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04/11/2025

Scuole occupate: riappropriarsi del dissenso

di Paola Lattaro

Tra settembre e ottobre abbiamo assistito a un’intensa stagione di mobilitazioni in Europa, e non solo, per quanto sta accadendo nella Striscia di Gaza. In questo quadro, in Italia fanno notizia le occupazioni di numerosi istituti scolastici, a Torino, a Roma, a Napoli e altrove, da parte di studenti e studentesse che sembrano essere in un momento di diffusa riappropriazione di pratiche di dissenso e disobbedienza civile a partire dai luoghi che quotidianamente vivono (le aule delle loro scuole), per restituirli a una dimensione di autentica collettività, liberandoli finalmente da quel soffocante paradigma che continua ipocritamente a raccontare gli spazi del sapere come “neutri e apolitici”. Perché, in maniera subdola e strisciante, la Scuola è un’istituzione tutt’altro che politicamente neutra. Per esempio nel momento in cui apre le sue porte a militari e forze dell’ordine (come capita in maniera sempre più ricorrente, tanto da aver normalizzato il fenomeno della militarizzazione dell’istruzione), oppure quando aderisce attraverso il pcto a una cultura smaccatamente neoliberista, il cui scopo fondamentale non è formare cittadini liberi, ma lavoratori sottomessi e obbedienti, e a tal fine è disponibile a far entrare in classe persino aziende invischiate nella produzione e nel mercato delle armi. Ancora, non sono forse un modo per dare una specifica direzione politica in aula, al di là del volere degli insegnanti, le oscene linee guida nazionali del ministro Valditara ? O il ddl Gasparri, in discussione in queste settimane al Parlamento?  Quello che chiede corsi di formazione presso le scuole di ogni ordine e grado sulla cultura ebraica e israeliana con lo scopo di “contrastare le manifestazioni di antisemitismo incluso l’antisionismo”, sovrapponendo ancora una volta in modo infido e menzognero due pensieri in realtà profondamente differenti, il primo da condannare sempre e comunque, il secondo che, mai come in questa fase storica, è una vera e propria forma di antifascismo. Come si può allora descrivere la scuola come un luogo politicamente neutro quando scelte come queste contribuiscono ad alimentare una precisa visone di mondo? Ed ecco che questa istituzione invece di essere il mezzo attraverso cui si acquisiscono gli strumenti necessari per comprendere e decostruire la realtà nella quale siamo immersi, diventa ancora una volta la versione in miniatura della società che viviamo, e piuttosto che insegnare ai nostri studenti a cambiarla, li porta sempre di più ad assomigliarle. In questo contesto, dopo due anni di genocidio in diretta, con la scuola in colpevole silenzio fino a poche settimane fa e i governi occidentali, a partire da quello italiano, complici delle politiche israeliane, come testimoniato anche da numerosi giuristi, avvocati e associazioni che combattono per i diritti umani (si legga, a tal proposito, l'appello con cui è stato denunciato il Governo Meloni alla Corte Penale Internazionale), o dall'ultimo rapporto della relatrice speciale dell’ONU Francesca Albanese, le occupazioni delle scuole appaiono come un necessario gesto di rottura, capace di  rendere protagonisti (finalmente) gli studenti e opporsi a quella logica per la quale il modo di protestare dei più giovani  va bene se coincide con le modalità scelte dagli adulti. E se, come scrive Paulo Freire in "Pedagogy of Indignation", “it is not possible to separete politics from education”, le occupazioni che stiamo vedendo in giro per l’Italia restituiscono alla  Scuola il suo ruolo politico in un senso alto e prezioso, costringendola a confrontarsi in maniera autentica con la più urgente delle questioni, il genocidio del popolo palestinese, e con i contenuti portati avanti dagli studenti occupanti, che hanno riempito i nostri social con