“E allora come sono i ragazzi oggi? Come sempre: più o meno generati, affamati di sentirsi unici, voluti al mondo da chi li educa" [1]. Non trovo parole migliori per dire quel che penso dei nostri ragazzi e della nostra missione di operatori della scuola pubblica. Sono parole di Alessandro D'Avenia, insegnante-scrittore, dedicate agli alunni delle diverse generazioni che lui stesso ha visto passare sotto i suoi occhi dal 1995, anno della "sua" maturità da allievo.
Durante gli stessi decenni, si è passati dal telefono a gettoni allo smartphone, dai primi PC ad internet e poi all'intelligenza artificiale - tanto per essere sintetici sul cambiamento tecnologico. Ma, commenta con sentimento D’Avenia, in un mondo che cambia, l’amore (anche quello tra allievo e maestro) non cambia mai.
E nell'istituzione scuola? Ah, sono intervenuti cambiamenti in grande quantità! Almeno così ci sembrava, reduci come siamo dall’eterna riforma degli ultimi tre decenni.
La stagione dell'autonomia compie oggi 25 anni, ma lascia dietro di sé ed oltre molte domande, suscitate ogni giorno anche dal dibattito mediatico sul senso e il fine della scuola oggi. Non è questo il tema della presente riflessione, anche perché molte pagine sarebbero necessarie per analizzare le tante speranze e le tremende cadute di questa stagione.
Vorremmo provare a comprendere invece la ratio di un testo ampio e articolato, a tratti confuso: il Decreto legge n.127 del 9 settembre scorso, che interviene a gamba tesa su più fronti strategici del sistema, nei giorni di inizio dell’anno scolastico, con i tratti della “misura urgente”. Per cogliere qualche elemento di continuità con il passato recente, si può evidenziare che è dagli anni Novanta che ad ogni intervento legislativo fa da sfondo integratore la dicotomia tra due inconciliabili posizioni ideologiche (che agiscono sotto traccia come vere direttrici del cambiamento): la scuola è il luogo in cui ci si emancipa grazie al sapere e non è asservita ad altro che a questa finalità per così dire "umanistica", oppure la scuola deve essere luogo di “addestramento” alla vita, funzionale ai cambiamenti del mercato e come tale deve adeguarsi flessibilmente alle sue richieste? La doppia opzione ci si è presentata, ora appellandosi alla tradizione, ora al mantra del "ce lo chiede l'Europa" ad ogni cambio di governo o di ministro, nessuno dei quali – è bene ricordarlo - si esime da mettere mano a nuove trasformazioni (presentate sempre come epocali e indispensabili) o a nuove linee di indirizzo su qualsivoglia aspetto della formazione scolastica, dall'educazione civica all’uso delle tecnologie, dall’orientamento al… comportamento.
E c’è un’altra costante: i governi e i ministri amano intervenire soprattutto su due specifici aspetti del sistema scolastico: l'istruzione professionale – con la tendenza a spingere sempre di più in direzione del neoliberistico “assorbimento” della scuola pubblica nell’area del mercato e del privato - e la valutazione degli alunni sia sul piano del profitto che della condotta, con il connesso intervento sugli esami finali. E’ cosa assodata. La valutazione ossessiona i governanti quasi più dei governati, più dei genitori di cui spesso ci si erge a paladini. Valutazione, voti, esami: c’è sempre qualcosa di nuovo, anzi di antico, da cambiare. [2]
Il decreto Legge n.127 del 9 settembre coniuga entrambi questi temi: è uno zibaldone significativo, che deve indurci alla riflessione.
Per comprendere meglio la questione va ricordato che - specie negli ultimi anni – assistiamo inermi ad una decisa tendenza a ripristinare un forte centralismo ministeriale, che finisce per erodere dall’interno l’autonomia scolastica, che pure doveva rappresentare, quale fondamento architettonico del sistema, la capacità della singola scuola di progettare, implementare o accogliere proposte che – pur nel rispetto degli indirizzi generali garanzia di uniformità del sistema nazionale - rispondessero alle esigenze specifiche degli studenti e del territorio: l’ autonomia, nel suo lato positivo, andava intesa come spazio privilegiato di mediazione tra l’intenzionalità educativa e formativa del sistema globale e la sua realizzazione e gestione da parte delle diverse componenti della singola comunità: docenti, studenti, genitori. Di fatto, questo spazio si sta tristemente restringendo.
