C’è un racconto che sarebbe utile proporre ai laudatores del buon tempo antico della scuola italica, che da sempre allignano in giro e di questi tempi si accomodano nelle stanze del Ministero. E’ un racconto che, tra gli altri meriti, affossa in modo definitivo anche un’altra retorica dominante, quella di una scuola depotenziata e rovinata dalle riforme degli anni Sessanta e Settanta, anzi da un generico Sessantotto che le avrebbe tolto il rigore e la serietà su cui cui essa orgogliosamente poggiava e con cui nutriva (o, per meglio dire, selezionava) le giovani generazioni.
Mi sento di invitare caldamente tutti gli insegnanti a leggerlo questo racconto, frutto di una ricerca sul campo del giovane studioso torinese Davide Larocca: nel suo “Bambini di serie B- Le bocciature preventive degli alunni immigrati” (ed. Meltemi, 2025). Un volumetto volume breve ma denso, che ci fornisce una fotografia impietosa e riccamente documentata del modo in cui a Torino, nel periodo che va dagli anni Cinquanta al 1970 fu affrontato il “ritardo” scolastico e culturale dei bambini e delle bambine provenienti dal Sud, al seguito di genitori in cerca di lavoro e fortuna. Un’agevole opera che risponde in modo indiretto (ma potente) anche a certe narrazioni “identitarie” inesatte e puramente ideologiche, come quelle emergenti in alcune pagine delle nuove Indicazioni per il I ciclo.
L’autore si è servito come fonte prioritaria degli archivi scolastici di alcune scuole torinesi, del centro e della periferia, indagando la documentazione relativa a più di 3000 alunni nel quinquennio 1957- 1962 (scelta del periodo non casuale) ma ha allargato lo sguardo alla saggistica e alle fonti storiche e documentarie relative al ventennio 1950-1970, per analizzare un fenomeno che sin dal titolo colpisce il lettore: la diffusa prassi di bocciare, declassare, stigmatizzare in classi differenziali bambini e bambine provenienti dal Sud Italia o dalla provincia agricola negli anni della grande immigrazione a Torino.
Nell’opera viene chiarito in premessa, esaminando i dati dei censimenti, che quella verificatasi nel capoluogo piemontese negli anni del miracolo economico è una vera e propria “esplosione” demografica che porta la città sabauda a superare il milione di abitanti nel giro di poco più di un decennio. L’anno che fa segnare il maggior numero di arrivi è il 1961, con 75.920 persone. In una prima fase, gli immigrati arrivavano in misura consistente anche dal Piemonte agricolo e da altre zone dell’Italia settentrionale, in particolare dal Veneto e dall’Emilia, mentre, a partire dai primi anni Sessanta, la quota di migranti meridionali cresce: nel 1962, ben il 45% dei nuovi torinesi arriva dall’Italia meridionale e insulare. Si tratta di un proletariato molto povero - originariamente agricolo - attirato nella città dallo sviluppo dell’industria, e in particolare dalla FIAT.
L’impatto sull’urbanizzazione e sul sistema scolastico non può che essere abnorme e finisce per trasformare la città: dal punto di vista residenziale, dopo una primo momento in cui gli immigrati trovavano abitazioni di fortuna nel centro della città e mancavano nelle scuole preesistenti gli spazi per contenere gli alunni, crescono quartieri periferici, come Vallette, Borgo Vittoria, Mirafiori, Barriera: quartieri nei quali si realizza spesso una vera e propria segregazione . Tanto le scuole (che vengono costruite ex novo) quanto le nuove case popolari sono “socialmente omogenee”, in altre parole prevalentemente abitate da meridionali.
All’interno di questo quadro, Davide Larocca, con una scrittura vivace e rapida, esamina le condizioni di partenza e le strategie messe in atto a scuola nel momento in cui i bambini e le bambine, figli e figlie di immigrati vi si affacciano: il loro background familiare, le esperienze di scuola precedenti (molti hanno accumulato ritardi, bocciature o si trovano in condizioni di totale analfabetismo), il sovraffollamento delle classi; queste dinamiche si traducono in un vero e proprio “disadattamento”. Ne deriveranno alcune strategie prevalenti: la prima è il declassamento, di cui nel testo ci si occupa in modo specifico, poi dal 1962 l’utilizzo della classe differenziale o delle classi cosiddette “di recupero”, infine la reiterata bocciatura fino ai raggiunti limiti di età.
