Home - la rivista - cultura e ricerca didattica - Il "segreto" delle piante

temi e problemicultura e ricerca didattica

26/02/2015

Il "segreto" delle piante

di Marcello Sala

Divulgazione scientifica e linguaggio finalistico

Nello spazio mediatico c’è un grande interesse per “la vita segreta delle piante”, come recita il titolo di un libro di successo di Peter Tompkins e Christopher Bird. Non si tratta di due botanici, ma di due agenti segreti in pensione, autori il primo di Una spia a Roma, The secret of Atlantis, Mysteries of the Mexican Pyramids, La magia degli obelischi, Marco Tropea, Milano,
2001; l’altro de La mano che indovina – L'arte di cercare acqua, minerali ed altre risorse naturali o qualunque altra cosa smarrita, mancante o di cui si abbia bisogno, Armenia, Milano, 1980. L’immagine di Kazzenger di Maurizio Crozza si affaccia prepotentemente…

Botanico è invece Stefano Mancuso, scienziato che dirige un centro di ricerca ma è anche molto presente nello spazio divulgativo mediatico (ricordiamo in questo senso il suo Uomini che amano le piante, Giunti, Milano, 2014), dove riguardo alle piante lancia due messaggi. Il primo: Conosciamo ancora poco il loro mondo, è stato ripreso dal Festival della Scienza di Genova così: “Le piante hanno comportamenti sofisticati ed evoluti, una vita sociale meravigliosamente ricca e, in generale, una affascinante complessità che per millenni è rimasta sepolta sotto la loro apparente immobilità.” [1] Questa affermazione nasconde a mio parere una rimozione: Charles Darwin tra il 1860 e il 1880 ha scritto sette volumi fondamentali non solo sulle piante, ma proprio sul loro movimento e sulla loro sensibilità, questioni che Mancuso sintetizza nel suo secondo messaggio con: È certo che i vegetali hanno una loro, sorprendente, intelligenza”.
Lo scienziato spiega in termini evolutivi le specificità della vita vegetale: le piante non possono fuggire e dunque la loro sopravvivenza dipende dalla possibilità di cambiare metabolismo e anche anatomia (ad esempio, perdere parti di sé senza morire); si sono evolute non come individui indivisibili ma come esseri modulari, non hanno ‘organi’ ma funzioni diffuse, hanno sensibilità diverse e anche superiori a quelle degli animali e sono esseri sociali con intense reti di comunicazione attraverso le radici.

Mancuso parla infine di “intelligenza” delle piante in quanto definita come “capacità di risolvere problemi”. Come si vede, questa proposizione di intelligenza è svolta con una struttura linguistica in cui la pianta è il soggetto delle azioni che fa. È facile da qui arrivare al linguaggio antropomorfico che lo scienziato usa quando mostra i movimenti di un germoglio di fagiolo che, mentre cresce, si muove nello spazio circostante fino ad avvolgersi attorno a un supporto: “il fagiolo cerca un supporto per crescere… sa dov’è il supporto… sta cercando di raggiungere… a tutti i costi… sforzandosi… riesce a… è lo stesso movimento che fa un uomo… si vede proprio un’intenzionalità”.

In una sua conferenza postata su Youtube [2], Mancuso presenta la pianta in modo a mio parere improprio, assimilandone i comportamenti a quelli dell’animale, e quindi dell’uomo. Interpretare il diverso secondo la propria cultura è ciò che gli antropologi hanno imparato a evitare quando contattano culture e modi di vita diversi, se vogliono comprenderli. Anche in biologia l’assimilazione a sé dell’altro passa attraverso il linguaggio e allora, se vogliamo comprendere la vita delle piante, dovremmo non negare i fenomeni che vengono descritti con quel linguaggio, ma cercare di tradurlo nel linguaggio della pianta, ovvero nei termini delle funzioni della pianta, comprese quelle che la mettono in relazione con l’ambiente che la circonda, e delle strutture che le rendono possibili.

Anche Charles Darwin aveva colto somiglianze tra piante e animali, ma nel suo linguaggio l’omologia è la manifestazione di una parentela, della derivazione, attraverso innumerevoli generazioni, da un antenato comune. La comune qualità di esseri viventi si manifesta in certe caratteristiche di base, ma non siamo uguali.
La mia impressione è che proprio il dare per scontato che l’altro sia “come noi” impedisca di conoscere come è fatto e come funziona nella sua diversità. Pensare, sull’onda dell’ “intelligenza” e “intenzionalità”, che le piante “si offendono” o “amano”, dà per noto ciò che invece sarebbe da scoprire. Chi crede di sapere, accontentandosi di una assimilazione a schemi noti, non intraprende percorsi di conoscenza che nascono dallo scoprire di non sapere. Non sono psicologo e non so motivare questo atteggiamento, ma da formatore lo temo (Bachelard parlava della facilità come principale ostacolo allo sviluppo di un pensiero scientifico).

