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leggere la legge, insieme

09/11/2025

Il profumo del pane

di Valentina Mennuni

Se domattina tutti i fornai smettessero di sfornare, la nostra vita senza il profumo del pane avrebbe lo stesso colore? E così, se i meccanici smettessero di aggiustare le automobili, se i parrucchieri smettessero di lavare e acconciare i capelli, o se le sarte smettessero di cucire e i giardinieri di rasare le aiuole, riconosceremmo il merito delle loro pratiche e del loro saper fare?
Considerare più meritevole chi studia latino o filosofia, rispetto a chi impara come fare un impianto elettrico o a chi impara a prendersi cura di un’altra persona, è un salto nel passato, è la riaffermazione prepotente di una politica classista, che quando usa la parola merito si arroga il diritto di decidere cosa è meglio e cosa e peggio e stilare una classifica. 

Il Bonus Cultura, istituito dal governo Renzi nel 2016 con la Legge di Stabilità, nasceva con l’intento di incentivare i giovani a partecipare ad attività culturali, offrendo loro 500 euro da spendere in libri, biglietti per eventi e iniziative artistiche.
Da quel momento, tutte le ragazze e tutti i ragazzi, senza alcuna distinzione, avevano potuto usufruire di questa opportunità in egual misura: un gesto simbolico, un “dono” da parte del mondo adulto a una generazione a cui troppo spesso vengono negate libertà, opportunità e possibilità di scelta. 

Era forse un piccolo strumento che intendeva compensare, almeno in parte, un sistema non ancora in grado di eliminare concretamente tutti gli ostacolidi natura economica e sociale che impediscono la piena libertà, uguaglianza e partecipazione dei cittadini alla vita sociale ed economica del paese, secondo le proprie inclinazioni” (art. 3 della Costituzione Italiana).
Perché, diciamolo chiaramente, molti dei sogni delle/i nostre/i giovani si spengono sul nascere e troppo spesso per mancanza di mezzi, piuttosto che per mancanza di impegno o talento. C’è chi non può partecipare a un viaggio di istruzione, perché la scuola “gratuita” lo è solo fino a un certo punto; chi non può permettersi di iscriversi alla facoltà desiderata per i costi — basti pensare ai testi di anatomia per medicina — o agli strumenti necessari per studiare qualsiasi forma d’arte, la musica, la fotografia.
Esistono famiglie che sostengono spese enormi per dare un’occasione alle proprie figlie e ai propri figli, ma a prezzo di rinunce e sacrifici.
 

Nel 2023, il Bonus Cultura è stato sostituito da due nuove misure: la Carta della Cultura Giovani e la Carta del Merito.
Con la prima si riconosce un sostegno economico ai giovani con ISEE inferiore a 35.000 euro; con la seconda, il bonus spetta solo a chi ha ottenuto il diploma con il massimo dei voti entro i 19 anni, con buona pace di chi ha perso anche un solo anno, magari per motivi che non fanno parte della sfera del merito, ma su questo non esiste appello.
Due strumenti distinti, due platee differenti: nasce così un’altra distinzione, una vera linea di separazione fra chi è riuscito e chi no. Ma non finisce qui: le professioni qualificate, come parrucchieri, meccanici, elettricisti, panettieri e altre ancora, sono
escluse dal nuovo bonus cultura: “Non tutti i diplomati avranno diritto alla carta, ma solo chi taglia il traguardo nei tempi stabiliti, e cioè «non oltre l’anno di compimento del diciannovesimo anno di età». Quanti sono i ragazzi che finiscono le superiori in 5 anni? Poco meno di tre su quattro: il 73,4 per cento (dati Invalsi). Uno su dieci è stato bocciato (il 10,4 per cento), un altro dieci per cento ha lasciato gli studi (9,4 per cento). E poi c’è un altro 5,7 per cento di ragazzi che dopo la terza media ha scelto, invece di un liceo o di un istituto tecnico o professionale, uno dei tanti percorsi di formazione professionale di tre anni gestiti dalle Regioni. Sono parrucchieri ed estetiste, meccanici ed elettricisti, pasticcieri, panettieri e giardinieri, che hanno studiato e ottenuto una qualifica ma non il diploma di scuola superiore. Anche loro saranno tagliati fuori se nel corso del dibattito parlamentare non saranno apportate delle modifiche al testo di legge” (Orsola Riva, sul “Corriere della Sera” del 22 Ottobre).

La retorica del merito, che nel linguaggio politico odierno suona come sinonimo di giustizia e si riversa sulla responsabilità individuale, nasconde un rischio profondo: trasformare la disuguaglianza in scelta personale, come a dire “tu ce l’hai fatta perché ti sei impegnato, chi non rientra nel range non lo ha fatto abbastanza”.