video, iniziative, comunicati e parole potenti, nette, vere. Come docenti, non possiamo non essere contenti di tutto questo. A che serve la cultura se non a schierarsi? Questi ragazzi lo stanno facendo, a partire dai loro corpi,  con i quali si sono riappropriati di spazi che normalmente abitano passivi e indifferenti, e hanno scelto una modalità che magari non è la nostra, di noi adulti, di noi insegnanti, troppe volte benpensanti e imborghesiti dagli anni, tanto da definire “desueta” una pratica di protesta dinamica e dirompente, che crea un disagio (come ogni reale protesta dovrebbe fare per poter essere efficace e catalizzare l’attenzione), e per questo ci costringe, cosa alla quale in classe siamo ormai poco abituati,  a guardarli, ad ascoltarli, a fare i conti con quello che ci dicono. Rispetto alla illegalità delle occupazioni, la storia ci insegna che legalità e giustizia non sempre sono sinonimi e che cambiamenti epocali sono avvenuti grazie a chi ha sfidato evidenti e inaccettabili ingiustizie a norma di legge. Inoltre, come pretendiamo di essere credibili nell’usare questa motivazione per richiedere lo sgombero immediato delle scuole (in certi casi manu militari, vedi richiesta a Napoli al sindaco Manfredi), quando da due anni il diritto internazionale è fatto quotidianamente a pezzi dal governo israeliano sotto lo sguardo silenzioso e complice dell’intero Occidente e abbiamo un Ministro degli Esteri che dichiara in televisione che “quello che dice il diritto è importante, ma fino a un certo punto”. Per non parlare dello sfacciatissimo e indecente doppio standard con cui i governi europei trattano la guerra Ucraina Russia, con il paese di Putin sanzionato in tutti i possibili modi, mentre lo Stato israeliano è lasciato libero di sterminare un popolo a partire dai suoi bambini. Con questi precedenti, mi domando come pensiamo di avere l’autorevolezza per dire ai nostri studenti “state facendo qualcosa di illegale”.  E a proposito della famigerata Educazione Civica con cui ci sciacquiamo la bocca in classe e che quasi sempre si riduce alla richiesta di un tristissimo power point a fine anno, invece di demonizzare percorsi di questo tipo, cioè occupare e gestire spazi comuni rispetto ai quali è per forza necessaria una profonda presa di responsabilità, a cominciare dalla cura e la tutela dei luoghi fisici,  proviamo a riflettere su quanto peso hanno rispetto alla crescita e alla formazione di un adolescente e alla sua trasformazione in cittadino. Non avrebbe forse molto senso ripartire in classe proprio da un’esperienza del genere, e farne patrimonio comune e spunto concreto di riflessione e dibattito, abbandonando logiche punitive e vessatorie? Un elemento degno di nota, poi, rispetto alle occupazioni in corso e che vale la pena di sottolineare è il fatto che ad attivarsi per la Palestina sono state anche scuole con platee studentesche normalmente avulse da coinvolgimenti politici di questo tipo e frequentate da allievi che solitamente nell’immaginario collettivo sono ragazzi di serie b, con meno strumenti per pensare e poche parole a disposizione. Motivo per cui questa occasione è resa ancora più importante proprio dall’aver coinvolto adolescenti che fino a ieri non erano politicamente attivi e che, guardandosi intorno e vedendo cosa stava accadendo in scuole vicine in termini di distanza, ma che di solito percepiscono come lontane, hanno cominciato a informarsi, a porsi domande, ad agire. In un paese in cui a ogni tornata elettorale il “partito vincente” è sempre quello degli astensionisti, non si può pensare di colpevolizzare degli adolescenti per aver cominciato a partecipare “solo” sull’onda della  mobilitazione che sa creare una fase di diffusa disobbedienza civile da parte degli studenti! Non è forse uno degli obiettivi dell’agitazione permanente nelle scuole riuscire a coinvolgere chi non si era mai mobilitato in precedenza?

