-sintattica a costituenti che, benché non siano più nominate, si presume dovrebbe essere condotta con l’ausilio della grammatica valenziale e generativa, anche se riprendono e ridefiniscono con rigore scientifico proprio quelle funzioni grammaticali (prima ancora che semantiche!) elencate nell’obiettivo precedente. Per questo appare ancora più ingiustificabile l’eliminazione del concetto di frase nucleare, già introdotto nelle Indicazioni passate, che i linguisti concordano sia alla base dell’analisi della struttura della frase [7].
Se gli estensori del documento, invece di ostinarsi a voler fare la differenza, avessero davvero perseguito la “valorizzazione dei meccanismi strutturali che regolano il funzionamento della lingua”, si sarebbero messi l’anima in pace una volta per tutte dando spazio e centralità al concetto di valenza del verbo, su cui poggia la struttura della frase, e aprendo in questo modo la strada al superamento di quella artificiosa, ma anche confusa, separazione d’analisi tra il livello semantico e sintattico che hanno preteso stabilire come due obiettivi distinti, persino con modelli grammaticali in contraddizione. E invece no, perché la vecchia analisi logica, così cara al ministro, doveva necessariamente spuntarla.
In realtà, come ci insegna la grammatica valenziale, i due livelli sono intrecciati: l’uno non solo coinvolge, ma determina l’altro. Ed è proprio questa modalità di analisi che diventa potente strumento in mano agli insegnanti per guidare gli studenti a passare dalla grammatica implicita alla grammatica esplicita, partendo cioè dal significato del verbo e dalla sua spontanea rappresentazione semantica nella nostra esperienza di parlanti, che assegna ruoli specifici ai partecipanti all’evento descritto (agente, destinatario, strumento ecc.), per arrivare a comprendere la loro realizzazione sintattica nella struttura argomentale (soggetto, predicato, ecc.), che scaturisce infine nell’ espressione linguistica. Valenza sintattica e valenza semantica [8] in un colpo solo! Il che porterebbe a comprendere quei fenomeni evidenziati nella parte introduttiva per la primaria, in cui si raccomanda di porre l’attenzione degli studenti sul fatto che “il soggetto non ha sempre posizione prevedibile, non è necessariamente anteposto al verbo (ad esempio: ‘a me piace lo sport’)” [9] Eppure lo studente che identifica “a me” come soggetto è sulla buona strada, basterebbe solo attrezzarlo con il concetto di soggetto semantico (a me) e soggetto grammaticale (lo sport), che non sempre coincidono. Un buon esempio di come, attraverso un verbo d’uso comune come “piacere”, si possano trarre delle riflessioni cruciali sul funzionamento della lingua e della comunicazione. Per non parlare poi di come la gerarchia dei costituenti della frase semplice e complessa corrisponde alla gerarchia di informazioni veicolate. Gerarchia rimodulabile, però, quando le scelte testuali e quindi comunicative lo richiedono. Tuttavia il paradigma linguistico e pedagogico di grammatica implicita ed esplicita che, mutuato dalle precedenti Indicazioni, era stato mantenuto nella bozza, nella versione definitiva è stato soppresso, con un conclamato spostamento sulla trasmissione diretta del sistema lingua. Eppure, come ci ricorda Prandi, esistono le regole normative e le regole costitutive. Le prime sono prescrittive e, per così dire, eterodirette; le seconde identificano le regolarità strutturali che sostengono la comunicazione. Vale a dire il patrimonio linguistico (per seguire il campo semantico valditariano) che ogni parlante già possiede e che adopera quasi senza consapevolezza per comunicare con gli altri. Compito dell’educazione linguistica, quindi, è portare a galla il sistema lingua già interiorizzato per rendere lo studente consapevole del suo dominio. In questo senso la grammatica, ci ricorda Prandi, “ha un valore formativo paragonabile a quello della matematica, delle scienze o della musica”. Per cui le “forme spontanee” e “la creatività del soggetto” - menzionate come polo negativo nell’incipit - non possono fare a meno di iscriversi all’interno di questo stesso sistema, come tra l’altro la compianta Ersilia Zamponi ci ha dimostrato.
Se poi per “forme spontanee” si vuole intendere un parlato e uno scritto poco controllati, allora è proprio la consapevolezza e padronanza delle varietà d’uso - secondo il documento da ridimensionare - che possono venire in soccorso sia dell’insegnante sia dello studente. Insomma, talmente preoccupati di inseguire anche forzosamente una qualche “distinzione culturale” [10], e forse di compiacere il ministro, che gli estensori hanno persino rinunciato all’attendibilità scientifica, oltre che all’opportunità pedagogica.
Tutte le scuole felici si assomigliano tra loro, ogni scuola infelice è infelice a modo suo. La commissione delle Nuove Indicazioni e il ministro hanno trovato il proprio. Altro che “era ora” [11].
[1] Lev Tolstoj, Anna Karenina, Einaudi, 1993.
[2] Riportiamolo per esteso: “Il cambio di paradigma delle Indicazioni attraversa soprattutto la disciplina Italiano, riportando al centro dell’apprendimento la ricerca e valorizzazione dei meccanismi strutturali che regolano il funzionamento della lingua, spiegano l'esistenza e gerarchia delle 'regole' e dimostrano l’importanza della sintassi, distinguendosi da concezioni che esaltano un’idea di lingua come fenomeno spontaneo, sopravvalutando le varietà d’uso e la creatività del soggetto”.
[3]Ad esempio, il contributo Maria Piscitelli che si può trovare qui .
[4]“Cambiare per conservare” è un’espressione saliente di Pierre Bourdieu nel suo La distinzione, il Mulino, 2001.
[5] Le Dieci tesi si possono consultare qui https://giscel.it/dieci-tesi-per-leducazione-linguistica-democratica/
[6] F. Sabatini, C. Camdeca, C. De Santis, Sistema e Testo, Loescher, 2011.
[7] Per la verità un opaco accenno risulta nella sezione esplicativa dedicata alla primaria quando si legge “è importante insistere il valore del verbo come chiave per cogliere la struttura della frase”, sebbene tra gli obiettivi la struttura della frase non compaia e il verbo è ridotto al solo paradigma di modi e tempi.
[8] Alvise Andreose, "Nuove grammatiche dell’italiano", Carocci, 2017.
[9] Bisogna sottolineare, tra l’altro, l’incomprensibilità di un passo del genere inserito nel paragrafo sulla lingua della scuola primaria, quando gli obiettivi prevedono esclusivamente l’analisi morfologica e non sintattica.
[10] Bordieu, op. cit, nota 4.
[11] Il riferimento è all’articolo di Loredana Perla in difesa del suo operato e smaccatamente contro la scuola progressista.