Per i dirigenti scolastici, poi, servitori dello Stato col compito di guidare, organizzare e sorreggere comunità educative responsabili e autonome, l’impatto del neocentralismo è stato devastante: proprio su di essi pesa da qualche anno l’onere di far slittare il proprio ruolo da registi dell’autonomia a cinghia di trasmissione, meri esecutori delle norme, dei decreti e delle ordinanze che li chiamano in causa dall’alto, spesso bypassando gli organismi collegiali di governo della scuola.
Col rischio, almeno per quelli più intenzionati a mantenere il profilo culturale didattico-pedagogico del loro lavoro, di restare stritolati.
Ne è un esempio impressionante il modo in cui proprio nel DL 127/2025 il Ministero, dopo aver per due anni invitato a sperimentare la filiera del 4 + 2 per l’istruzione professionale, decida, lasciandoci a digiuno di ogni informazione sull’effettivo gradimento e funzionamento di questa opzione nelle comunità scolastiche, di rendere obbligatoria per tutte le scuole a indirizzo professionale questo tipo di offerta: e con quale strumento ciò accade? Con un atto di “imperio” che discende dal Decreto direttamente sul dirigente scolastico:
“A decorrere dall'anno scolastico di cui al primo periodo [il prossimo], al ricorrere delle condizioni previste dal presente articolo e dal decreto del Ministro dell'istruzione e del merito, da adottare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione, il dirigente scolastico, nell'ambito dell'offerta formativa erogata dall'istituzione scolastica e in conformità agli accordi di rete da stipulare con soggetti di cui al presente articolo, propone al Ministero dell'istruzione e del merito la candidatura per l'attivazione dei percorsi della filiera formativa tecnologico-professionale"[3]
Sarebbe bastato, fosse solo per buona educazione, inserire un “sentiti gli organismi collegiali”, o prevedere un passaggio in Consiglio di Istituto, che è il vero organo di governo della scuola, fino a prova contraria: ma no, il rischio è che poi qualcuno si opponga ….
E non c’è stato moto di opposizione degno di nota nemmeno lo scorso anno sulla L.150/2024, e sulla relativa ordinanza n.3 del 9 gennaio 2025, attuativa dei nuovi criteri di attribuzione dei crediti vincolati al voto di condotta, criteri che esautoravano le prerogative del collegio. Allo stesso modo oggi nell’opinione pubblica e nelle scuole non sembra ci sia modo di opporsi al divieto di utilizzo dei cellulari alla secondaria, sancito dalla Circolare Ministeriale n. 3392 del 16 giugno 2025.
Proprio in questi giorni, pochi e volenterosi collegi e consigli ne stanno discutendo, semmai accampando ragioni di natura pedagogica ed educativa: qualcuno ingenuamente vorrebbe ancora una scuola che si esprime e non reprime, una scuola che nei riguardi degli allievi vuol con-vincere e non stra-vincere dettando regole comportamentali di tipo autoritario e repressivo. Ormai questo tipo di autonomia non è prevista, tutto avviene in “automatico”, tutto deve diventare “presa d’atto”. il Ministero decide e la scuola esegue. Proprio come una volta, quando i dirigenti erano capi di istituto e la circolare ministeriale regnava incontrastata. Ma sarà davvero così che devono andare le cose? O possiamo intervenire per cambiarle?
E’ stato osservato che nell’opinione pubblica ormai il focus sulla scuola è che essa sia un corso di addestramento ai problemi della vita: e giacché “la vita è una lotta” anche la scuola deve far male e insegnarti la gara, la durezza, il divieto, la sconfitta.
Viene da chiedersi: la “maturità” della scuola, la sua responsabilità sul proprio progetto educativo, dov’è finita? Riposa solo nel nostalgico ripristino del nome che oggi, nel Decreto di cui ci stiamo occupando, viene restituito all’Esame di stato conclusivo del II ciclo?
Proviamo allora a chiudere il cerchio: il Decreto Legge n.127 nel suo titolo sembra occuparsi “urgentemente” di esami finali, ma si occupa di altro. In sostanza esso impone un metodo, anzi lo consacra. Il metodo del “decido io dall’alto”, sia come le cose di scuola si chiamano ( poche righe più avanti, al comma 6 dell’art.1 si mandano al diavolo anche i PCTO e si ritorna alla beneamata formazione scuola- lavoro), sia come le cose si fanno. La scuola è di chi la governa, non di chi la vive e la abita.