Quando parliamo di merito, invece, dobbiamo avere il coraggio di parlare anche di punti di partenza. Non esiste un merito “puro”, neutro, sganciato dal contesto. Esiste anche una rete di condizioni che rendono possibile o impossibile il successo: la disponibilità economica, il capitale culturale della famiglia, le opportunità offerte dal territorio, la presenza di insegnanti e adulti capaci di credere e di orientare.
Premiare chi “ha meritato” senza chiedersi come
abbia potuto farlo significa ignorare i limiti strutturali di un sistema che non offre a tutti le stesse possibilità di partenza.
E così, mentre qualcuno riceve un premio per il proprio successo, altri — forse altrettanto capaci, ma più fragili per condizioni sociali o economiche — possono restare esclusi, invisibili, non perché “meno meritevoli”, ma perché meno fortunati.

In questo scenario, è urgente ripensare alla radice il concetto stesso di merito.
Il nostro sistema educativo, ancora profondamente segnato dall’impostazione gentiliana, continua a dare maggiore valore alle discipline intellettuali e astratte rispetto a quelle pratiche o tecnico-artigianali.
È l’eredità di una cultura che ha posto la gerarchia dei saperi al centro della scuola: chi studia letteratura o filosofia è ritenuto più “colto” o più intelligente di chi studia per diventare meccanico, parrucchiere, falegname o atleta.
Eppure, questa visione appartiene a un’altra epoca — un’epoca che non riconosceva la dignità delle intelligenze multiple, né la varietà delle forme del sapere e del saper fare, del saper essere, un’epoca ormai lontana.

Oggi possiamo affermare che ogni forma produttiva ed espressiva è un modo diverso di interpretare il mondo e di contribuire al suo progresso.
Il lavoro dell’artigiano, del tecnico, dell’operaio, dell’artista, dello sportivo ha lo stesso valore umano e sociale del lavoro dell’insegnante o del medico… chi potrebbe fare a meno di un buon pane, o di un bel vestito, o di un'automobile o un impianto che funzioni?
Oggi riconosciamo la stessa dignità ad ogni sapere e rifiutiamo qualsiasi loro sistemazione gerarchica. Ogni sapere e ogni espressione, ogni linguaggio espressivo, è portatore di bellezza, ingegno e cultura.
Non è arrivato il momento di rifiutare che la Scuola — luogo in cui dovrebbe formarsi la consapevolezza di sé e degli altri — e la società adulta riproducano ed impongano ancora modelli di gerarchie culturali vecchi di un secolo?

Dovere della Scuola e degli adulti è riconoscere il potenziale di ogni individuo e rispettarlo, così come la nostra prerogativa deve essere accogliere e predisporre lo sviluppo della molteplicità delle forme del sapere, della creatività, della manualità e dell’espressione. Questo significa che, come adulti ed educatori, dobbiamo assumerci la responsabilità di promuovere un’idea di cultura come patrimonio comune che valorizzi il bello, il buono e il sostenibile di ogni persona, predisponendo un ambiente favorevole allo sviluppo armonioso e globale della propria identità, senza rinunce e senza compromessi imposti dalla struttura sociale e culturale esistente.

Il compito della scuola, e più in generale della comunità educante, dovrebbe essere quello di restituire dignità a ogni percorso, di accompagnare ciascun ragazzo e ciascuna ragazza verso la realizzazione del proprio sé autentico — non verso un modello imposto o giudicato “più nobile”.
Educare al riconoscimento di sé significa insegnare che il valore di una persona non si misura dal tipo di studi intrapresi, dal voto di maturità o dal reddito familiare, ma dal contributo che, con passione, competenza e responsabilità, offre alla collettività.
Solo così potremo costruire una società capace di non confondere il merito
con il privilegio, ma piuttosto di identificarlo con la possibilità reale di ciascuno di diventare ciò che è.

Ogni giovane essere umano ha diritto a un’educazione che gli permetta di scoprire e sviluppare i propri talenti, qualunque essi siano.
Il dovere del mondo adulto — e di chi educa — è allora quello di garantire questa possibilità, senza distinzioni di classe, di scuola o di attitudine, perché non c’è cultura senza pluralità e non c’è crescita senza equità.

Come definiamo una società che premia solo chi ha potuto e saputo adeguarsi alle richieste e alle aspettative della società esistente, e non chi ha lottato per esserci?
Il merito, se inteso come concetto vero e a tutto tondo, non deve dividere, ma riconoscere e valorizzare.
È tempo, allora, di superare definitivamente l’eredità di un pensiero elitario e selettivo, e di abbracciare un’idea di cultura che è libertà — quella che non giudica, ma considera percorribile ogni strada possibile.

 

*l'immagine a fianco è stata generata con un chatbot di IA
 

Scrive...

Valentina Mennuni Insegnante nella scuola primaria, CIDI di Rimini

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