Il momento di lotta a cui stiamo assistendo, con un numero sempre crescente di scuole occupate che si passano il testimone in questa staffetta del dissenso, è frutto, oltre che di una crescente indignazione per ciò che ci arriva dalla Striscia,  anche di un lavoro fatto nel tempo da una rete tra ambiti diversi nata negli ultimi due anni, che ha gli studenti, medi e universitari, tra i suoi protagonisti

La prima occupazione in Italia per quanto stava accadendo a Gaza c’è stata nel 2023, in un liceo napoletano, dopo un mese dal 7 ottobre. Il collettivo di quella scuola era già attivo sul tema della Palestina e all’epoca decise di mobilitarsi anche in seguito all’appello dell’Università di Birzeit rivolto agli studenti di tutto il mondo. I ragazzi coinvolti furono violentemente attaccati dal mondo adulto non solo per la modalità della protesta, che fu considerata “leso diritto allo studio” (eppure le stesse persone che s’indignarono per una settimana di scuola “persa” erano rimaste nel più assoluto dei silenzi quando nel 2021 in Campania, al contrario di quanto accadeva nel resto d’Italia,  i portoni degli istituti di ogni ordine e grado rimasero chiusi   praticamente per un anno), ma anche per i contenuti. Il bandierone palestinese calato dalle finestre dell’edificio fu, infatti, visto da molti con grande diffidenza. Eravamo all’inizio di quella fase, mai finita, in cui chi provava a denunciare lo sterminio in atto veniva tacciato di antisemitismo, la parola “genocidio” era off limits e non era pensabile un dibattito pubblico sulla Palestina senza che fosse presente anche una voce vicina a Israele. Adesso, per quanto sia sempre in piedi a opera di molti media e del governo questa stessa narrazione che va nella direzione della propaganda filo sionista, le parole che girano tra la gente sono quelle  portate avanti da chi in questi mesi, al fianco della resistenza palestinese, ha provato a ristabilire la verità.  Gli adolescenti che occuparono quel liceo avevano visto più lontano degli adulti con cui si scontrarono e se a distanza di due anni dal 7 ottobre in Italia sarebbero scese in piazza due milioni di persone contro il genocidio, lo si deve pure a tutti coloro che, come quei ragazzi, non hanno mai smesso in questi mesi di mobilitarsi ogni santo giorno, di parlare di Palestina nonostante questo comportasse attacchi continui, di scegliere forme di lotta anche radicali, pagandone le conseguenze. Invece di soffermarci sulla singola occupazione, sarebbe giusto, allora, allontanare lo sguardo e cogliere il quadro complessivo, fatto di tanti tasselli, il cui obiettivo generale è stare col fiato sul collo di quelle istituzioni che ancora continuano a intrattenere rapporti col governo israeliano, mantenendo anche accordi, da cui traggono profitto, che contribuiscono a perpetuare il genocidio. Le scuole occupate sono, appunto, uno di questi tasselli e gli studenti che si stanno mobilitando tutto questo lo hanno visto con chiarezza e andrebbero supportati da noi adulti, non giudicati e puniti, tacciandoli magari, con superficialità, di essere “scansafatiche che cercano un modo per saltarsi qualche giorno di lezione”. Fosse anche solo perché il mondo che gli stiamo lasciando in eredità è così storto e distopico che probabilmente non abbiamo nessuna credibilità per dire loro cosa è giusto e cosa è sbagliato. Possiamo solo accompagnarli in questo momento di luminosa militanza e sacrosanta protesta e, forse, provare a farci contaminare dall’energia e dalla determinazione con cui stanno facendo sentire le loro voci.

 

Scrive...

Paola Lattaro Insegnante di matematica presso un istituto superiore di Napoli. Dottoranda in didattica della matematica presso l'Università Federico II di Napoli; insegnante di laboratorio in didattica della matematica presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Da sempre impegnata in progetti didattici mirati a contrastare la dispersione scolastica e le povertà educative.

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