Oltretutto il cuore della proiezione di noi stessi sul resto del mondo vivente sta proprio nell’intenzionalità e consapevolezza (quella che Gregory Bateson chiamava “finalità cosciente”); proprio questa caratterizzazione della natura umana è stata messa in crisi dagli esperimenti di Benjamin Libet negli anni ’70 (ripresi da molti altri tra cui Dylan Haynes con strumenti moderni), secondo cui le strutture del sistema nervoso preposte all’azione motoria entrano in azione prima della decisione consapevole di intraprenderla.
Un fenomeno come il fototropismo delle piante viene spesso spiegato in termini come questi: “la pianta volge le foglie verso la luce per raccogliere più luce”. Nella lingua italiana un verbo come “volge” implica un soggetto attivo dotato di intenzione (la pianta), mentre il termine “per” implica una finalità. Pensare che la pianta sia dotata di queste caratteristiche rientra in quella modalità di pensiero che Jean Piaget ha individuato in una fase di sviluppo del pensiero infantile come “animismo”, ovvero l’attribuire ogni fenomeno naturale all’azione di un soggetto dotato di un’ “anima” come quella umana.

È molto interessante chiedersi perché le persone adulte mantengono questa forma di pensiero, ma il punto è che essa è in totale opposizione al pensiero scientifico. La “rivoluzione” darwiniana (lo è dal punto di vista non solo biologico ma filosofico e culturale) consiste esattamente nel sostituire un pensiero naturalistico (leggi e contingenze) a quello finalistico dominante (“teologia naturale”, “disegno intelligente”). E dunque perché scienziati darwiniani (tutti i biologi lo sono) continuano a usare un linguaggio finalistico? Un indizio per rispondere sta nell’osservare in quali contesti comunicativi lo usano: per esempio la “divulgazione”; e la divulgazione è pericolosamente vicina all’educazione scolastica.

Come ha insegnato Lavoisier (protagonista di un’altra “rivoluzione” scientifica), un nuovo paradigma comporta un nuovo linguaggio. Ma per gli educatori è di vitale importanza il reciproco: linguaggi diversi veicolano idee diverse e quindi è impossibile che le giovani generazioni, e in genere chi non è già esperto, costruiscano una conoscenza naturalistica se si usa un linguaggio finalistico.
L’attribuire a una coscienza e intenzionalità la possibilità di percepire come stimolo una modificazione ambientale e di reagire in modo adeguato in termini di salvaguardia della sopravvivenza e del benessere, porta a dover considerare dotato di coscienza e intenzionalità un normale impianto antincendio. Le reazioni alle modificazioni dell’ambiente nel caso dell’uomo spesso passano da circuiti nervosi complessi che comprendono valutazione, riflessione ecc., ma non tutte… per fortuna, altrimenti come potremmo sopravvivere mentre dormiamo o pensiamo ad altro? Il riflesso pupillare è un esempio di come funzioni basate su strutture biologiche che permettono di evitare danni all’organismo si siano evolute in assenza di una rappresentazione cerebrale.

La biologia sviluppa la domanda base della scienza “come e perché accade ciò che accade?” nei termini di “come funziona e quali strutture organiche lo consentono?”. La teoria dell’evoluzione ha aggiunto come ulteriore domanda “che storia c’è dietro?”, e le risposte riguardano il manifestarsi di modificazioni casuali (per mutazione e soprattutto ricombinazione), il loro rivelarsi vantaggiose per la sopravvivenza e per la riproduzione, il loro crescere statisticamente nella popolazione attraverso le generazioni.

Non abbiamo bisogno di di “disegni intelligenti”, né di “misteri”: ci basta Darwin.

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note

1. S. Mancuso,L'utopia tranquilla delle piante”, Conferenza al Festival delle Scienze di Genova, 2011, reperibile nell'archivio dell'edizione 2011 di Festival Scienza Live.
2. S. Mancuso, “Le piante parlano, il lato animale del vegetale: il fagiolo.
 

 

Scrive...

Marcello Sala Formatore in ambito scientifico, è stato Cultore di Epistemologia alla Facoltà di Scienze della Formazione di Milano Bicocca.

sugli stessi argomenti

» tutti