Quale modello di insegnante per la scuola del futuro, che è già adesso? Il rimpianto – per molti – modello prometeico del dottor Frankenstein che ambisce a fabbricare un altro perfetto sé, con i desolanti risvolti narcisistici che già conosciamo; o quello fin troppo ottimistico – per altrettanti molti – del barone Münchausen che, per salvarsi dall’annegamento, si tira da solo i capelli per tornare a riva, con le disastrose conseguenze che non possiamo più nascondere? O ancora un sempre più diffuso e inquietante RoboCop [1], la cui umanità in gran parte strappata via è stata sostituita da protesi meccaniche, compreso il cervello, programmato per raggiungere obiettivi e conquistare traguardi stabiliti a priori, a cui la situazione, qualsiasi situazione, anche quella mutevole, incandescente, imprevedibile della classe, deve piegarsi per non mancare la prestazione, non deviare dalla formattazione, non piazzarsi ai vertici della classifica?
Nessuno dei tre, naturalmente. Piuttosto, ci suggerisce Philippe Meirieu nel suo Una scuola per l’emancipazione (Armando Editore, Roma, 2019), sarà bene aspirare al modello Geppetto, ebbene sì, il padre per caso del nostro intramontabile Pinocchio, e certo anche madre. Così, il buon falegname, che ha l’umile intenzione di ricavare un burattino da un ciocco di legno, è strabiliato nel constatare che sta invece generando vita, autentica vita. Ed ecco il naso appena modellato che si allunga a piacimento, nonostante i tentativi di Geppetto di scorciarlo; ecco la bocca appena sbozzata, che ride e ride, anche se Geppetto gli intima di smetterla; ecco i piedi appena finiti che già tirano calci. Ed ecco Pinocchio tutto intero, che esce di casa correndo, non appena Geppetto gli insegna a camminare; perché non può aspettare seduto su una seggiola, che il mondo gli venga presentato dal padre e dalla madre, poiché è nel mondo stesso che vuole stare: vederlo con i suoi occhi, interrogarlo con la sua stessa esperienza. Così, il burattino, che Geppetto aveva progettato nella sua testa, con i suoi movimenti definiti e prevedibili, controllati dall’alto con fili invisibili, con i suoi pensieri formulati da una voce esterna, camuffata e imposta, gli sfugge letteralmente di mano. Ma avventura dopo avventura, anche quando Geppetto non c’è più ad accoglierlo, anche quando non è la strada indicata da suo padre e sua madre che Pinocchio attraversa, in realtà è sempre accanto a lui. Eccome se c’è. Da chi altri può fare ritorno, Pinocchio, a chi altri rivolgere il suo sguardo pieno di domande, a chi chiedere sostegno per imparare a decifrare il mondo, che in piccolissima parte ha già vissuto, ma che tanta ancora gli spetta da attraversare?
E poi: siamo sicuri, alla fin fine, che sia Pinocchio l’unico ribelle della storia? O non anche Geppetto, madre e padre insieme, educatore che si lascia irretire piuttosto che annichilire dall’imprevedibilità dell’umano; che rifiuta l’addestramento della “scuola seduta[2] preferendole di gran lunga la “scuola del cammino”[3]; che rincorre i suoi allievi scalpitanti e fuggiaschi, tentando non di stare al loro passo – impresa vana – ma di trovarne uno che concili entrambi, senza la brutale trasformazione degli obiettivi del sapere in prerequisiti di accesso al sapere, e anche senza la cieca attrattiva per l’innovazione a tutti i costi.
Ed è proprio su questo crinale (del resto Sul crinale è il titolo della prima parte del libro) che Meirieu ci invita a tenerci in equilibrio, per non correre il rischio di precipitare o dalla parte degli avversari della pedagogia o dalla parte dei fan della pedagogia. “Bisogna avanzare con mille precauzioni” tra gli uni che scambiano con un colpo da maestro ciò che la scuola dovrebbe insegnare con le precondizioni per giovarsene (i “non sta attento”, “non è motivato”, ”non studia”, “non si impegna”, “le cose le sa, ma non le sa esporre”, “non fa i compiti a casa”: sono lagnanze per l’assenza di certi requisiti presunti necessari, o utili osservazioni per individuare le finalità da perseguire?); e gli altri che si illudono di immergere gli alunni nelle più disparate esperienze e, questa volta con un colpo di magia (o di tecnologia?), ecco che emergeranno le abilità e si costruiranno spontaneamente le conoscenze di cui hanno bisogno. Come riconciliare quindi la scuola unica, che formatta obiettivi e standardizza percorsi, e le scuole alternative che, come in Francia, anche in Italia hanno dato nel tempo vita a esperienze ricche e intense, ma che sono state e sono appannaggio di pochi eletti (a pensarci bene, non è poi così paradossale considerare gli alunni di don Milani come privilegiati)?
Bisogna dunque costruire “una Scuola giacobina nelle finalità e girondina nelle modalità”; mentre oggi accade il contrario, ovvero “la scuola è giacobina nelle modalità e girondina nelle finalità”, lasciando quest’ultime all’autonomia scolastica che, agita come autonomia liberista e non democratica, sostiene la logica della competizione tra istituti limitrofi a colpi di annunci social, trafiletti di giornale, fiere di visibilità (di vanità, verrebbe da dire) per questa o quell’altra iniziativa. Il tutto per rincorrere non gli alunni ma le classifiche (vedi Eduscopio della Fondazione Agnelli), con offerte formative per tutti i palati, che garantiscano alla clientela genitoriale, sempre più invadente e pressante, la richiesta di “rendere dei conti, cioè di garantire il loro rendimento dell’investimento”, sia economico sia emotivo, sul proprio figlio del desiderio[4]; piuttosto di chiedere di “rendere conto” del modo in cui gli insegnanti operano e interpretano il progetto che si è dato la scuola nel suo insieme.
Come uscirne? È nella seconda parte del libro, plasticamente intitolata Nell’arena, che l’autore tenta di darci una risposta, che possiamo riassumere in un unico, ineludibile proposito: riconvertire i prerequisiti che finora un insegnamento vecchio e sfibrato ha voluto imporre per restare comodamente seduto, in obiettivi salienti e generativi che ci esortano ad alzarci e camminare. Così la motivazione si persegue, l’attenzione si forma, la volontà di sapere si desta, il “piacere di apprendere” e la “gioia di comprendere” si scoprono.
Non possiamo possedere ciò che prima non ci è dato desiderare.
Note
[1] Il rinvio alla figura di RoboCop è di chi scrive, sebbene il modello di insegnante asservito alla tecnocrazia trapeli dalle pagine di Meirieu, soprattutto in riferimento alle neuroscienze e all’evidence based education.
[2]Come spiega Enrico Bottero, curatore della traduzione di questo e altri libri di Meirieu, la “scuola seduta” è un’espressione di Adolphe Ferrière in contrapposizione alla “scuola attiva” dei primi del Novecento, quest’ultima messa in discussione per certi versi da Meirieu stesso.