E’ interessante che proprio nel 1962, anno in cui si impone la riforma della scuola media unica, obbligatoria e uguale per tutti, finalizzata proprio a sconfiggere la canalizzazione sociale, una circolare ministeriale finisca per favorire il ricorso alle classi differenziali, che divengono via via più numerose, affermandosi come strumento privilegiato per la gestione degli scolari difficili e sostituendo in questo la retrocessione. Fino alla loro abolizione nel 1977, ci spiega Larocca, le classi differenziali conoscono un progressivo incremento anche grazie a un consenso politico unanime bipartisan, proveniente cioè anche dalla sinistra che le interpreta come strumento meno segregante rispetto agli istituti speciali.
In qualche caso, ci racconta Larocca attingendo alle fonti storiche e sociologiche, viene giudicato come efficace e democratico il provvedimento la cosiddetta “classe di recupero”, che volutamente non viene detta “differenziale” per mantenerla il più possibile sul piano della normalità e della transitorietà.
E’ il modus operandi di cui ci parla Albino Bernardini nel suo "Un anno a Pietralata" (1968), di diversa ambientazione, quello che ritroviamo nei registri analizzati da Larocca: la classe di recupero raccoglie il disadattamento scolastico (analfabetismo di base, dialettofonia, ritardo scolastico dovuto a bocciature), vissuto da bambini meridionali, la cui unica colpa è quella di aver subito uno sradicamento repentino e non supportato da alcun servizio sociale.
Allora come oggi, appare manifesto che le norme che regolavano i fenomeni fossero del tutto distanti dalla realtà e peccassero di vera e propria ipocrisia: ad esempio, secondo la Circolare Ministeriale n.934 del 1963, riportata nel testo, “nelle classi differenziali devono essere accolti gli alunni che presentino anomalie tali da lasciar prevedere, in seguito a un opportuno periodo di differenziazione scolastica, il reinserimento nella scuola elementare comune(…). È da escludere, in ogni caso, la destinazione alla classe differenziale, allorché il lieve squilibrio tra età anagrafica ed età mentale, o la anomalia del carattere, possano essere opportunamente eliminati nella scuola comune, attraverso l’attenta e vigile azione educativa, nonché mediante un insegnamento adeguatamente individualizzato”.
L’amministrazione sapeva benissimo che di classi differenziali si faceva un uso allargato, specie nei quartieri periferici, senza alcun preventivo accurato accertamento, e spesso esse diventavano semplicemente classi di immigrati. Non più retrocessi, ma ghettizzati.
Si aggiungano come concause, spiega ancora Larocca l’autore, i pregiudizi che accompagnavano questi bambini riguardo al precedente percorso scolare nei luoghi d’origine, pregiudizi spesso legati a dati di tipo oggettivo: l’istruzione dell’obbligo in Meridione risentiva infatti del minor valore che la cultura della società agricola assegnava all’istruzione, di metodi pedagogici arretrati, di strutture carenti e quindi di un maggiore indice di affollamento, e, nello stesso tempo, di una maggiore propensione a bocciare. Problemi che saranno denunciati da molti (viene in mente lo uno per tutti, L. Sciascia de “Le Parrocchie di Regalpetra”, del 1955) ma risolti con molta lentezza. L’atteggiamento critico che gli insegnanti al Nord hanno verso la scuola meridionale sopravviverà in effetti a lungo, mantenendosi vivo molto oltre oltrepassando di molto i limiti temporali dell’ondata migratoria.
Arrivando al cuore della ricerca di Larocca, il declassamento degli allievi del Sud indagato attraverso i registri di tre scuole di quartieri diversi in un quinquennio, tra il 1957 (anno di forte immigrazione ) e il 1962 (quello della circolare che favorirà le classi differenziali), l’autore nota che i dati non sembrano trascritti in modo sistematico: ma questo è di per sé significativo, perché è estremamente probabile che la prassi del declassamento venga considerata da docenti e direttori scolastici talmente ordinaria da non meritare una specifica annotazione.
Tra le cause più frequenti i registri riportano le difficoltà nella lettura e nella scrittura, le lacune in lingua e gli errori ortografici ricorrenti spesso dovuti a regionalismi tipici della propria zona di provenienza, la debolezza in aritmetica e geometria, la mancanza di metodo, il disorientamento legato all’immigrazione e la conseguente indolenza (o al contrario aggressività). A cosa ci fanno pensare queste problematiche “scolastiche”?
Un ulteriore aspetto che appare importante è rappresentato dai tempi con cui si realizza la “retrocessione”: spesso essa viene decisa dopo pochi giorni di frequenza, dopo un’osservazione talmente breve del bambino che lascia intendere che pesino maggiormente, sulla decisione, orientamenti e pregiudizi riguardanti in generale gli allievi immigrati, specialmente meridionali. Anche qui i riferimenti all’attualità potrebbero essere molteplici….