Se ritornare a chiamare l’esame finale di Stato “esame di maturità”, in fondo, è solo un esercizio retorico (in Italia, va confessato, tutti continuavamo a chiamarlo così: “signora cara, mio figlio quest’anno ha la maturità”), e se nel contempo il ritorno all’orale su sole 4 materie sembra facilitare la vita agli studenti, e ci ricorda molto da vicino l’esame che, tra il 1969 e il 1998, molti di noi meno giovani hanno sostenuto (con il vantaggio di avere due “membri interni” invece che uno!) , restano una sensazione molto amara e una schiera di domande: la prima, perché? A quale urgenza si sta rispondendo? Si tratta di fumo che nasconde altro arrosto? O ancora: l’idea che per fare i commissari d’esame alla maturità venga prevista per i docenti una formazione specifica (art.1, comma 7), sorta di addestramento, che significato assume in prospettiva futura?
Con tutta evidenza tra le righe si riesce a far passare - ancora una volta - la svolta autoritaria: guai a chi si sottrae per protesta ad una prova d’esame! Ma viene anche da pensare che, in realtà, visto che all’esame finale ormai non ci crede più nessuno, nemmeno il Ministero, lo scopo sia surrettiziamente quello di risparmiare qualche soldo in commissari (e riciclare le risorse per pagarci il MOF, come si legge poche righe appresso, all’articolo 3 del Decreto stesso, attraverso il gioco dei vasi comunicanti).
In altri termini: ancora una volta nessun investimento, ma molta retorica.
Una scuola matura si interrogherebbe ogni volta sulle ragioni profonde, e di certo non si limiterebbe ad eseguire senza discutere, né si perderebbe, come invece spesso accade, in contrapposizioni sterili del tipo “questo mi piace/questo non mi piace”: ma, è triste dirlo, la maturità che pretendiamo dai nostri ragazzi e dalle nostre ragazze spesso si scontra sempre più di frequente con l’inerzia o la confusione degli adulti. Ad esempio, di quei genitori che plaudono al sequestro del cellulare da parte dei docenti, contenti di una scuola che faccia il lavoro “sporco” al posto loro.
Ha scritto Gennaro Matino, parroco di frontiera e grande educatore [4]:
La crisi non è dell’adolescenza. È del mondo adulto. […] I ragazzi stanno solo reagendo all’assenza, la nostra. Ci siamo raccontati che educare significa lasciare liberi, In realtà li abbiamo lasciati soli. Li abbiamo caricati di aspettative senza dar loro fondamenta. Li abbiamo imbottiti di parole, “scegli te stesso”, “segui i tuoi sogni”, “basta che tu sia felice” ma li abbiamo privati della fatica, del limite, della verità. Abbiamo confuso la libertà con l’anarchia emotiva. La realtà? I nostri figli stanno male. E non perché c’è Tik Tok, ma perché dietro non c’è nessuno che regga lo sguardo, Nessuno che dica: “Ci sono. Ti vedo. Ma non ti permetterò di autodistruggerti”. Non è crisi educativa. E’ codardia adulta. [...] Basta convegni, slogan, palliativi. Iniziamo a fare una cosa radicale: esserci. Con tutto il peso, la fatica, il rischio del mestiere di adulto.
Per fare questo non servono riforme. Ma una scuola che rinunci ad una cornice ansiogena e stressata per recuperare la propria capacità d’azione e le proprie finalità umanistiche e educative .
[1]A. D’Avenia, “Non cambi mai”, Corriere della Sera del 15/09/25.
[2] Cfr. A.Palmieri – M.Ambel, "La maturità della scuola – Un secolo di esami di Stato tra letteratura, politica e società", TGbook, Insegnare, 2019: un volume che ripercorre fibrillazioni e cambiamenti introdotti (e indotti) nel sistema scolastico attraverso la riforma degli esami finali.
[3]D.L. n.127 /2025, art.2.
[4]G. Matino, “Se gli adulti non hanno coraggio”; Il Mattino di Napoli, 30 marzo 2025