Un’ insegnante di una IV classe annotava: “Inizio dell’anno scolastico. Ritrovo la mia classe: 38 unità di cui quattro nuove iscritte, tutte provenienti dal meridione. La constatazione ha un significato didattico. Tutte e quattro dovrebbero frequentare la seconda!(…)”
Ancora, nei registri non mancano aneddotiche tristemente divertenti: “ È giunto un nuovo alunno da Barletta. Ha una pagella di promozione alla quarta molto strana: media del 1° trimestre, tre, media del secondo, quattro, media del terzo, cinque; scrutinio: promosso con una dicitura inconsueta: “promosso per esperimento”. Io, per esperimento, l’ho fatto leggere e scrivere, non sa fare né l’una né l’altra cosa. Quest’anno, prima di giungere a Torino, non ha frequentato alcuna scuola. Farò tutto quello che potrò ma più che la terza gli sarebbe utile la seconda. [F. S., suo compagno,] s’incarica di aiutarlo”. Il ricorso al peer tutoring è una soluzione improvvisata, forse, ma ancora oggi in moltissimi casi è l’unica praticata con i nuovi immigrati.
In conclusione, leggere il libro di Davide Larocca ci mette di fronte ad una realtà molto dura, rispetto alla quale è difficile ergersi a giudici: pur tuttavia, mentre fotografa il recente passato, il testo ci dà piste di riflessione e suggerimenti per il presente. Ad esempio, quando leggiamo nelle cronache dell’insegnante che l’arrivo di una allieva dall’Australia ha generato entusiasmo e curiosità, non possiamo non rammentare a noi stessi che uno dei fattori della mancata integrazione, allora come adesso, è il pregiudizio neanche troppo latente verso i luoghi d’origine (o se guardiamo al presente, il colore della pelle). C’è una diversità “esotica” che attrae, che viene valorizzata, ce n’è un’altra che spaventa. L’idea del diverso come risorsa emerge sporadicamente nelle carte, senza che la scuola (l’insegnante) ne colga il potenziale fino in fondo:
“5 marzo. L’arrivo di [Wilma] ha entusiasmato le compagne che si sono applicate a ricerche attive sull’Australia. Questa mattina parecchie sono venute a scuola con la cartina geografica per farsi indicare il lontano paese da cui proviene. Una ha portato alcune figurine riproducenti scene di vita australiane e riportanti le principali parole in inglese”.
La normativa attualmente in vigore (a partire dalle Linee guida del 2006, del 2014 e i successivi aggiornamenti legislativi del 2022 e 2024) di certo scoraggia il declassamento, ma non lo impedisce, e i risultati raggiunti sinora non sono positivi , oggi come all’epoca, quando spesso si traducevano in abbandono scolastico.
Larocca richiama gli studi condotti da Fischer [1] in Italia e nei paesi occidentali: sovente il peso delle differenze etniche come causa di insuccesso scolastico è sopravvalutato, mentre viene sottovalutato il ruolo giocato dalle condizioni sociali e familiari. Così, il ritardo scolastico degli stranieri è ancora oggi dovuto in larga parte all’inserimento di tali allievi in classi non corrispondenti alla loro età, a perdite di tempo legate all’esperienza migratoria, all’ elevata mobilità residenziale, causata dalla precarietà lavorativa e abitativa. Le inevitabili difficoltà che si determinano sul piano didattico, sul piano relazionale e lungo altre dimensioni ci richiamano a capire che l’appartenenza “straniera” ha un potere predittivo dell’insuccesso scolastico molto minore di quanto si sia portati a ritenere enfatizzando eccessivamente l’effetto negativo delle barriere linguistiche, che pure si possono superare molto meglio di altre “barriere”.
La ricerca di Davide Larocca costituisce una prova ulteriore di quello che la pedagogia e la didattica interculturale sostengono da decenni, ovvero che l’elemento chiave dell’integrazione è non solo la socializzazione “verticale” con gli insegnanti, ma quella orizzontale con i pari e che vadano evitate tutte le forme di separazione e segregazione, per esempio su base etnica. Non si realizza una scuola inclusiva pretendendo di "assimilare" l'altro ignorandone la storia, anzi addirittura affermando che l'unica visione storica possibile sia quella dell'Occidente , giungendo fino al punto da distorcere la verità dei fatti e il senso stesso di parole su cui da 50 anni la scuola ha investito, come l'individualizzazione o il potenziamento, la cittadinanza. Al contrario, è di tutta evidenza (storica, appunto) che la cultura dell'altro, interpretato come ricchezza e risorsa conoscitiva è essenziale per la crescita sociale degli individui e della collettività.
Basterà a farci riflettere tutti sull’urgenza - oggi più che mai- di un’idea delle pratiche di inclusione più credibile da quella ostentata da chi si appella alla presunta superiorità dei valori dell’Occidente, semmai da ripristinare di fronte ad un nemico inesistente?
[1]"Scuola e società multietnica", 2002.